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Carlo Sis

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neogreci, evocando i suoni e i profumi di una salmodiante cerimonia in un interno denso di citazioni coltissime. Anche in Italia – e con mag- giore predisposizione all’aff ondo sentimentale – i ricordi e le suggestioni d’Egitto trovano spazio in vari ambiti della cultura e del gusto grazie ai documenti riportati in patria da Ippolito Rosellini e da Gerolamo Segato i quali, negli anni della Restaurazione, contribuirono a diff ondere la conoscenza dei reperti svelati dagli scavi e, con essi, a favorire quel sin- golare amalgama di verità storica e di leggenda che sin dalle prime mani- festazioni dell’egittomania – si pensi alle incisioni di Giovanni Battista Piranesi o alla fortuna del gusto egizio nell’architettura e negli arredi del neoclassicismo – aveva sedotto letterati e artisti in cerca di evasioni este- tiche e spirituali. Ne La moglie di Putifarre, dipinto da Domenico Morelli intorno al 1864, il corpo nudo della donna ornato di monili preziosi emerge torpido entro una stanza decorata da fi gure e geroglifi ci che non ambiscono a restituire l’immagine didascalica di un luogo d’Egitto ma piuttosto a indagare, alla maniera di Gautier, su un mondo di remote e vaghe allusioni, sostanzialmente infedele al dato della storia per divenire frammento palpitante di un’esperienza poetica sollecitata nell’artista dalla conoscenza di epoche già sontuosamente incrostate di passioni, a volte indicibili. Prima a Milano nel 1865, quindi al Salon di Parigi del 1867, Federico Faruffi ni esporrà un dipinto altrettanto implicato nella lettura emotiva e torbida del repertorio egiziano, Il sacrifi cio d’una vergine al Nilo, imponente messa in scena dominata in primo piano dal corpo esanime della giovane vittima trasportata dalla corrente del fi ume mentre sullo sfondo il coro dei sacerdoti e delle sacerdotesse, posti su un alto stilobate istoriato, accompagna il rito dell’acqua lustrale e il compianto dei parenti quasi prefi gurando in immagine il “tripudio dei sacerdoti” e la morte degli amanti mirabilmente contrapposti nella stessa soluzione scenogra- fi ca che Verdi adotta nel fi nale di Aida.

“Ho letto il programma Egiziano. È ben fatto; è splendido di mise en

scène, e vi sono due o tre situazioni, se non nuovissime, certamente molto

belle”5, scriveva il musicista a Camille Du Locle il 26 maggio 1870,

dimostrando l’immediata adesione a una storia non convenzionale e anzi feconda di intense passioni che, come Verdi farà sapere a Ghislanzoni, il librettista non avrebbe dovuto subordinare al vincolo del ritmo, della rima: “[…] ma io quando l’azione lo domanda, abbandonerei subito ritmo, rima, strofa; farei dei versi sciolti per poter dire chiaro e netto tutto quello che l’azione esige”6.

Un’istanza di metodo che risulta coerente con l’innovazione musicale di

Aida ma anche con il clima fi gurativo cui appartengono i quadri egizi di

Morelli e di Faruffi ni, concepiti in anni in cui il predominio del positivi- smo convinceva gli artisti a rappresentare la realtà senza trascenderla e ad aff rontare quindi il soggetto storico con le sollecitazioni della moderna inquietudine. Verdi fu amico e committente di Domenico Morelli e con lui intrattenne una corrispondenza che, a partire dagli anni set- tanta, copre il momento più sperimentale del compositore e svela il suo sincero entusiasmo nei confronti della pittura dell’artista napoletano, al

“…COSE NON VISTE MA VERE E IMMAGINATE ALL’UN TEMPO”. NOTE DI EGITTOMANIA VERDIANA 119

quale fra l’altro il musicista confi dava le proprie convinzioni estetiche in un serrato dialogo che fa presumere non poche affi nità di gusti e senti- menti. Anche per Verdi la varietà dei generi e degli aff etti rappresentava la libertà creativa contrapposta ai canoni statici e severi dell’Accademia, e l’ispirazione non poteva che dipendere da un soggetto studiato, cioè tratto dalla memoria storica e letteraria, ma soprattutto sentito, cioè pen- sato affi ne alle intermittenze sentimentali d’una vita veramente vissuta. Per fare un esempio, Morelli scriveva al maestro, a proposito del bozzetto di un quadro orientalista al quale stava lavorando:

Alle volte penso che voi non amate la pittura gaia ed io con questo quadro mi spingo in una festa di colori: chi sa se riesco a farveli amare. Figuratevi, il terreno è smaltato di fi ori gialli, siamo quasi in riva di un lago azzurro, la gente che si move è gente d’Oriente, la luce è viva, cruda, spietata.

E, forse non a caso, nella stessa lettera del 1873 Morelli dichiarava la sua ammirazione per Aida:

Voi non amate i pianisti e io sono debitore ad una pianista gentile perché mi ripete l’Aida, e posso comprendere tanta roba che mi era impossibile con la distrazione del teatro. La preghiera nel tempio di Vulcano me la fo ripetere fi no alla stanchezza, e mi commove sempre come cosa nuova; anzi, ogni volta che la sento, mi pare di scoprirvi nuove bellezze. Oh! Se si potesse dipingere.7

Questa e altre lettere attestano quindi il dialogo costante fra il pittore e il musicista su temi di interesse reciproco rivolti a instaurare l’effi cace osmosi fra narrazione musicale e traduzione fi gurativa, in vista del risul- tato compiutamente poetico che Morelli riconosceva appunto all’opera egiziana di Verdi e proprio nel momento in cui egli stava lavorando a sog- getti, a suo dire, “beduini” i quali piaceranno molto al maestro di Busseto che nel 1876 acquisterà infatti un quadro di notevole suggestione, Gli

ossessi, (ill.3, tav. 26) ambientato da Morelli nella luce abbagliante di un

Egitto che le fotografi e di quegli anni facevano ulteriormente conoscere,

3. Domenico Morelli,

Gli ossessi, 1876.

Milano, Casa di Riposo per Musicisti, Fondazione Giuseppe Verdi