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La Fête nègre, Parigi 1919 Recezione giornalistica

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pallido e ascetico Blaise Cendrars, muti- lato di guerra ma privo di onorifi cenze, che legge dai suoi sorgivi e malinconici

poèmes nègres, traduzione di originali da

dialetti indigeni, secondo una pratica cre- ativo-evocativa già introdotta da Tristan Tzara. Billy, per scrupolo di ritegno, non si soff erma sull’evento clou, le danze, ma possiamo immaginarle dalle descrizioni di altri commentatori meno benevoli. Levato il sipario, su una tela di fondo appare una testa equina scolpita e vario- pinta, la scena simula una capanna dal

tetto di paglia. Entrano numerosi fi guranti, di massima artisti della cerchia di Guillaume, con al centro un truce e declamante stregone, tutti abbi- gliati con foglie di palma, piume ed anelli, e solo a malapena imbrattati di nero, opera del truccatore Kees van Dongen – artista di punta della stessa scuderia – incaricato, come recita il programma, del “tatouage”. Al suono di tamburi, cembali, triangoli, fi schietti e grida scomposti, si sus- seguono sempre più frenetici cake walk e fox trot, Danse totémiste, Danse

guerrière, Danse de l’accouplement, fi no al delirante fi nale, un bamboula, o

danza paratribale, già diff usa dalle fétes foraines popolari. Di contro a que- ste, la soirée appare essere una delle occasioni mondane del primo anno di pace, seconda soltanto al concerto jazz, precedentemente organizzato a casa propria dal visconte Étienne de Beaumont: il pubblico era quello, “élégant et décadent, voyeur et distingué” già avvezzo alle fétes persanes d’anteguerra, allora suggerite all’eccentrico couturier Paul Poiret dalle rap- presentazioni di successo dei Ballets Russes di Sergej Diaghilev. Il parterre annoverava lo stesso M. Pams, ministro degli Interni, il grave diploma- tico Philippe Berthelot, gli aristocratici Pierre de Polignac e Victor de Goloubeff , eminente collezionista di art nègre, ammiragli russi e artisti d’avanguardia. Fra tutti, spicca a sorpresa lo stesso Poiret, in vesti d’un solenne capo tribale, ricoperto d’amuleti, tinto di nero a cera, con una gran parrucca di candida stoppa. Le recensioni, unanimi, denudano il palese eff etto di travestimento dell’intera serata.

L’iniziativa di Guillaume era stata probabilmente suggerita dalla sua fi tta corrispondenza con Tzara e dall’aver avuto conoscenza delle serate dada svoltesi a Zurigo al Café Voltaire nel 1916 e alla Galerie Dada di Han Coray nel 19173. Solo che quanto accadeva in un ambiente bohémien

e trasgressivo, intenzionalmente sperimentale e provocatore, di pacifi sti estraniati dall’angoscioso contesto della guerra, appare qui – in un clima di mondanità e rilassamento post-armistizio, e nella dilettantesca messa in scena –, un ridicolo artifi cio o una mistifi cazione a fi ni promozionali e commerciali, tale da suscitare anche aspre prese di coscienza, come nel caso del paragone avanzato con le danze inscenate dai “cannibales”, in occasione delle esposizioni coloniali, sulla pelouse del Jardin d’Acclima- tation. Basti vedere la reazione, a dir poco caustica, di André Warnod4

1. Paul Guillaume

nella sua prima galleria, rue Mirosmenil 6, Parigi 1914 (foto © RMN-

Grand Palais [musée de l’Orangerie] / Archives Alain Bouret, image Dominique Couto)

LA FÊTE NÈGRE, PARIGI 1919. RECEZIONE GIORNALISTICA E STEREOTIPI DELL’ART NÈGRE 1 7 1

– peraltro il primo a essersi espresso sulla stampa quotidiana in favore dell’art nègre già nel 1912. I conservatori arrivano a fare un sol fascio di arte negra, cubismo, jazz e bolscevismo, tanto più che Mollet aveva appena espresso, sul bollettino di Guillaume, un elogio dei benefi ci concessi agli artisti dalla repubblica dei Soviet5; si parla di charentonnade o roba da mani-

