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Kevin Lynch, L’immagine della città, Marsilio, Ve-

nezia 19859.

Jean François Lyotard, La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano 1987.

Calogero Muscarà, Megalopoli Mediterranea, Fran- co Angeli, Milano 1983.

Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985.

Paul Virilio, L’orizzonte negativo, Costa & Nolan, Genova 1986.

Città naturali (?)

Qual è il rapporto tra la città moderna e la natura?

Nessuno.

È una semplice constatazione: per sua natura, la modernità è antinaturale. Anziché modellarsi secondo le regole della natura, la città moderna la sfrutta fino all’inverosimile e, nel migliore dei casi, la distrugge trasformandola nella sua im- magine di “razionalità” alienata. L’urbanistica è prescrittiva per vocazione, ma le sue regole mietono una serie di vittime “naturali”: i ribelli, gli emarginati, i disoccupati, i comitati di quar- tiere, i rifugiati, gli “indigeni”, qualche vecchia signora amante del giardinaggio, le piante lo- cali e quelle invasive, le “erbacce” che spuntano tra i mattoni, ecc. Loro sono il volto della natura massacrata o resistente … insieme a una stra- ordinaria “cultura giardinistica” popolare, che gode tuttora di buona salute e che fiorisce in vasi o cassette, ai piedi delle case …

La natura su due piani complementari Il primo, esterno, è quello del paesaggio pla- netario; il secondo, interno, è rappresentato dalle dinamiche animali e psichiche prodot- te da un’evoluzione millenaria. Naturalmente sono due lati di una stessa e unica natura, ma appartengono a giurisdizioni differenti (l’urba- nistica e la medicina (omeopatica …) dovreb- i trasporti, ferroviari e aerei, privilegiano una

zona piuttosto che un’altra, favorendone lo sviluppo. Le zone ignorate si spengono, si opacizzano, vengono ignorate e dimenticate. Le distanze non si misurano più in spazio, ma in tempo.

Deserto - La madre terra, la patria rappre- senta il polo opposto del sangue, della vita che fluisce e fugge da quel grembo. Solo il cammino sfugge alla decadenza e il cammi- no trova il suo luogo naturale nel deserto e il deserto non sazia, non diviene, immagine dell’assenza di forme o della vanità delle immagini, esso insegna a durare, a esiste- re, esso chiama, nel modo del suo silenzio, all’esserci mai sazio, mai “a casa” del tempo- solo-tempo del divenire, un luogo mentale omogeneo, opaco, in cui ciò che non è via od oasi è mistero, silenzio e quindi possibile. Il deserto è orizzonte chiaro, è rapporto col cielo, pulizia, nitidezza d’immagine, ma anche illusione, pericolo, le dune che lo formano sono in continuo divenire, sempre uguali e mai uguali, in una dinamicità invisibile can- cellano i percorsi, li sommergono, ne creano di nuovi, riscoprono i vecchi. Sono i sentieri dei nomadi che li percorrono in silenzio, av- volti in manti blu notte. Cittadini del deserto e maestri nel durarvi. Maurizio Corrado Riferimenti bibliografici

Henry Bergson, L’evoluzione creatrice, La Scuola, Brescia 1983.

Sandra Bonfiglioli, Dopo Metropolis, Franco Ange- li, Milano 1985.

Sandra Bonfiglioli, L’architettura del tempo, Liguo- ri, Napoli 1990.

Massimo Cacciari, Icone della legge, Adelphi, Mi- lano 1985.

Carleton Stevens Coon, I popoli cacciatori, Bompia- ni, Milano 1973.

André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, Einaudi, Torino, 1977.

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sua disobbedienza civile e il suo rifugio tra i

boschi, William Morris e John Ruskin, e poi i Luddisti … Ebenezer Howard, che vedeva la città come un essere biologico, Lawrence Halprin, con il suo rispetto scrupoloso della natura, Jaime Lerner, che ha ecologizzato la sua città di Curitiba, Élysée Reclus, l’inven- tore della geografia umana, Gaston Bardet, con la sua osservazione della ricchezza degli elementi sociali e fisici spontanei delle città. E ancora, Ita Gassel e la sua «ricerca dell’azione e della partecipazione», Oskar Hansen e la sua Forma Aperta, Rudolf Steiner, Francis Hallé e i suoi alberi immortali, l’organicista André Lurçat, che aveva incontrato tutti gli abitanti di Maubeuge, Patrick Bouchain e la sua passione di «rimettere in relazione» e tanti altri ancora … Anche Bernard Lassus, che ha sublimato la sensibilità degli «abitan- ti paesaggisti» e l’ha poi conservata come substrato empatico dei suoi progetti … John Habraken (il Darwin dell’architettura), che ha reintrodotto il tempo naturale e l’invec- chiamento diversificato come strumenti di architettura vivente e come oggetto di parte- cipazione per gli utenti.

