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Un Morazzone ancora più vero

1. Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, Autoritratto, 1600-1605 circa, olio su tela. Biella, Museo del Territorio Biellese

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l’immagine; può darsi che sia lo stesso che conoscevo io tramite la foto appena menzionata3.

Ma torniamo al quadro oggi generosamente donato dalla famiglia Bracco, la stessa che lo possedeva al tempo della sua prima pubblica- zione nel 1962, al Museo del Territorio Biellese di Biella. L’Autoritratto Bracco non c’entra con la tipologia appena analizzata. La Gregori nel 1962 dedicava un intero capitolo al Problema dei ritratti (e autoritratti) del

Morazzone, mostrando quanto la questione dell’immagine del pittore

fosse intricata. Sgombrava il campo, come aveva fatto già l’Albuzzi, dal presunto Autoritratto degli Uffi zi, frutto di un pasticcio erudito, e da altri fraintendimenti. Ricordava che, a una cinquantina d’anni dalla morte del pittore, Carlo Torre, nella sua guida di Milano, nel 1674, menzionava, di Mazzucchelli, la passione per le armi e descriveva un suo autoritratto mentre reggeva con la sinistra un cavallo e con la destra i pennelli4. La

Gregori presentava, inoltre, a piena pagina la prima foto del dipinto oggi a Biella, come ho già detto, in una riproduzione non facilmente leggibile. Lo indicava come “Probabile autoritratto del Morazzone” nella didascalia e nella scheda come “Autoritratto del Morazzone (?)”, notando l’iscrizione apposta nella parte alta, e concludeva dicendo: “La qualità di questo ritratto è tecnicamente ascrivibile al primo Seicento e all’ambiente morazzonesco. È dunque il solo che possa aspirare ad essere ritenuto l’autoritratto dell’artista”. L’opera non risulta nell’Elenco

dei dipinti esposti in fondo al catalogo di Varese5.

Si potrebbe poi tracciare la fortuna visiva di questo quadro che parte dalla copertina della rassegna stampa della mostra del 1962 fi no ad arrivare a improbabili iniziative locali, che mi è già capitato di segna- lare6. Evidentemente, per quanto non fosse stato visto dal vero, la forza

iconica di questo dipinto ha fi nito per imporsi come modello per le sembianze del pittore. L’attuale restauro, magistralmente eseguito da Carlotta Beccaria, scioglie qualsiasi dubbio di autografi a. Purtroppo gli spessori materici, giocati di prima intenzione, hanno perso, nelle precedenti operazioni di fi ssaggio della tela sull’attuale supporto di compensato, la loro densità. Ma tarando lo sguardo sulle pieghe del colletto bianco o sulla ciocca di capelli che si stacca, tra la tempia e l’orecchio destro, o ancora sui bordi della veste (i cui profi li sono stati in buona parte recuperati), si può idealmente ricostruire l’originaria freschezza esecutiva. Non si può fare a meno di notare l’occhio sinistro del Morazzone, in buona parte rifatto. Ma, a parte questo, lo sguardo mantiene un che di magnetico. Tutto ciò nonostante la posa non ancora sicura e sfrontata come nel modello di autoritratto da cui ho iniziato l’intervento. Anche questo mi fa propendere per una data non eccessi- vamente inoltrata nel percorso di Mazzucchelli: intorno allo scoccare del 1600, quando cioè il pittore, nato nel 1573, era su per giù trentenne. La scritta, a quanto osserva la Beccaria, è antica, ma, probabilmente, non coeva all’esecuzione del dipinto. Dipinto che forse a un certo punto del suo percorso collezionistico è appartenuto a una serie. Nell’iscrizione – oltre alla storpiatura del nome (“morazono”), di cui non mi sono note

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altre occorrenze – ci si premura di specifi care il mestiere dell’effi giato, a riprova di una perdita di conoscenza nei confronti del personaggio. Sul retro, sul compensato, si legge: “da Fratelli Castelli - Milano / a Saverio Luigi Bracco Biella / il 28 ottobre 1926”. I fratelli Castelli sono, come mi fa notare Giovanni Agosti, Carlo e Mino Castelli, restauratori, che vendono anche delle opere ad Alberto Saibene, attivi, a Milano, ancora negli anni quaranta7. Saverio Luigi Bracco (Biella, 19 novembre

1899-14 agosto 1990) è il padre di Vittorio (Biella, 20 novembre 1926- 19 gennaio 2013), donatore del dipinto all’attuale sede.