comio; con esiti anche brutalmente razzisti, come nella defi nizione di “art anthropofage”, o nella tesi che i negri devono solo risolvere l’at- tuale carenza del personale domestico, mentre per l’arte vale ancora quella francese. Per molti, si gioca sul calembour di “danses noires-idées noires”, suscitate dal rincaro dei prezzi, dalla penuria di generi primi, dagli scioperi: ci si prospetta, ironicamente, l’incidenza dello spettacolo su un prossimo, vincolante fenomeno di una moda nègre, funzionale a un’economia da dopoguerra, a vestiti ridotti al niente, ad abitazioni assimilate a campeggi, tali da risolvere la crisi degli alloggi. Dal punto di vista delle stesse logi- che del sistema della moda, si auspica che, con questo evento, dopo aver rincorso l’America degli Apaches e l’Asia dei persiani, possa concludersi il ciclo dell’esotismo, con un’Africa il cui tratto caratterizzante è quello di un “érotisme furieux”. È evidente che l’imperante, acre, sarcasmo dissimuli un disagio di fondo, censuri ansie rimosse, come quelle di una moda che ormai concede sempre più spazio alle nudità femminili, e che potrebbe preludere a modi e comportamenti di eff ettiva disinibizione.

Un solo recensore appare prendere lo spettacolo sul serio, col suo accenno al fascino di un folklore periclitante per l’imminenza di una globale civiltà meccanicistica. I più lucidi riscontrano l’assurdità di inscenare una pièce negra recitata da bianchi travestiti, e si interrogano sul rovesciamento di tale inversione di ruoli, sul perché siano ora i bianchi ad ambire a fare i negri – fenomeno, del resto, già denunciato nel lontano 1901 da Alfred Jarry, col suo Ubu colonial, dove si sosteneva che un negro non è altro che un bianco, rovesciato come un guanto, con tutta la sua istintualità repressa portata alla luce. Ma, le inquietudini sono sviate dall’imperante motto di spirito: se non altro, si fa la fortuna dei contraff attori, dato che le false sculture negre sono ora più diff use dei falsi Rodin. In modi sotterranei, serpeggia la questione dell’assimilazione, su cui insisteva l’auspicio della coeva stampa coloniale: inglobare a tutti gli eff etti le culture autoctone nell’unifi cata Plus grande France. In un bilancio a evento trascorso, ci si interroga, infatti, sulla contraddizione lampante, di considerare i negri come un popolo destinato a una perpetua, inderogabile, condizione di

sauvagerie, e dall’altra, di insistere sul fi deistico convincimento di una loro

futura, integrale, assimilazione all’Occidente colonizzatore. Inversamente, molti si chiedono le ragioni sottese alla voga di un ritorno sempre più reciso alle radici stesse di uno stato primitivo: dopo lo scempio della guerra, ha più corso che mai il tema di Une saison à l’Enfer di Arthur Rimbaud, quello della vecchiaia e decadenza della cultura occidentale, dell’esserne epigoni. Più volte si incontra la tesi che la Fête segni “la fi n de la fi n”, con la conseguente ansia di un doversi noi assimilare alla con- dizione ancora non adulterata dei nègres.

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Première Exposition d’art nègre et océanien, appena aperta da Guillaume alla

Galerie Devambez, al boulevard Malesherbes, il precedente 10 maggio, con centocinquanta opere, di cui un terzo di Guillaume stesso. La mostra si situava in un panorama espositivo che le funzionava da contraltare in negativo o in positivo, fra le coeve mostre del pastellista settecentesco Quentin de La Tour, o del post-cubista Gino Severini presentato, alla Galerie L’Eff ort Moderne dal rivale di Guillaume, Léonce Rosenberg. Il leit-motiv delle recensioni è che l’iniziativa apre ormai al grande pubblico – fatto di cui si è più o meno grati – un ambito di gusto fi nora dominio di un’élite snobistica, di una cerchia di rari e facoltosi adepti, collezionisti peraltro già eternati dal lussuoso album di riproduzioni Sculptures nègres, uscito in edizione numerata nel 1917 a cura di Apollinaire e Guillaume6.

Si intravede il rischio di un gusto che si faccia fenomeno collettivo e obbligo sociale, consono ai nuovi ricchi e agli intellettuali di provincia affl uiti a Parigi con l’ambizione di aff ermarsi. Si consigliano le parole d’ordine necessarie ad allinearsi per chi non abbia cognizioni o sempli- cemente il desiderio – per mostrarsi aggiornato – di accollarsi la vista di opere bizzarre, grottesche od oscene: occorre, cioè, parlare di “volume”, parola che sostituisce ogni analisi formale, e di “caractère”, termine da impiegarsi al posto di bellezza o espressione. Ma, fra i commenti, ci sono notazioni avvedute, che colgono l’effi cacia dell’allestimento in vetrine spaziate e artatamente illuminate, che creano un eff etto museo, assieme all’annesso catalogo, tale da sostenere prezzi di già esorbitanti, fi no ai ver- tici di 35.000 franchi. In pochi parlano della necessità di studiare e clas- sifi care, o si dispiacciono per l’assenza di un raggruppamento per scuole regionali, che avrebbe meglio aiutato a vedere la linea evolutiva di alcune tipologie. Prevale la convinzione che il tratto dominante sia quello della “naiveté”, insieme alla matrice religiosa e al conseguente apprezzamento per opere che manifestino “hiératisme”. Altro topos è che questi manu- fatti abbiano del tutto infl uenzato i giovani, vale a dire l’avanguardia cubi- sta: questa evidenza spiega la recisa, negativa risposta di Picasso all’inchie- sta della rivista “Action” del 19207. Nell’arco di due mesi, la stampa pari-

gina defi nisce e legittima il canone di ricezione del goût nègre, sia come fenomeno artistico che di costume, imperante per i successivi années folles.