Rileggiamo Friedrich Hayek, questo econo- mista odioso e affascinante che, in parallelo con Adam Smith, difende il principio dell’e- quilibrio naturale delle economie, soprattut- to senza l’intervento di nessuno. Per lui, la natura dell’uomo è in grado di farsene carico superbamente. «L’ordine di base della Gran- de Società non può fondarsi interamente su un disegno»1. È evidentemente una visione spirituale: questo rispetto dell’equilibrio è toccante, ma viene distrutto dal fanatismo vo- race dei finanzieri: ne è un esempio eloquente la recente avventura dei “mutui subprime” … Per comprendere la formazione delle città, occorre ricordare che è l’automatismo della reciproca assistenza/concorrenza “naturale” bero essere parenti …). La modernità li attacca

entrambi con una sola mossa. Da un lato, il saccheggio del pianeta provoca i disastri de- nunciati dall’IPPC, il gruppo intergovernativo per i cambiamenti climatici istituito dall’ONU; dall’altro lato l’inquinamento, chimico e com- merciale, distrugge i corpi e le eredità. Si può ragionevolmente affermare che l’ecologia ha come obiettivo primordiale quello di ricreare una relazione tra il paesaggio “naturale” e la società “naturale”, non l’altra. E che un quar- tiere ecologico non può assolutamente essere la rappresentazione di un’organizzazione mili- tare, tecnologica o commerciale: la sua forma deve esprimere esclusivamente l’intrecciarsi delle relazioni multiformi tra i suoi abitanti. Paesaggi aperti o chiusi

I paesaggisti artificializzano: quando si oc- cupano di un parco, lo progettano, lo fabbri- cano partendo dal niente (la moderna tabula rasa) ma non lasciano mai, in nessun caso, che la natura si sviluppi spontaneamente (neppure aiutata …), al di fuori della loro autorità. Salvo rari casi, assegnano volumi “capienti” alla vegetazione che, se li supera, viene immediatamente mutilata …

Viceversa Louis le Roy, giardiniere delle Fri- sone (Olanda), ricuce i volumi di costruzioni sparse in mezzo a giardini dominati dall’in- vasione e dall’evoluzione naturale, percorsi da sentieri spontanei e “olistici”, che tengono conto di tutti i motivi che si succedono in mo- do imprevedibile. Ed è un modello contagio- so: nei dintorni della sua Kennedylaan a He- erenveen, alcuni vicini stanno già imitando il disordine naturale di Louis. Le sue «cattedrali del verde» sono da vedere …

I paesaggi relazionali

Non mancano, tuttavia, i profeti illuminati. In ordine casuale: David Henri Thoreau, con la

67 CITTÀ NATURALI (?) “griglia”, sul fatto che fosse inevitabile. Una linea obliqua diventava un gesto politico violento: niente di così antinaturale. Frede- rick Law Olmsted è l’unico paesaggista sta- tunitense ad avere ufficialmente rifiutato lo schema ortogonale: le sue reti stradali sono curve e i suoi edifici obliqui: un eroe nazio- nale? Il Maggiore L’Enfant, da parte sua, era stato esonerato dall’incarico di realizzare un progetto per Washington per volere dei ge- ometri ufficiali: aveva inserito troppe diago- nali. A New York, Broadway è l’unica traccia di una presenza indiana … A Filadelfia, il fiume Schuylkill serpeggia disperatamente sotto le autostrade, tra le discariche e qual- che cespuglio, senza condizionare alcuna forma costruita. Con discrezione, un ammi- nistratore berlinese “verde” aveva vietato che si falciassero le piante selvatiche su tutti i terrapieni: era bello vedere una città, per così dire, mal rasata … A Monaco era stato imposto un minimo di piante rampicanti su tutte le costruzioni (biomassa minima) … L’urbanistica dei fabbricati, dopo i geni del Rinascimento, è sempre stata militare. Le forme delicate delle piante urbane di Alberti, Palladio, Serlio, Piccolomini e poi Vauban, non sono altro che armi da guerra (molto ben disegnate) il cui unico obiettivo è quello di uccidere il maggior numero possibile di nemici prima che questi entrino vittoriosi. Senza dubbio i primi piani regolatori mo- derni sono quelli di Helsinki dell’inizio del XX secolo. Erano palesemente tecnocratici, “razionali” e mai “incrementalisti” (secondo le scienze economiche, l’altro sistema de- cisionale opposto alla “razionalità”)4. Era- no progettati in modo pianificato, senza preoccuparsi molto delle leggi disordinate della natura. Erano colonialisti, perché non chiedevano mai ai colonizzati quale fosse la natura dei loro raggruppamenti spontanei. che aveva dato vita agli antichi insediamen-

