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OSSERVAZIONE VERIFICA

2. Il laboratorio come risorsa didattica (Daniela Frison)

2.1. Fondamenti storico-epistemologici: il laboratorio nella cultura pedagogica del Novecento

2.1.1. Introduzione: le scuole nuove e l’attivismo

Verso la fine del diciannovesimo secolo una sorta di rivoluzione copernicana stravolge l’ottica con cui la pedagogia guarda al rapporto insegnante – allievo. Tale rivoluzione prende il nome di “puerocentrismo” e indica uno spostamento del centro dell’educazione dall’educatore all’educando. Ne consegue una necessità di individualizzazione che prende piede dalla consapevolezza che ogni allievo apprende secondo un ritmo ed un tempo personali che comportano la rinuncia ad un metodo “collettivo”. Ogni educando possiede interessi, esperienze, iniziative propri e queste differenze individuali devono essere assolutamente valorizzate e mai appiattite. Il fanciullo con i suoi bisogni è sì centro dell’educazione, ma un centro “non angustamente individualistico” bensì “impegnato in un’espansione sociale, in relazioni umane, nell’adattamento all’ambiente in cui le cose, le persone e le istituzioni si configurano e si muovono in una determinazione storica”136.

E’ fondamentale che l’attività scolastica risponda agli interessi dei discenti e da essi venga continuamente arricchita e stimolata: solo così può adeguatamente rispondere ai loro bisogni. La cultura infantile è, infatti, determinata da “la necessità del riferimento umano, la forma attiva e pratica di apprendimento, l’inclusione di elementi affettivi e personali, il bisogno di comunicazione e di espressione”137.

E’ in quest’ottica che si muove l’attivismo ed è in questa dimensione che trova ragion d’essere il laboratorio come forma espressiva. Il fenomeno delle scuole nuove e la filosofia attivistica che lo supporta si fondano propriamente su questa attenzione alla globalità delle esperienze infantili le quali devono, secondo gli autori, penetrare le mura scolastiche e contribuire all’adempimento delle funzioni del processo educativo. Il principio di base che sottende alla fondazione delle scuole nuove è, dunque, sempre lo stesso mentre varie sono le realtà culturali e scolastiche in cui esse sono sorte a partire dall’opera di Cecil Reddie e di J. Haden Badley. Le scuole di Abbotsholme e di Bedales (fondate rispettivamente nel 1889 e nel 1892) rappresentano infatti il primo tentativo di favorire lo sviluppo armonico della personalità del fanciullo. La scuola nuova è un laboratorio di pedagogia pratica che sorge prevalentemente in campagna per favorire il rapporto dell’alunno con l’ambiente circostante: l’ambiente naturale stimola, infatti, lo sviluppo del bambino e gli permette di accostarsi alle attività lavorative. La città non deve trovarsi, però, troppo lontano poiché fondamentali sono gli stimoli culturali che essa può offrire.

L’insegnamento è, dunque, basato sui fatti e sulle esperienze, sull’attività che nasce dagli interessi spontanei del bambino il quale opera nello spirito della coeducazione e del lavoro manuale ed è impegnato nell’esercizio della responsabilità. Accanto alle esperienze pratiche quali sono state, in seguito, l’École de

l’Ermitage sorta in Belgio per opera di Ovide Decroly, psicologo-pedagogista belga, o l’istituto fondato a

Ginevra dal pedagogista svizzero Édouard Claparède, o ancora in Italia la scuola nuova dell’educatrice milanese Giuseppina Pizzigoni per citare soltanto alcuni tra gli esempi celebri di scuole nuove, è fondamentale soffermarsi sui tentativi di teorizzazione.

Il pensiero di pedagogisti celebri quali John Dewey e Célestin Freinet e il contributo da loro dato alla definizione di una “nuova educazione” deve essere considerato alla luce del periodo storico in cui esso va affermandosi. La pedagogia del XIX secolo ha esordito con due grandi esperienze educative, il pestalozzismo e il froebelismo le quali hanno lasciato ben presto via libera alla didattica oggettivistica dello herbartismo quasi rinunciando all’eredità di pedagogisti della portata di Rousseau, Pestalozzi e Froebel che, per primi, avevano teorizzato l’educazione naturale. Gli ultimi decenni del secolo sono però dominati da correnti antiintellettualistiche e antipositivistiche.

