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catalogata erroneamente come Coppa delle fedi (allusione alla donazione da parte delle donne italiane delle loro fedi d’oro – oro alla patria – in cambio di fedi di ferro off erte dal regime) che appuriamo essere invece un acquisto del re e della regina alla Triennale di Milano del 1930. Le fedi d’oro infatti venivano raccolte a Roma a piazza Venezia in grandi vasche del monumento al Milite ignoto, esiste un fi lmato Luce dell’e- poca che inquadra la lunga e mesta fi la delle patriottiche donne. È fi n troppo ovvio che Gio Ponti è il poliedrico protagonista del periodo sia per le arti maggiori, l’architettura, che per le arti minori, il suo lavoro spazia dall’ideazione di mobili e arredi alla direzione della fabbrica di ceramiche Richard Ginori dove crea capolavori, alla fonda- zione della rivista “Domus” che ha determinato il rinnovamento degli interni delle case degli italiani promuovendo uno stile che si è anche evoluto nel corso del famoso ventennio.

Per rappresentare il suo lavoro negli arredi avevo bisogno di un oggetto “grosso” che potesse rappresentare il “peso” che l’architetto aveva avuto e nello stesso tempo un’opera non troppo conosciuta, quindi prove- niente non da musei o da collezioni famose. I mercanti antiquari sono degli alleati preziosi per chi cerca, soprattutto per le epoche vicine al 1900 non ancora completamente indagate e storicizzate.

Il mercato è un magma in costante movimento: le opere appaiono e poi repentinamente scompaiono inghiottite nel segreto delle case private. In Italia negli ultimi anni sono sorte numerose case d’asta che vendono di tutto: quadri, sculture, mobili, oggetti, l’antico, il moderno, gli anni cinquanta e ora anche il sessanta, ma sei anni fa quando preparavamo

Novecento a Forlì ancora non era ancora scoppiato il business delle aste,

aste che adesso si trovano in diverse città d’Italia.

In quell’autunno mi telefona una famosa antiquaria milanese e mi dice perentoria “vieni” e io vado. Mi trovo davanti un mobile che credo di riconoscere all’istante, una credenza-libreria parte di una produzione in serie di stanze complete, la Domus Nova, commercializzata dalla Rinascente, che Ponti ed Emilio Lancia avevano ideato nel 1927 con l’intento di off rire mobili

moderni a un pubblico medio borghese a prezzi contenuti. Invece la strut- tura è eff ettivamente la stessa ma in una versione molto più lussuosa: gli sportelli in radica dei due armadi che delimitano la libreria centrale recano ognuno due preziosi intarsi realizzati con diversi legni di frutto e rappresen- tativi dei simboli primari: acqua, fuoco, aria e terra; qua- drati e incorniciati gli intarsi

1. Gio Ponti, Emilio Lancia, Libreria per

“Domus nova”, 1928-

1930. Milano, collezione Galleria Robertaebasta 2. Tito Varisco, Mobile

con sportelli a mosaico,

1936. Milano, collezione Marco Arosio

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impreziosiscono il grande mobile di gusto ancora neoclassico lungo quasi quattro metri (ill. 1). Era proprio quello che mi serviva. Non sono venuta a capo di chi fosse l’autore dei disegni degli intarsi, forse Edoardo Del Neri che aveva ideato intarsi per la coeva Casa madre dei mutilati di Roma, ma potrebbe anche essere stato Ponti stesso il quale con questo costoso mobile contraddiceva la vocazione democratica dell’impresa della Domus Nova. Ma al genio si perdona tutto…

Avevo bisogno di illustrare anche un mobile degli anni trenta altrettanto interessante e inedito, ma che testimoniasse il passaggio di stile. Un altro amico antiquario mi invita a casa sua dove mi mostra un basso mobile rettangolare, la decorazione, che occupa due sportelli laterali e due fasce orizzontali sopra e sotto un’apertura lignea centrale, è in mosaico e riproduce scene rinascimentali: gruppi maschili a sinistra e gruppi fem- minili a destra (ill. 2). Molto originale e ardita l’ideazione decorativa. Il mobile fa parte dell’arredo di casa Zuff ellato realizzato nel 1938 dall’ar- chitetto Tito Varisco (1915-1988), noto a Milano per la sua collabora- zione con il Teatro alla Scala. Per me l’opera era interessante per vari aspetti: la modernità, ma anche la pura classicità della forma, l’allusione al passato rinascimentale e l’assoluta novità della decorazione musiva. Il mosaico con la sua brillantezza e le sue policromie attraeva gli artisti. Lucio Fontana esegue nel 1935 un conturbante busto femminile con tessere argentate e pochi anni più avanti Ferruccio Ferrazzi fa realizzare a mosaico l’imponente decorazione che l’architetto Morpurgo gli aveva commissionato per la facciata dei palazzi di piazza Augusto Imperatore a Roma.

