ha aperto gli orizzonti artistici a infinite pos- sibilità concettuali e linguistiche, ma anche a un mercato, onnivoro e aggressivo, che ha innalzato l’attenzione verso l’arte moder- na, facendo contemporaneamente lievitare l’importanza e il valore delle opere degli ar- tisti delle ultime generazioni. Parallelamen- te, è sorta un’attenzione maggiore a risvolti ecologici e ambientali che ha il suo alfiere nel presidente americano Barack Obama e nella diffusione dei principi della “Green Economy”, ma che, in realtà, ha una storia passata gloriosa, fatta da esponenti della beat generation degli anni Sessanta: personaggi come Gary Snyder, amico e sodale di Allen Ginsberg, che propugna, nel suo libro Ritor- no al fuoco: ecologia profonda per il terzo mil- lennio (2008), un pensiero interdisciplinare, basato su caratteristiche empiriche, ambien- tali ed ecologiche, piuttosto che sulla grande rivoluzione iniziata da Gregory Bateson e la scuola di Palo Alto, a cavallo tra ecologia, antropologia comparata e pensiero sistemico o il movimento della new age americana. Per non dimenticare il prezioso saggio di Fritjof Capra, Il Tao della Fisica (1975).
Dall’Arte Povera degli anni Sessanta di Merz e Kounellis, Pistoletto e Gilardi (con i suoi splendidi tappeti-natura), alla Land Art ame- ricana degli anni Settanta che comincia a lavorare sistematicamente sul paesaggio e i territori naturali (chi non ricorda la Spiral Jetty del 1970 di Robert Smithson?) come precedentemente avevano fatto, per la fo- tografia, la “straight photography” e autori come Edward Weston, Ansel Adams e, suc- cessivamente, Paul Caponigro (che, nel mani- festo T/64 del 1932, dicevano che la fotografia dovesse essere purista per poter riprendere, in modo realistico e veritiero i grandi paesag- gi naturali incontaminati dell’America rurale e selvaggia), si è giunti più di recente alla Francesco Colonna, Hypnerotomachia Poliphili, edi-
zione a cura di Marco Ariani e Mino Gabriele, Adelphi edizioni, Milano 1998.
Massimo De Vico Fallani, I parchi archeologici di Roma. Aggiunta a Giacomo Boni: la vicenda della “flora monumentale” nei documenti dell’Archi- vio Centrale dello Stato, Nuova Editrice Spada, Roma 1988.
Dizionario di restauro archeologico, a cura di Luigi Marino, Alinea, Firenze 2003.
Luigi Marino, Materiali per un atlante delle patolo- gie presenti nelle aree archeologiche e negli edifi- ci ridotti allo stato di rudere, Alinea, Firenze 2009.
Neo-Nature
Da un coacervo di possibilità, archivi stori- ci, riletture di movimenti artistici e lettera- ri, memorie tratte dalla fantascienza come dall’architettura utopica radicale, nascono gli elementi concettuali e costitutivi di un movi- mento diversificato di produzione artistica, composto da autori di varia estrazione (artisti, designer, scultori, fotografi, scenografi), che possono essere raccolti sotto l’etichetta e il nome collettivo di “Neo-Nature”.
Un movimento che sembra aver compreso i dettami di quella che oggi potremmo chiama- re “Architettura di Sopravvivenza” o “Terza Architettura”, una corrente che ha tra i suoi più importanti alfieri noti architetti, paesag- gisti, agronomi, antropologi, sociologi, come Franco La Cecla, Marc Augé, Nancy e Jack Todd, Gilles Clément, James Clifford (propu- gnatore di una nuova antropologia culturale) e Yona Friedman, da cui abbiamo mutuato la denominazione.
Molte e differenziate sono infatti le matrici di riferimento, le potenzialità e i tipi di lin- guaggi con cui deve confrontarsi l’arte con- temporanea.
172NEO-NATURE
N
una specie di presente-futuro, disturbante eravvicinato, che ricorda la guerra e gli orrori della Cambogia o del Vietnam.