Questo testo coincide in buona parte con l’intervento che ho fatto al Museo del Territorio Biellese il 5 maggio 2018 in occasione della presentazione del dipinto. Grazie a Giovanni Agosti, Valeria Miotello e Alessandra Montanera. 1 Il Morazzone, a cura di M. Gregori, catalogo della mostra (Varese, villa Mirabello, 1962), Bramante editrice, Milano 1962, p. 22, tav. a.

2 J. Stoppa, Il Morazzone, Five Continents Editions, Milano 2003, pp. 270-271, C 4. Per altri autoritratti ricor- dati dalle fonti: ivi, pp. 274, 277 (Genova, presso Francesco Debuff o o Rebuff o, 1675; Piacenza, raccolta dei marchesi Serafi ni, 1734).

Viene in mente un quadro presunto Autoritratto di Baglione – sulla base di un non convincente confronto con un dipinto di collezione privata madrilena reso noto da R. Longhi, Giovanni Baglione e il quadro del processo [1963], in Studi caravaggeschi. Tomo II. 1935-1969, Sansoni, Firenze 2000, tav. 184 – oggi approdato alla Cassa di Risparmio di Perugia (F.F. Mancini, in I tesori della Fondazione Cassa

di Risparmio di Perugia, a cura di F.F. Mancini, catalogo

della mostra [Perugia, Palazzo Lippi Alessandri, 2016], Aguaplano, Perugia 2016, pp. 224-227). Era attribu- ito a Tanzio da Varallo quando transitava sul mercato. Un’attribuzione sbagliata ma, mi sembra, più consona all’area di appartenenza. Tanto più che nelle collezioni dell’Accademia di Brera si trova un dipinto (inv. 1980, 261), erroneamente schedato come Ceresa, che deriva chiara- mente dallo stesso prototipo, ma decurtato: cfr. A. Musiari, in Pinacoteca di Brera. Addenda e apparati generali, Electa, Milano 1996, pp. 78-79, n. 45. Il personaggio effi giato tiene un archibugio a ruota (in uso, come mi fa presente Silvio Leydi, dalla metà del Cinquecento a tutto il Seicento) e un liuto, come mi chiarisce Davide Daolmi.

3 Gregori, Il Morazzone cit., pp. 22-23; Stoppa, Il

Morazzone cit., pp. 270-271, fi g. C 4 bis. Per i disegni di

Bagatti cfr. A.F. Albuzzi, Memorie per servire alla storia de’

pittori, scultori e architetti milanesi (1773-1778), a cura di S.

Bruzzese, Offi cina Libraria, Milano 2015, pp. 271-272. 4 C. Torre, Il ritratto di Milano, Agnelli, Milano 1674, p.

46 (ed. 1714, p. 43). Se Torre è nato nel 1613 (come mi conferma Rossana Sacchi, che quest’anno tiene un corso universitario su Torre), non è da escludere che avesse visto, adolescente, il Morazzone, o che avesse racconti di prima

mano sul pittore, come ne aveva del Cerano (cfr. J. Stoppa,

Cerano giovane, in Il Cerano 1573-1632. Protagonista del Seicento lombardo, a cura di M. Rosci, catalogo della mostra

[Milano, Palazzo Reale, 2005], Federico Motta Editore, Milano 2005, p. 98). La retorica contrapposizione tra le “prodezze d’Alessandro col pennello” e la capacità del Morazzone di ritrarre il cavallo che “non portava piedi umani, com’hebbe il Destriere di Giulio Cesare” (un riferi- mento allo zoccolo fesso del cavallo celebrato da Svetonio,

Vitae Caesarum, Divus Julius, 61) rientra nella dimensione

letteraria di Torre, ancora tutta da indagare: cfr. U. Motta, in sul Tesin piantàro i tuoi laureti. Poesia e vita letteraria nella

Lombardia spagnola (1535-1706), a cura di S. Albonico, F.