Pensavo poi che sarebbe stato giusto esporre anche opere provenienti dalle grandi imprese del periodo, come il Liviano all’università di Padova e l’Eur.

A Padova nel palazzo centrale dell’università, il Bo, tutto l’apparato decorativo dalle maniglie alle opere d’arte era stato deciso o disegnato da Ponti e concordato in grande armonia con il rettore Carlo Anti. La loro collaborazione è stata così fertile che ancora oggi gli studenti ado- perano le belle e sobrie scrivanie e sedie del grande architetto, quindi

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non si potevano alienare nep- pure per il breve tempo di una mostra. Ma per me era ancora più interessante esporre una delle bellissime panche, scarne ma poderose e senza tempo che Ponti aveva disseminato nei corridoi della scuola: legno di noce chiaro, leggeri movimenti decorativi, ottima esecuzione del mobilifi cio di Belluno che aveva vinto il concorso bandito

dall’università per l’arredamento della nuova facoltà di Lettere che com- prendeva tavoli, scrivanie, poltrone, panche, sedie e cestini per la carta. Da tempo cercavo di capire se qualche arredo dei palazzi dell’Eur era sopravvissuto e/o era mai stato eseguito. Lo storico dell’architettura Giorgio Muratore nel volume Il Palazzo dell’Ente Eur (Editalia 1992) aveva pubblicato una panca per la sala d’aspetto del Palazzo degli Uffi ci, sopravvissuta alla popolare furia iconoclasta che nel dopoguerra ha distrutto molte opere amovibili dell’Eur. Così la descriveva: “monu- mento del design italiano […] dimensione europea e internazionale della cultura milanese”. Eff ettivamente la panca profetizza gli anni cin- quanta con il suo schienale in bronzo ondulato e il sedile aggettante quasi aereodinamico (ill. 3).

Di tutto l’arredo di quell’edifi cio progettato dall’architetto milanese Guglielmo Ulrich si sono salvati anche molti piccoli schizzi colorati a tempera, idee per l’arredamento delle varie stanze, recuperati e ora esposti nei corridoi del Palazzo degli Uffi ci.

Era indispensabile, a causa della straordinaria bellezza dell’ideazione e dell’esecuzione, esporre anche un pezzo della Richard Ginori, ditta sto- rica con la quale Ponti aveva collaborato, a volte insieme all’architetto Tomaso Buzzi – nel caso degli straordinari centrotavola per le amba- sciate italiane all’estero –, altre con lo scultore Libero Andreotti nel caso della cista arcaica rivisitata La conversazione classica. Quella che trovo da esporre ha un coperchio che diff erisce da quelle viste fi no ad allora, invece dell’angelo dorato posto alla sommità della cista, modellato da Libero Andreotti, porta una corona e sopra i quattro piedi corone d’al- loro dipinte in oro e quattro fasci stilizzati, al centro un’aquila “impe- riale” dorata (ill. 4, tav. 30). Molte sono le varianti che Ponti ha apportato a questo famoso modello, alcune personalizzate: quella per Margherita Sarfatti con le margheritine, quella dedicata a Mussolini con i fasci o un’altra dedicata a Ojetti per le sue nozze. È probabile che quella con le corone sul coperchio e i fasci lungo il cilindrico corpo – monarchia e fascismo – fosse destinata a uffi ci di alti funzionari o proprio alla famiglia reale.

Per competere con i capolavori di arte maggiore che Fernando andava scovando per la mostra di Forlì, dovevo selezionare opere eccellenti

3. Guglielmo Ulrich,

Panca per il salone del pubblico del Palazzo degli Uffi ci Eur, 1939.

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per impatto estetico e per originalità. Alfredo Ravasco, milanese, in quell’epoca il più famoso orafo-gioielliere amato dalla ricca borghesia soprattutto del nord d’Italia; i suoi centrotavola, oggetti preziosissimi da posizionare sulle tavole da pranzo di importanti magioni, erano e sono capolavori non solo di orefi ceria artigianale ma anche insiemi di materiali rari come lapislazzuli, coralli, perle, agate, granate, malachite, argenti smaltati e pietre preziose che evocano fondi marini abitati da polipi, razze, pesci dalle lunghissime code, boschetti di coralli, opere fi abesche, rare, di un lusso rinascimentale destinate a un ceto partico- larmente facoltoso, questi oggetti rappresentano una parte, non certo all’avanguardia, del gusto del periodo.