ti urbani. Nell’Europa di oggi si vuole però ignorare che la rapacità delle imprese non porta affatto verso un’armonia naturale, ben- sì verso la colonizzazione più planetaria … Esiste un conflitto parallelo che contrappone da una parte Hobbes e la sua Costituzione razionale e, dall’altra, Boyle e le sue osserva- zioni scientifiche sulla natura (si legga Bruno Latour: Nous n’avons jamais été modernes2). L’esclusione reciproca di queste due posizio- ni è deprimente: non sarebbe meglio “fare insieme”, intelligentemente, e accogliere i conflitti in un disordine permissivo? Questo atteggiamento potrebbe essere definito come «accompagnamento empatico del caos, come espressione della natura». E sarebbe più ra- zionale dei fanatismi del modernismo urba- nistico … Un’altra “mano invisibile”, questa volta urbana? Non sogniamo …

La scacchiera

È sconcertante constatare che un paese gran- de come gli Stati Uniti è stato “completamen- te” squadrato secondo le direttrici di cardo e decumano3! Ad Atene, l’acropoli non è di- sposta su una griglia NSEO: sembra in totale disordine. È l’esempio più bello dell’idea di progetto incrementale: ogni edificio ha me- ritato il suo insediamento, individuale e co- mune insieme, per motivi che sfuggono alla nostra comprensione. Decidiamo perciò che le loro rispettive posizioni siano frutto di una vasta scienza della prospettiva. Preferisco credere che il rischio accettato abbia porta- to a compiere le cose meglio di qualunque composizione geometrica … Lo schema della scacchiera è stato necessario in Asia Minore per le colonie greche …

Quando insegnavo negli Stati Uniti, mi so- no spesso scontrato contro questa super- stizione degli studenti nei confronti della

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indietro agli effetti delle sue prime azioni. Il

GPS invoca soltanto soluzioni strette, razionali, ed è così che è riuscito a inquinare il pianeta. Il secondo, il metodo “incrementalista”, è na- turale, olistico, darwiniano, procede “passo per passo”, per tentativi ed errori, sperimenta la totalità delle precauzioni e delle circostanze reali per equilibrare le loro contraddizioni e soprattutto verifica, con il tempo, la propria applicazione alla vita urbana per corregger- ne gli effetti indesiderati. Charles Lindblom l’ha definito «incrementalismo disgiunto – la scienza di sbrogliarsela per passare oltre». Questo metodo propone soluzioni intuitive e un approccio di costante autoverifica. Si pre- occupa immediatamente del contesto, il cui primo elemento è senza dubbio l’utente. La sua prima domanda riguarda il suo avvenire: ne è ancora possibile uno? Si preoccupa dun- que spontaneamente di ecologia.

Urbanistica animale e architettura omeopatica

L’animale-urbanista (l’amico di Le Corbusier …) traccia un sentiero “olistico” tenendo conto di tutti gli elementi del paesaggio e della sua stanchezza. Il suo principio, sull’esempio della medicina, è quello di somministrare all’organi- smo la più piccola sostanza architettonica per stimolarlo a reinventare da sé la propria archi- tettura fino alla guarigione (naturalmente con architetti omeopatici). L’architetto, viceversa, decide tutto con grande angoscia perché su- bisce l’intervento laico come un insulto al suo diritto alla creazione … come una malattia … Non invitiamo la natura in città, ma invece rendiamo la città naturale

Per ottenere questo risultato, abbandoniamo subito Euclide e la sua geometria astratta: le linee rette non esistono nella natura vivente. In altre parole: niente viali per le sfilate militari, La natura?

La “natura” rimane, per la città moderna, un ornamento, un pretesto, un’enclave, uno spettacolo, attualmente un alibi romantico: in che modo il paesaggio come spettacolo (Guy Debord?) potrebbe mai rendere duraturo un modo di vita urbano, volontario, personale e collettivo e assicurare scambi equilibrati con la natura? Come una foto a colori? Un’imma- gine pia? Una nostalgia? Un tocco kitsch? Le città e i paesi spontanei sono naturali: si sono formati attraverso negoziazioni continue e casuali con il luogo e le sue caratteristiche e, naturalmente, con i vicini. La città antica era sempre naturale: sarebbe sufficiente natura- lizzare quella contemporanea … La pericolo- sità dell’aria urbana e domestica è antinatura- le, perciò occorre sopprimerne radicalmente le cause (industriali). Occorre inventare nuovi stili di vita, ma abbandonando per sempre quello che si definisce “razionale”.