Milani, catalogo della mostra (Pavia, Musei Civici, 2002), Edizioni Cardano, Pavia 2002, pp. 286-288, n. 2.44. 5 Gregori, Il Morazzone cit., pp. 22-23, 511-513.

6 Giovanni Agosti mi ha segnalato l’invito al dibattito tenuto a villa Mirabello rivolto a Giorgio Bassani, conser- vato tra le carte dello scrittore. Il resoconto del dibattito è fornito, su “Settimo Giorno”, 18 settembre 1962, pp. 8-11 (con foto di Giacomo Pozzi Bellini), da G. Testori, Polemica

e pace sul Morazzone, ripubblicato in Il Morazzone. Articoli, saggi critici ed interpretativi della fi gura e dell’opera di Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, s. e., Varese 1963,

pp. 63-65, e poi in Testori a Varese, catalogo della mostra, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2003, pp. 35-39. Comparando i nomi dei partecipanti menzionati da Testori e quelli indicati sull’invito si evince che tra gli “scrittori” ha disertato la Banti e tra i “pittori” Burri e Carrà, sosti- tuiti da Chiara e da Dova, giunto però solo quando “ci si preparava alla cena”. Tra gli eventi legati alla mostra vale la pena di menzionare una presentazione tenuta dalla Gregori, su richiesta di Anna Maria Brizio, al “corso di per- fezionamento” dell’Università Statale di Milano (S. Stefani Perrone, In ricordo di Marco Rosci, in “Corriere Valsesiano”, 14 luglio 2017, p. 4). Per le bizzarre iniziative locali in cui fi gura l’autoritratto del Morazzone: J. Stoppa, La morte del

Seicento lombardo, in “Prospettiva”, n. 119-120, 2005, p. 187,

fi g. 7, p. 189.

7 G. Agosti, Introduzione, in G. Agosti (a cura di), Altri quaranta dipinti antichi della Collezione Saibene, Edizioni

Valdonega, Verona 2008, pp. XVII, XXIX, XXXIV; A. Frangi, ivi, p. 169.

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ra le amicizie che più hanno con- tato nella mia ormai lunga vita alcune hanno un posto importante nella mia formazione e nel mio percorso critico ed esistenziale. A una di que- ste, vale a dire quella con il carissimo Fernando qui festeggiato, dedico questi ricordi che collegano in una specie di cerchio perfetto il valore dell’amicizia e un destino, quello che lega lui a chi scrive queste note e che a sua volta ha capito il valore dell’amicizia nella frequentazione con l’amico Jesi che in quel momento rilevava in modo straordinario la fun- zione di maestro. E Fernando ben può capire come ai nomi che cito nel cerchio delle amicizie si possa aggiungere una imprescindibile presenza per entrambi: quella di Paola Barocchi. Così può apparire giustifi cata la ripresa, in un mio lavoro, della citazione di maestri che necessariamente vanno, se non traditi, superati affi nché il loro magistero dia i suoi frutti. Scrivevo dunque in quell’antico saggio1:

Due voci che dialogano per dodici anni prevalentemente su un autore e sulla sua opera, senza mai conoscersi di persona fi no a considerare ‘mitica’2 quell’amicizia e quell’incontro mancato; due voci che s’inter-

rogano su un destino europeo di Pavese3 ed esprimono convinzioni e

rifl essioni, pienamente giustifi cate dal senso che la storia della critica in

progress dà alla pervicace ricerca su un autore che entrambi considerano

essenziale per quell’umanesimo che i maestri di Pavese (Untersteiner) e di Jesi (Kerényi) e di chi scrive (Binni) ritengono essenziale per giusti- fi care il mestiere di vivere e di pensare. Che poi sia Jesi sia colui che qui scrive siano giunti alla fi ne, senza mai rivelarselo vicendevolmente, a non essere più d’accordo con le voci dei maestri senza per questo rinnegarne il senso della loro altissima lezione, fa parte di quel principio umanistico a cui sono rimasti fedeli, anche nella scelta ideologica; un termine così obsoleto e in disgrazia presso i sapienti di cui, come lo fu per Jesi, non mi vergogno aff atto e di cui rivendico ancora, se usata umanisticamente, l’importanza e la necessità.

Con queste premesse si stabilisce il contatto di un passato che è garanzia del futuro; così quell’amicizia mi conferma una specie di necessità di