Un gusto molto più elegante era quello dell’inizio di carriera di una futura star del design come Franco Albini. L’asso dell’aeronautica Arturo Ferrarin, medaglia d’oro per le sue azioni valorose durante la prima guerra mondiale, nel 1931 sposa la fi glia del proprietario di palazzo Castiglioni a Milano. Arturo Ferrarin con Adelaide Castiglioni vanno ad abitare nel palazzo in un grande appartamento per il quale Franco Albini venticinquenne disegna gli arredi. Durante la seconda guerra mondiale il palazzo Castiglioni è bombardato e una bomba sventra proprio quell’appartamento distruggendo parte dell’arredo. Si salvano i mobili per la sala da pranzo. Nel 1930 Albini aveva già disegnato un salottino con degli intarsi di corno per la ditta Dassi, in quest’occasione disegna un tavolo grande rettangolare in legno macassar, quindi scuro, sul piano aeroplanini ed elicotteri intarsiati in avoriolina. Raffi natezza e ironia, già le cifre dello stile Albini sono chiare. Per rappresentare l’eleganza degli anni trenta non potevo trovare oggetto migliore.

Altri oggetti si sono poi aggiunti, selezionati da altri curatori: scarpe, vestiti, manifesti. Il variegato panorama dell’epoca risultava esaustivo.

Da allora le arti minori italiane hanno avuto altri importanti riconoscimenti come la mostra al Musée d’Orsay di Parigi La Dolce

Vita (2014) arrivata in seguito a Roma al

Palazzo delle Esposizioni (2015).

Con Fernando ci siamo divertiti e siamo diventati più amici. Ci vediamo poco, lui vive a Milano e lavora incessantemente e io a Roma.

Ogni estate un amato amico comune, Carlo Virgilio, ci invita per Ferragosto nella sua casa di campagna. Fernando scende con Roberto dalla mondana Versilia verso la Toscana etrusca e ci incontriamo, io mi ral- legro molto e anche lui sembra contento.

4. Gio Ponti, manifattura Richard Ginori, Cista con

coperchio, 1930 circa.

Sesto Fiorentino, Museo Richard Ginori della Manifattura di Doccia

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L

a fi gura di Guido Marangoni (Casanova Elvo, Vercelli, 1872 - Bordighera, Imperia, 1941) è una di quelle che la storia, e in particolare la storia della critica d’arte, ha ingiu- stamente dimenticato. Analizzando la sua instancabile attività politica e culturale – l’una inscindibile dall’altra – e le iniziative da lui promosse, ci si aspetterebbe di trovarlo saldamente collocato tra le più signifi cative presenze dell’Italia dei primi decenni del Novecento, e invece manca a tutt’oggi uno studio approfondito e unifi cante che dia conto della sua levatura morale e intellettuale1.

Dopo gli studi forensi condotti all’università di Torino il giovane Marangoni, appassionato d’arte e interessato ai temi sociali, si trasferisce a Milano e si iscrive alla Federazione Socialista Milanese schierandosi con le componenti più radicali e intransigenti del partito. Nella sua ininter- rotta militanza politica egli porterà sempre avanti, anche nel ruolo apicale di deputato socialista alla Camera, le istanze di un’arte utile al migliora- mento delle condizioni di vita dell’uomo riconducendo, in ultima analisi, a tale fi ne molta parte della sua attività professionale e della sua produ- zione critica. Scorrendo l’elenco degli scritti di Marangoni sorprende la vastità degli argomenti trattati ma anche la coerenza delle tematiche e la loro interdisciplinarietà. Egli scrive d’arte su riviste di partito, come “Avanguardia Socialista”, e di politica culturale su periodici di settore quali “Pagine d’Arte” e “Le Arti Decorative”, da lui fondate rispettiva- mente nel 1913 e nel 1923; ma anche su “Enotria”, rivista colta dedi- cata alla viticoltura, si troveranno, dal 1921 al 1941, suoi interventi in diverso modo attinenti argomenti artistici2. Marangoni dunque predilige

la critica d’arte ma non disdegna la comunicazione che travalica la stretta, rassicurante cerchia dello specialismo. Ciò che lo interessa è argomen- tare, capire l’attualità ed esprimere, con immancabile verve appassionata e polemica, il suo pensiero. E poi agire, invitando al cambiamento le forze di governo – dello stato, della città – e alla partecipazione la società civile. Tra i temi costanti della sua produzione vi è la protezione dei beni archeologici, artistici e storici italiani. Su questi argomenti egli inter- viene durante le tre legislature che lo vedono impegnato alla Camera