Un altro autore, amico di Bruce Chatwin, Paul Theroux, viaggiatore e narratore raf- finato, in un suo romanzo, O-Zone (1986), racconta di una sorta di New York del fu- turo, blindata e militarizzata e ci descrive architetture inflatable, proprio come quelle immaginate dai movimenti radicali anni Set- tanta e dagli Archigram, e una natura, ibrida e polverosa, rigogliosa e malata, che cresce in modo abnorme e disordinato, utilizzando residui, scarti e relitti urbani, generando bio- mutazioni continue del micro-ambiente. In pratica una specie di gigantesca, selvaggia e infida no man’s land.
Questi scrittori potrebbero essere affiancati da autori più recenti come Ian McDonald, che nel suo romanzo I confini dell’evoluzione (1995) ci parla dettagliatamente di una specie di terribile foresta subtropicale, la “Chaga”, che in realtà sembra essere il risultato di un gigantesco esperimento alieno, un la- boratorio genetico-molecolare che sembra utilizzare, per la sua crescita esponenziale sul territorio, risorse e competenze avanza- tissime in ambito delle nanotecnologie. Una super-giungla che invade il continente afri- cano e che sposta, improvvisamente, l’atten- zione del mondo e le sue risorse economiche e logistiche verso il Continente Nero che, connotato di un nuovo valore simbolico, po- litico, sociale, diviene così centro d’interesse per tutte le nazioni. Osservata in seguito dai principali osservatori spaziali e dai telescopi puntati da altri pianeti del sistema solare, la “Chaga” emerge come un neo-paesaggio alieno, un virus che si sviluppa rapidamente e si propaga su mondi dotati di caratteristi- che bio-climatiche e geologiche anche molto differenti tra loro.
produzione dell’arte bio-tech, che lavora tra mondi digitali e innovative sperimentazioni in laboratorio, coniugando nuove tecnolo- gie, esperimenti sulle proprietà genetiche di piante e animali e un raffinato controllo sulla comunicazione. È il caso ad esempio delle manipolazioni, delicate e liriche, dei colori e della pigmentazione delle ali delle farfalle di Marta de Menezes, o delle opere shock di Eduardo Kac, che ha innestato del sangue umano (il suo) in una coltura di rose. Kac, inoltre, è molto conosciuto per aver immesso geneticamente alcune proprietà di un’alga fluorescente in un coniglio, Alba, divenuto a sua volta fluorescente, opera che ha fatto il giro del mondo (GFB Bunny 2002).
In letteratura, esiste invece una particolare categoria di autori a cui fare riferimento: quella formata dagli scrittori di fantascienza anglo-americani, come John Wyndham, con la sua invasione londinese di grandi piante carnivore aliene ne Il giorno dei trifidi (1951) e James G. Ballard che negli anni Sessanta e Settanta ha dedicato un ciclo di romanzi al te- ma delle catastrofi naturali e che, in molti rac- conti brevi e romanzi come Deserto d’acqua (1963) e La civiltà del vento (1976), ha cercato di coniugare ambienti e bio-climi, ibridandoli e descrivendoli come gigantesche bio-instal- lazioni artistiche e ambientali, sospese tra proprietà tecnologiche avanzate e una rilet- tura creativa di caratteristiche naturalistiche e meteo-climatiche. Ma ci sono altri autori, afferenti al movimento cyberpunk fondato da Gibson e Sterling, come Lucius Shepard che, in molti suoi romanzi, ad esempio Set- tore Giada (1987), inserisce la descrizione di una natura lussureggiante come le foreste amazzoniche, modificate geneticamente e da mutazioni spontanee, che fanno da scenario e da contraltare narrativo e temporale a vicen- de di vita quotidiana, amori e guerriglia, in
173 NEO-NATURE come ne “La terra dei morti viventi” (USA 2005), i fuochi d’artificio, che vengono sparati nel cielo da parte di un drappello militare in perlustrazione per distrarre gli zombie affa- mati, sono chiamati “fiori di luce”, a precisare che la natura qui è diventata solo un residuo simbolico in uno scenario tecnico-funzionale di guerra che accompagna, nella loro non- vita quotidiana, le orde di zombie collocati ai margini della città, in bidonville recintate e lontane dalle zone di potere.