Decisioni

Il mondo sta prendendo coscienza dei disastri climatici che lo aspettano e cerca lentamente di inventare una strada naturale per evitarli. La “città” e i suoi trasporti rappresentano tre quar- ti dell’inquinamento: è dunque lì che bisogna intervenire. Esistono due modi per farlo: la spe- cializzazione (scoperta e applicazione di ricer- che specifiche) è evidentemente indispensabile. La scienza economica propone due modi per prendere le decisioni. Il primo è un metodo “razionale”, il GPS (General Problem Solving) creato dal premio Nobel Herbert Simon: per lui, esistono solo problemi e per tutti esiste una soluzione (ma la “casa” rappresenta una liturgia per chi la abita, non un problema …). Chi attua questo metodo raccoglie tutte le informazioni (ma solo quelle morte), redige un programma PERT e lo applica fino in fondo, senza esitazio- ne né rimpianti, e soprattutto senza guardare

69 CITTÀ NATURALI (?) piazza pubblica, eterna. Aggiungendo ancora il cortile e il giardino avremo ottenuto quasi tutte le forme naturali universali.

Le tendenze imposte sono nefaste, mentre l’infinità dei coraggiosi gesti ecologici che si osservano qui e là, a volte da parte di com- mittenti pubblici e associazioni non ufficiali, sono legioni numerose e commoventi, anche se poco conosciute e non federate.

Senza voler esprimere una critica di massa, molti architetti non colgono il passaggio tra il programma complesso delle relazioni sociali e la semplificazione brutale del loro stile mo- derno. Vogliono fare troppo e in modo trop- po calcolato … «Never design, just follow» … Il ruolo dell’urbanista sarebbe semplice- mente quello di «predisporre le condizioni per la comparsa della massima complessità», niente di più … Ma intelligentemente, senza traccia di “nostalgia” per il passato, dovrem- mo far rivivere nei nostri progetti i millenni di sperimentazioni urbane e gli innumerevoli studi sociologici condotti finora, sia ottimi- stici che pessimistici. Per alcuni architetti, la motivazione è la spinta a “fare di più”. Essi aspirano a rimodellare il mondo a loro immagine (in un’ottica narcisistica o mec- canicistica …): in questo modo viene però a mancare il canale di collegamento tra la loro professione autoritaria e la realtà di un essere collettivo vivente … Lucien Kroll Note

1 Friedrich Hayek, Droit, législation et liberté, I, Règle et ordre, PUF, Paris 1983 (Quadrige). 2 Bruno Latour, Nous n’avons jamais été moder-

nes, La Découverte, Paris 2006 (Poche).

3 E mai da parte degli autoctoni, ma solo da parte degli invasori, che dividono per possedere … 4 Incrementalismo, secondo la definizione del Dic-

tionnaire de la langue française d’Émile Littré: «La quantità infinitamente piccola di cui si accre- sce una quantità». Passo per passo …

oggetti cubici, assi e cerchi perfetti, ma solo quartieri abitati che si snodano qua e là, inno- centemente … Avviciniamoci al processo vivo di formazione della città in cui ogni elemento (componente) nuovo si inedia educatamente in un contesto che gli offre una forma, una taglia, dei vicini, un calendario, e così via. Il verde municipale è un’opera pia, ma è poco più di un cosmetico: non serve a nulla esporre gerani sulle migliaia di finestre identiche che Auguste Perret aveva imposto a Le Havre … E anziché accontentarsi di scoprire con tene- rezza la natura libera in città, qualche pianta spontanea (indigena o invasiva) che nasce in cantieri abbandonati, in terreni incolti, in aree abbandonate, in contesti di cui ci si vergogna, sarebbe meglio predisporre dei luoghi natu- rali per lasciare che si insedi spontaneamente (con un aiuto discreto …) una vegetazione amica da osservare nel suo contesto, divenuto “naturale”. D’altra parte, ogni invito alla natu- ra rappresenterà sempre una guerra coloniale fatta di prigionia, di ricacciata degli invasori al confine, di divisione tra le razze, ecc. È più importante lasciare che la città si formi da sola e rispettarla. L’urbanistica moderna è vittima di una fatalità fatta di arroganza, di geometrie fredde, di inquinamento smisurato, di sprechi, ecc. È un destino noto, che la rovina e la ren- de inabitabile. La forma urbana deve attuare urgentemente una metamorfosi per diventare una creazione naturale, capace di osservare il modo in cui i cittadini si raggruppano sponta- neamente per comunicare: sono queste le fon- damenta urbane … Quando un uomo cammi- na da qui a laggiù, crea un percorso virtuale: è sufficiente aggiungere delle case sui due lati per avere delle relazioni trasversali. Più avanti, ne incontra un altro: si fermano e insieme cre- ano una piazza. A questo punto basta aggiun- gere una scuola, un municipio, una chiesa, alcuni bar e negozi ed ecco che si ottiene una

