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Carlo Sis

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le fonti principali dell’egittologia ottocentesca in vista, appunto, d’una restituzione quanto più pos- sibile fedele agli originali per ottenere quel “color locale” che avrebbe dovuto costituire la novità dell’allestimento scenico rispetto alle soluzioni adottate da precedenti imprese più inclini alla fan- tasia e all’eclettismo stilistico, o alle metafore mas- soniche che avevano attribuito ulteriore mistero alle scenografi e di Karl Friedrich Schinkel per il

Flauto magico di Mozart (1819). Ambientazioni

egizie si erano già viste alla Salle Le Peletier di Parigi nel Moïse et Pharaon di Gioacchino Rossini (1827), con le scenografi e di Pierre-Luc-Charles Cicéri e di Auguste Caron; e ne L’enfant prodigue di Daniel-François-Esprit Auber (1850), con le scene di Charles-Antoine Cambon e i costumi di Paul Lormier, frutto di dettagliate ricerche svolte presso le biblioteche e nella Sala egizia del Louvre con risultati, quindi, di maggiore vicinanza ai modelli originali e al meticoloso lavoro di Mariette3.

Quest’ultimo si era d’altra parte convinto d’aver superato un’egittomania di maniera grazie anche alla singolarità del soggetto da lui stesso proposto all’attenzione del librettista e del compositore ita- liani, nel quale le forti passioni, non prive di ana-

logie con l’analisi dei sentimenti contemporanei, agivano su uno sfondo vero e immaginato a un tempo come piaceva agli intellettuali del secondo Impero, disgustati dal ritmo del progresso e dalla banalità della vita quoti- diana, tentati di conseguenza dal fascino di evasioni colte ed emozionanti. Fra gli altri, Théophile Gautier aveva risposto al lamento del cuore e dei sensi oppressi dal grigio fl uire dei giorni riversando nella sua prosa ales- sandrina la ricostruzione di un Egitto illuminato dai colori che gli esteti d’Occidente amavano anteporre alle crude evidenze del realismo: Une

nuit de Cléopatre (1838) e Le roman de la momie (1857) corrisposero infatti

a quel vagheggiamento di antichissime civiltà che le scoperte archeolo- giche venivano nutrendo di reperti seducenti ed enigmatici, straordina- riamente predisposti al cesello letterario, alla metafora poetica, al prelievo capace di trasferire sulla pagina la perfetta anastilosi di ambienti e costumi sottratti alla fi lologia e restituiti a una lirica fragranza di vita.

La fedele restituzione dei monumenti egizi perseguita da Mariette nel curare la messinscena di Aida sembrò corrispondere per certi aspetti a quelle istanze di verità e all’implicita dialettica fra antico e moderno che si manifestava in particolar modo nelle architetture in stile edifi cate in varie città europee, dalla Egyptian Hall di Londra (1828) al Padiglione degli elefanti dello zoo di Anversa (1855-1856), nei quali la citazione dai monumenti dell’Alto Egitto si inscriveva nel tessuto urbano intro- ducendo temi d’evasione nell’architettura prevalentemente anonima e

1. Girolamo Magnani,

Uno degli ingressi della città di Tebe. Aida,

atto II, scena II, 1871. Milano, Teatro alla Scala

2. Karnak, portale e tempio sud, da Description de l’Égypte, ou Recueil des observations et des recherches qui ont été faites en Égypte pendant l’expédition de l’Armée française, 23 voll., de l’Imprimerie Nationale, Paris 1809-1818: III (1809), Antiquité, tav. 49

“…COSE NON VISTE MA VERE E IMMAGINATE ALL’UN TEMPO”. NOTE DI EGITTOMANIA VERDIANA 117

funzionale delle città. Lo stesso Mariette aveva edifi cato una sua maison

de rêve per dirla con Gautier – quando fu chiamato ad allestire il Parco

egiziano all’Esposizione Universale di Parigi del 1867, per il quale ideò un tempio ispirato ai mammisi di Denderah e di File, preceduto da un viale di sfi ngi e da una porta trionfale che sortì un notevole eff etto sce- nografi co e pittoresco apprezzato, fra gli altri, da Victorien Sardou che, a Esposizione conclusa, si assicurò le sfi ngi per farle trasportare nel suo giardino di Marly-le-Roi4. All’interno del tempio erano esposti alcuni

capolavori del museo di Boulaq insieme alle riproduzioni della tomba di Ka a Menfi , delle stele di Ti e di Ptahhopep e di altre importanti opere dell’arte egizia selezionate da Mariette per illustrare i progressi delle cam- pagne di scavo: un’idea espositiva che incontrò il favore del pubblico, il quale fu impressionato dalla perfezione dei calchi tratti dagli originali e dalla qualità delle parti dipinte eseguite da un peintre d’histoire sotto il diretto controllo dell’esigente archeologo. Tra gli originali, risplendevano i gioielli della regina Ahhotep che destarono l’entusiasmo dell’impera- trice Eugenia e il suo desiderio, inascoltato, di trattenerli a Parigi; dove tuttavia abilissimi artigiani ne seppero conservare la memoria quando fu il momento di lavorare ai costumi di Aida, collaborando a un’impresa tenacemente sorvegliata da Mariette il quale si era accollato il compito di fornire ai decoratori e ai costumisti parigini, ritenuti i più abili sul mer- cato, tutti i sussidi storici e archeologici necessari a garantire, nei minimi dettagli, la veridicità della rappresentazione. L’aver affi dato a un pittore di storia il compito di imitare le smaglianti cromie dell’arte egizia segnala, d’altra parte, la consuetudine intrattenuta da Mariette con gli ambienti dell’Accademia in anni in cui la pressione delle poetiche del realismo aveva sollecitato la reazione del versante idealista, il quale farà propria un’arte che non chiedeva la comprensione e il facile assenso ma che si sarebbe concentrata nello sforzo di realizzarsi al di là dei rapporti di vita, in traccia di ineff abili sintonie ricercate appunto nei domini dell’antico identifi cato ora nel sogno pompeiano, ora nel molle fascino dell’Oriente, ora nella brutale maestà di Cartagine. L’Egitto fa parte di questo labo- ratorio dell’immaginazione sontuosa e i pittori ne estrarranno tutte le risorse da impiegare nella raffi gurazione di storie sacre o nell’evocazione di arcane cerimonie, mossi dalla stessa ansia di penetrare l’enigma d’una civiltà sepolta che gravava le pagine neoegizie di Gautier.

Fra i pittori più inclini alla parafrasi archeologica, Adrien Guignet ambienta il suo Giuseppe che spiega i sogni al faraone (1845) nella sala ipostila d’una reggia sfarzosa, dove lo schienale del trono riproduce lo Zodiaco di Denderah conservato al Louvre; Edward John Poynter, dipingendo

Israele in Egitto (1867), rappresenta un soggetto antico facendo ricorso

ai repertori della più recente indagine archeologica, per cui assomma in una stessa scena invasa dalla luce del deserto i templi di File, Gourna e Edfu, l’obelisco di Eliopolis e il colosso di Amenofi III a Tebe; Lawrence Alma-Tadema fa ricorso alla sua conclamata conoscenza delle civiltà antiche quando dipinge Una vedova egiziana (1872), in cui la precisione dei dettagli conserva ancora l’eco della prosa ecfrastica di Gautier e dei