Potremmo citare anche le recenti scoperte, evidenziate dai mass media, di giganteschi buchi nel terreno, abitati da centinaia di persone, immigrati, laureati e con permesso di soggiorno, nei dintorni delle fondamenta di lussuosi palazzi dell’hinterland milanese, come un pauroso remake dei film di Romero, così come “le civiltà del tombino”, scoperte nel distretto tessile di Prato, contenenti cen- tinaia di loculi per cinesi immigrati clande- stinamente che vivevano nell’ombra e nella sporcizia, e poi le centinaia di baraccopoli che si trovano nei pressi di molte città italiane tra cui Roma, lungo le rive del Tevere, di cui si è molto parlato in passato.
La memoria di questi luoghi trash è entrata da tempo nella filosofia di lavoro di un ar- chitetto e designer, sensibile e dissidente, come Gaetano Pesce che costruisce e pro- getta luoghi, case, scuole e oggetti di vita quotidiana, arredi e ambienti, utilizzando materiali e tecniche poveristiche, basate sul riciclo di materiali di scarto. Anche Frank Gehry, prima di diventare il super-architet- to globale che imperversa in tutto il mondo dal Museo Guggenheim di Bilbao in avan- ti, era molto attento a utilizzare, nei suoi progetti abitativi, i materiali poveri tipici delle bidonville, come filo spinato, plastica, cartone, ondulati, cocci di bottiglia, pezzi di
vetro, ecc. Marcello Pecchioli
Ancora un contributo straordinario è Garba- geLand (2001) di Juan Abreu. Abreu sembra aver fatto tesoro della lezione degli scrittori cyberpunk: ambientato in una isola post-apo- calittica, il romanzo narra una vicenda orwel- liana di fantascienza, sospesa tra la descrizio- ne di neo-favelas brasiliane e messicane e la civiltà dei consumi americana, in cui l’autore, dal suo punto di vista di scrittore esule cu- bano, è solidale con gli abitanti, braccati in continuazione da polizie e da gruppi di ricchi che si recano nell’isola per tragici e costosi safari umani. La stessa natura, mostruosa e deforme, sull’isola sembra giocare un ruolo empatico e diventare un alleato mimetico e partecipe delle vicende umane, tragiche e do- lorose, di questi anti-eroi, piegati dalla storia. Tutte queste opere sembrano il contraltare letterario e romanzesco sci-fi di quanto soste- nuto da una delle più note archistar dell’ar- chitettura contemporanea, Rem Koolhaas. In una recente raccolta di brevi saggi Junk Space (2006), Koolhaas fa l’elogio delle ar- chitetture spontanee che sorgono in tutto il mondo con velocità impressionante, ai bordi delle grandi megalopoli del primo e del terzo mondo e ci dice candidamente che questa forma disordinata e convulsa di antropizza- zione non può essere né limitata né fermata, semplicemente perché è l’espressione dei bisogni sociali, reali e ineludibili, di milioni di persone che non hanno niente e decidono di vivere nei pressi delle grandi città. Una tesi che pare dimostrata anche dalla descri- zione vivida delle bidonville di Mumbay nel film “The Millionaire” (USA 2008), di Danny Boyle, o dalla trilogia cinematografica su New York, Los Angeles e Marte di John Car- penter, in cui le città appaiono militarizzate, blindate, assediate. Anche George Romero negli ultimi film della serie degli zombie pare difendere la stessa tesi: tra l’altro ricordiamo
174NEOTOPIE
N
viandante (Galimberti, 2000), «il quale, a diffe-renza del ‘viaggiatore’ che percorre la via per arrivare a una meta, aderisce di volta in volta ai paesaggi che incontra andando per via, e che per lui non sono luoghi di transito in at- tesa di quel luogo, Itaca, che fa di ogni terra una semplice tappa sulla via del ritorno». Ciò non significa, tuttavia, rinunciare ad attri- buire a quegli spazi un carattere. Significa invece che si deve cominciare a pensarli co- me seducenti neotopie, in grado di riscattarli dal loro destino altrimenti, appunto, atopico, attraverso l’uso di dispositivi allestitivi rever- sibili, più che provvisori, ma non per questo meno capaci di attribuire senso, di esplorare la profondità, di far riscoprire il valore di un tempo liberato dal suo obbligo di essere tem- po in funzione di qualche cosa (Crespi, 2005). Purché dotati di quella capacità di rappre- sentare valori simbolici e dell’indispensabile qualità formale, cioè estetica, che per Ettore Sottsass costituisce una questione sociale di grande portata. In questo il design, inteso nella sua complessità di espressione cultu- rale autonoma anche dalla stessa tradizione del progetto di architettura, sembra essere maggiormente attrezzato ad affrontare con successo la sfida su questo terreno.