E’ l’età della seconda rivoluzione industriale, l’epoca della grande fabbrica. Si assiste all’emergere della società di massa e a grandi fenomeni sociali quali la crescita demografica e l’urbanizzazione, accompagnati da una ridefinizione della classi sociali: si riduce la popolazione contadina e sorge un nuova forma di borghesia imprenditoriale mentre la figura esemplificatrice di questo periodo è l’operaio, il lavoratore di fabbrica, privo di qualificazione e addetto ad operazioni semplici. La società del tardo ottocento non muta

136 F. De Bartolomeis, Introduzione alla didattica della scuola attiva, La Nuova Italia, Firenze, 1958 , p. 58. 137 Ivi, p. 59.

però solo nei suoi aspetti economico-sociali ma anche in quelli culturali: la crescita della scolarizzazione è affiancata da uno sviluppo dei mezzi di comunicazione tradizionali – i giornali, i libri – e dalla diffusione di nuovi strumenti comunicativi quali il telegrafo, il telefono, la radio. Nell’ambito politico il potere della borghesia liberale reso possibile da una situazione di suffragio ristretto inizia a vacillare grazie ad uno dei più grandi eventi dell’epoca ossia il sorgere del partito di massa: le masse entrano come protagoniste nella vita politica.

E’ in questo contesto che il nucleo del pensiero positivista viene messo in discussione. Si accentua il carattere pratico-operativo del sapere scientifico portando in primo piano la soggettività del ricercatore rispetto all’oggettività dei fatti. Questa visione strumentale della scienza culmina nel cosiddetto pragmatismo di cui Dewey è il massimo esponente novecentesco.

Nel tentativo di teorizzazione operato dal pedagogista francese Roger Cousinet, esponente dell’attivismo europeo, quest’ultimo viene “scomposto” in tre correnti principali: una corrente filosofica, una corrente mistica e una scientifica. Per quanto concerne la prima egli fa riferimento proprio al pragmatismo mentre colloca nell’ambito della corrente mistica la rivalutazione dell’infanzia e della fanciullezza e la grande fiducia riposta nel singolo bambino. E’ necessario liberare il fanciullo dal peso dell’adultismo difendendo il suo diritto a vivere la propria vita superando la visione del bambino come essere imperfetto e incompleto e riconoscendolo, al contrario, come soggetto attivo, protagonista di un continuo sviluppo. La corrente scientifica è invece collegata da Cousinet alla scienza psicologica e alla grande importanza che essa assume in questo periodo in ambito pedagogico. Il riferimento alla psicologia è uno tra gli aspetti fondamentali su cui i teorici si soffermano a riflettere. Accanto ad esso viene percepita la particolare importanza di altri principi dell’attivismo: il collegamento attivismo – democrazia strettamente connesso con i concetti di autogoverno e cooperazione e le attività espressive e manuali come componenti irrinunciabili del percorso scolastico.

La scuola rinnovata “rispetto alla scuola di vecchio tipo” permette, infatti, la “massima considerazione di ogni oggetto o disciplina in relazione con gli interessi vitali dell’educando; addestramento dell’individuo nel lavoro manuale; esercizio dei poteri attivi dell’educando nel governo di sé”138. Nella classe – laboratorio,

dunque, il lavoro impedisce un’attività che non sia esclusivamente “libresca e compiuta nell’immobilità del corpo, ma esteriore. L’educatore propone agli allievi una serie progressiva di occupazioni manuali, dai disegni sulla sabbia […] all’esercizio delle industrie semplici, come quella del fornaio, la tessitura […] fino alle collezioni, alle composizioni teatrali e alla costruzione di apparecchi scientifici: occupazioni che, mentre rendono necessaria la collaborazione degli alunni e promuovono il senso sociale, concentrano l’attenzione su oggetti di studio e contribuiscono all’accrescimento della cultura”139. Per quanto riguarda la democrazia si