1 A. Billy, Une fête nègre, in “L’Opinion”, 14 giugno

1919. Cfr. Revue de presse, in “Les Arts à Paris”, II, 5, 1 novembre 1919 e Archive Paul Guillaume, Parigi, Musée de l’Orangerie.

2 Cfr. P. Guillaume, Une esthétique nouvelle, in “Le Arts à Paris”, II, 4, 15 maggio 1919. Su Guillaume, cfr. Les Arts à

Paris chez Paul Guillaume, a cura di C. Giraudon, catalogo

della mostra (Parigi, Musée de l’Orangerie,1993-1994), Réunion des Musées Nationaux, Paris 1993; M. Hornn, S. Pigearias, Paul Guillaume et African Arts, in “Tribal Art”, 59, primavera 2011, pp. 78-91.

3 Cfr. Dada Africa, a cura di R. Burmeister, S. De Daranyi, C. Débray, catalogo della mostra (Parigi, Musée de l’Orangerie, 2017-2018), Hazan, Paris 2017.

4 A. Warnod, Sous les cocotiers. Une fête nègre aux

Champs Elysées, in “L’avenir”, 12 giugno 1919; Idem, Art nègre, in “Comoedia”, 2 gennaio 1912.

5 L’art nègre, in “Le journal amusant”, 28 giugno 1919. Cfr. J. Mollet, Art et bolchevisme, in “Les Arts à Paris”, II, 4, 15 maggio 1919.

6 Cfr. M.G. Messina, Un’illustrazione di Emporium,

1922 e la fotografi a della ‘scultura negra’ intorno al secondo decennio del Novecento, in G. Bacci, M. Fileti Mazza (a cura

di), Emporium II, Testi e Figure, Edizioni della Normale, Pisa 2014, pp. 431-452.

7 F. Fels, Opinions sur l’art nègre, in “Action”, 3, aprile

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E

ra l’estate del 2012, stavo facendo un bel bagno nelle fresche e dolci acque dell’isola di Ponza, quando sento il mio telefono squillare nella barca, salgo, rispondo. Era Fernando che mi chiedeva di partecipare alla mostra che stava preparando per i Musei San Domenico a Forlì, una grande mostra, titolo Novecento, a me sarebbero toccate le arti decorative, le arti minori.

Quasi non ci credo, un importante storico dell’arte maggiore sente l’esigenza di inserire l’arte decorativa o minore nel racconto artistico ed estetico di un periodo storico.

Evviva, le arti minori ce l’hanno fatta!

Neglette per decenni, addirittura sorpassate in fama dall’industrial design del secondo dopoguerra, è giunto il momento della riscossa. Dall’alto dei cieli esulta Guido Marangoni, deputato socialista tra il 1909 e il 1921 – nel 1920 presenta una nuova proposta di legge per l’introduzione del divorzio –, paladino delle arti decorative, nel 1923 fonda con la società Umanitaria le Biennali di Monza, in seguito diven- tate Triennali a Milano e nel 1928 la rivista “La Casabella”.

Mostre sugli stili del primo Novecento, Liberty e Déco erano state già fatte dalla pioniera di questo genere di studi, Rossana Bossaglia: una mostra a Milano L’Italia liberty nel 1972 e una a Bologna nel 1977, poi altre a Roma promosse da Fabio Benzi Il Liberty in Italia (2001) e Il

Déco in Italia (2004) e Il Modo Italiano al Museo di Montreal per la cura

di Guy Cogeval nel 2006, mostre focalizzate principalmente sulle arti minori.

A Forlì invece si sarebbe trattato di inserire poche ma signifi cative opere di arte decorativa all’interno di una vasta e incisiva mostra di pittura e scultura.

Alla mia aff ermativa ed entusiastica risposta Fernando mi dava un appuntamento per il prossimo vicino settembre. Laconico, come se fosse tutto normale.

Poi abbiamo lavorato insieme, ha sempre approvato le mie scelte, qual- che volta anche costose e complicate, come per esempio il prestito dal Quirinale di una possente coppa in cristallo nero e specchi di Gio Ponti