Da questo punto di vista anche la questione degli spazi verdi urbani può essere inscritta nella medesima prospettiva: è parte, cioè, della più generale questione del carattere ospitale della città, vale a dire del valore nuo- vo e diverso che deve essere attribuito agli spazi aperti della città contemporanea, in funzione del cambiamento delle loro moda- lità d’uso di cui s’è detto. Anzi, a ben vedere, è proprio quella vegetale la materia maggior- mente predisposta a consentire nel modo più pertinente questo cambiamento di prospetti- va, proprio per la sua natura di materiale in perenne trasformazione a cui anzi, a partire
Neotopie
Il primo paradosso della contemporaneità sa- rebbe costituito, per Marc Augé (Augé, 2009), dal cambiamento della misura del tempo e dello spazio. Il secondo dalla comparsa di un nuovo spazio-tempo destinato a sancire la «perennità del presente». Con la conseguente impossibilità di apprendere la storia in quanto «concreta, datata e vissuta», cui si sostituisce una «percezione estetica del tempo» sotto for- ma di «percezione di un’assenza, di un vuoto». Tutto ciò cambia profondamente il modo con cui oggi si usano gli spazi nei quali abitiamo e viviamo e, in particolare, gli spazi aperti del- la città. Che da luoghi dotati di una precisa identità dovuta alla loro capacità di esprime- re, ancora sino alle soglie della modernità, il senso di appartenenza a una civitas (Desideri, 1995), si sono trasformati in spazi nei quali le molteplici, atopiche, società contemporanee «consumano ingordamente il loro diritto all’a- nonimato collettivo» (Desideri, 1995, p. 81). Tuttavia è proprio su questo terreno che si misura la capacità del progetto contempo- raneo di riassegnare a queste porzioni di territorio un nuovo ruolo. Fondato non più tanto, però, sulla presunzione della capacità da parte del progetto di prevederne, come auspicava nella sua visione illuministica Giu- lio Carlo Argan, il “destino”, per diradarne la «turbinosa caligine» (Argan, 1965, p. 63), quanto piuttosto sulla possibilità di ammet- tere molteplici destini, capaci di intrecciarsi con storie differenti, modalità d’uso spesso anche imprevedibili e sempre più affidate a prospettive di consumo di breve durata. Nel- le quali il carattere événementiel della storia finisce per identificarsi con lo stesso caratte- re delle storie che vengono messe in scena: performance, eventi, nuovi cerimoniali pro- pri dell’epoca nella quale prevale l’etica del
175 NEOTOPIE stato prima svuotato da ciò che l’aveva inva- so per poi essere riportato alla sua “essen- za”, al suo suolo, ai suoi limiti, alla sua possi- bilità di aprirsi a numerosi destini: «Messa a riposo, la terra riprende i suoi diritti». Tra arte e design
Allieva di Peter Walker, la statunitense Marta Schwartz si afferma nel 1979 con il progetto del Bagel Garden di Boston. Tra le sue opere lo Splice Garden, allo Whitehead Institute di Cambridge, Massachusetts, del 1997, rea- lizzato sul terrazzo di un palazzo per uffici in corrispondenza di un centro di ricerca microbiologica, mette in scena una sorta di allegoria del giardino, ottenuta utilizzando, con sapiente ironia, piante di plastica e mate- riali artificiali come ad esorcizzare l’idea che la ricerca in campo biomedico dà solitamente di sé. Esemplare caso di adozione di un lin- guaggio posto a cavallo di molti generi, dalla pop art al design radicale.