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partire da metà degli anni Novanta, è stata at-

tribuita a diverse concause: a. la progressiva distanza fra cittadini e governo del territorio e la sfiducia crescente nelle proprietà di dele- ga; b. il fallimento di un numero consistente di progetti locali e di progetti di sviluppo; c. la difficoltà oggettiva e soggettiva di dirimere i conflitti fra diversi portatori di interesse e di creare consenso e condivisione nelle decisio- ni operative per la società; d. il cambiamento fondamentale nelle tecnologie di accesso e produzione di informazione, comunicazione e conoscenza; e. la produzione di strumenti di indirizzo, deliberativi e normativi (a livello internazionale, regionale, nazionale e locale) che, partendo dai principi di coinvolgimento sociale e sussidiarietà, hanno riconosciuto e sancito nuove possibilità (e responsabilità) di azione e rappresentanza attiva alla citta- dinanza.

Nell’analisi dei processi partecipativi è cor- rente la distinzione fra processi di tipo “top- down” (l’iniziativa parte dal versante istitu- zionale per coinvolgere i cittadini e la società civile) e di tipo “bottom-up” (il percorso di auto-organizzazione “dal basso” che cresce fino a coinvolgere uno o più livelli istitu- zionali). Il ricorrere a interazioni fra questi due livelli differenti di organizzazione e di decisione configura la partecipazione come un approccio strategico di natura dialogica e processuale, che infatti trova le sue appli- cazioni migliori nella risoluzione di conflitti, nell’assunzione condivisa di responsabilità, nel coinvolgimento attivo e collaborativo in processi di governance strategica, pianifica- zione, progettazione e gestione dell’ambien- te, del territorio o di ambiti sociali sensibili per un’ampia fascia della comunità (ad esem- pio sanità, educazione, cultura).

Nell’ambito dei processi democratici, quin- di, cittadinanza attiva e partecipazione sono

Cittadinanza attiva

Il concetto di cittadinanza attiva si afferma nel corso degli anni Settanta in relazione al dibat- tito e alla prassi della partecipazione sociale ai processi di gestione delle trasformazioni di luoghi e territori. Nel 1978 nasce il Movimen- to federativo democratico, un’organizzazione di cittadini che prenderà nel 2000 il nome di Cittadinanzattiva. I percorsi di partecipazione e cittadinanza attiva si muovono dalla con- statazione che, nelle democrazie rappresen- tative tradizionali, la persona è sempre più considerata come un cittadino immaturo: il solo atto possibile a sua disposizione è quello di scegliere altre persone che si occuperanno dell’interesse generale. D’altra parte proprio negli anni Sessanta e Settanta è sempre più emergente la richiesta di una nuova cittadi- nanza, di un maggior coinvolgimento sociale, non tanto nella rappresentanza politica tradi- zionale quanto nella tutela e affermazione di diritti portata avanti da associazioni e movi- menti più o meno formali. Fare cittadinanza attiva significa quindi avere la capacità di or- ganizzarsi autonomamente in una molteplici- tà di forme per agire nelle politiche pubbliche al fine di curare i beni comuni, di proprietà di tutti e che ciascuno può utilizzare liberamen- te (ambiente, salute, cultura, relazioni sociali, ecc.). Tali beni sono continuamente minac- ciati da interessi di parte e la loro potenziale erosione o addirittura l’annullamento costitu- iscono un impoverimento, sia culturale che di effettiva disponibilità di risorse, per la società nel suo complesso (Mannarini, 2009). Le parole “partecipazione” e “partecipativo” apparvero per la prima volta nell’ambito della letteratura sullo sviluppo alla fine degli anni Cinquanta del XX secolo. La popolarità che tali concetti hanno assunto negli ultimi tre decenni, con un’accelerazione incrementale a

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