sottolinea la necessità che il fanciullo maturi quelle capacità di autocontrollo e autodirezione che all’interno di uno stato democratico si sostituiscono all’esercizio dell’autorità esterna. Gli alunni vengono pertanto organizzati in “comunità di lavoro” ed esercitano gli stessi poteri che spettano ai cittadini di uno stato. Se ciò acquisisce in determinati paesi, quali la Russia, una connotazione politica, è, però, la finalità educativa che preoccupa maggiormente: il fanciullo, infatti, prende coscienza attraverso questo esercizio delle proprie responsabilità. E’ necessario rinunciare all’ottica che vede il bambino come un suddito rispetto al sovrano senza però cadere nell’errata convinzione che “la libertà dell’alunno sia in proporzione inversa coll’autorità del maestro e che quindi quella si avvantaggi di quanto è perduto da questa”140.

Il ruolo dell’educatore, infatti, è quello di predisporre le attività dei fanciulli dissimulando con cura il suo intervento. La didattica dell’attivismo si fonda, dunque, sulla necessità di una cooperazione tra maestro e scolaro e sulla rinuncia ad un metodo sempre valido e prefissato.

La differenza fra scuola tradizionale e scuola attiva sta, quindi, nel fatto che nella prima è prevista una semplice trasmissione delle materie d’insegnamento mentre nella seconda il fanciullo viene posto nelle condizioni di assimilare secondo i propri ritmi e bisogni.

Da ogni fronte si sottolinea, inoltre, l’esigenza di sviluppare nel fanciullo le facoltà creatrici. Il bambino deve poter dare libero sfogo alle sue capacità inventive e per fare ciò è necessario che abbia a sua disposizione il materiale per le attività creative più disparate: pittura e disegno, incisione su linoleum, ritaglio, tessitura, ceramica, fabbricazione di strumenti musicali, marionette… Tutto ciò si sviluppa in un’intensa vita sociale in cui diventa fondamentale la capacità di controllo. L’autogoverno viene messo in primo piano accanto ad “una concezione sociale e culturale del lavoro”. Viene posto l’accento anche

138 L. Stefanini, Mens Cordis.Giudizio sull’attivismo moderno, CEDAM, Padova, 1933, p. 233. 139 Ivi, p. 256.

“sull’importanza dell’espressione, dai giuochi ricreativi ai giuochi drammatici, dalla raffigurazione grafica e plastica alla composizione scritta; l’importanza data a quel complesso di relazioni sociali che richiede per via naturale l’autocontrollo e l’autogoverno”141. Si sottolinea anche l’importanza delle attività infantili che si

caratterizzano specificamente in rapporto alle motivazioni dei fanciulli: l’esplorazione dell’ambiente, le relazioni umane, le attività espressive, la vita affettiva, il possesso delle cose e infine le attività costruttive. Il costruire, specificamente, rappresenta “una forma genuina di conoscenza” che scaturisce dal contatto attivo e sperimentale con i materiali e “le cose da conoscere”142. Il processo di conoscenza ha luogo mediante le

attività espressive che permettono al fanciullo di esprimere il suo modo di sentire la realtà e di formulare delle interpretazioni circa i fatti e gli eventi che lo circondano. Tra le attività sociali da sviluppare in classe trovano spazio i lavori manuali, il canto, la musica, le danze, la drammatizzazione e il teatro, le feste e lo studio dell’ambiente. E’ inoltre costante il riferimento ad una educazione su basi psicologiche secondo la quale l’attività espressiva ed artistica viene concepita come una forma prevalentemente senso-motoria della conoscenza: alla scuola attiva spetta, a riguardo, il merito di aver riconosciuto diritto di cittadinanza alle forme creative.

Il pensiero di alcuni tra coloro che hanno tentato una teorizzazione delle componenti distintive della scuola nuova dimostra come alcuni principi cardine siano condivisi da tutti. L’aspetto che, in questa trattazione, maggiormente interessa è il ruolo riconosciuto alle attività manuali, ruolo messo in rilievo da alcuni esponenti dell’attivismo come, tra i più celebri, John Dewey e Cèlestin Freinet, Ovide Decroly ed Édouard Claparède e, in Italia, Maria Montessori, Giuseppina Pizzigoni e Maria Boschetti Alberti.

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