Spazi pubblici abitabili
Nella Copenhagen delle grandi trasforma- zioni urbane, iniziate con la pedonalizzazione nel 1962 della Strøget, la principale arteria interna, l’attenzione è sempre stata riposta al tema della “vita pubblica”. Lo slogan public space public life rappresenta perfettamente l’idea che la città ha dello spazio aperto, com- preso quello verde. Vale a dire uno spazio abitabile, in cui ciascuno si possa sentire a casa propria. E per fare ciò vengono attrez- zati alcuni luoghi della città, come il Prags Boulevard, un giardino lungo due chilome- tri, attraverso però interventi leggeri, che si potrebbero definire di “arredo”: come l’uso della Prag Chair, a forma di sedia da regista a rappresentare l’archetipo delle sedie di tutti i parchi europei, o la Prag Lamp, presente lun- go l’intero parco.
dagli studi di Gilles Clément, dovrebbe essere riconosciuta una sorta di autonoma capacità di appropriarsi degli spazi, affrancandosi dai vincoli imposti dal progetto. Si può tentare, pertanto, di costruire una mappa nella quale collocare alcune famiglie di casi, rappresen- tative di modalità differenti di progettazione del verde urbano, ma tuttavia accomunate da un interessante intreccio di ispirazioni che si rifanno al mondo del design, delle arti, dell’arte dei giardini, dell’allestimento. Giardino come luogo vivente, angolo di mondo
Fortemente ispirate alle teorie di Gilles Clément, rientrano in questa famiglia le esperienze che assumono le «energie pre- senti sul luogo» tentando di «lavorare il più possibile insieme, e il meno possibile contro, alla natura» (Clément, 2004, p. 10). Tra le più interessanti in tal senso vanno ricordate quelle compiute dallo studio berlinese, ma di origine francese, “Atelier le Balto”, autore di progetti come il Jardin Sauvage, a Parigi, o il Garten 04, a Berlino, o per il FRAC, Fon- ds Regionale d’Art Contemporain (Atelier le balto, 2008), che nascono dall’intenzione di far emergere la componente soprattutto poetica del giardino, mediante il coinvol- gimento del pubblico che viene portato a scoprire con occhi diversi il luogo attraver- sato: quindi, in un certo senso, a “coltivare lo sguardo”. Senza tuttavia che l’uomo ab- bia il predominio sulle piante, e viceversa, e semmai facendo in modo di raggiungere una simbiosi, al fine di attribuire al giardino quel carattere che Paolo Bianchi ha definito di «luogo vivente», che è anche «poesia dello spazio, poesia delle piante, poesia del vive- re». Caratteri che emergono in tutta eviden- za soprattutto nel progetto per il FRAC, del 2008, con cui il vecchio giardino esistente è
176NEUROBIOLOGIA VEGETALE
N
Atelier le Balto, Archipel. L’arte di fare giardini, Bol-lati Boringhieri, Torino 2008.
Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro?, Elèuthera, Milano 2009.
Gilles Clément, Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata 2004.
Luciano Crespi, Performance, in Performance, a cu- ra di Luciano Crespi, Giovanna Piccinno, Agnese Rebaglio, Libreria Clup, Milano 2005.
Paolo Desideri, La città di latta, Costa & Nolan, Ge- nova 1995.
Umberto Galimberti, Ombre del sacro, Feltrinelli, Milano 2000.