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Naturazione urbana Nonostante oggi si parli molto di biodiver-

sità, troppo spesso questa parola risulta un po’ limitativa, perché viene usata solo con riferimento al numero di specie presenti all’interno di un ecosistema. Occorre sapere sarebbe stato Letchworth (1903) e che avreb-

be trovato in tutta l’Europa realizzazioni più o meno ispirate del modello originale. Se è vero che ogni concezione della città contiene un forte aspetto politico, il movimento delle cit- tà-giardino fu senza dubbio, più chiaramente che in altri casi, animato da idee sociali con accenti comunitaristi o da idee anarchiche o socialdemocratiche. Alla fine della Prima guerra mondiale, le città-giardino si svilup- parono in tutta l’Europa, soprattutto nelle re- gioni devastate dal conflitto. L’orientamento cambiò tuttavia negli anni Trenta quando, di fronte alla nuova espansione urbana, il terzo congresso CIAM (Congresso Internaziona- le di Architettura Moderna) raccomandò la costruzione in altezza come unico modello urbanistico razionale. Nella Carta di Atene (1934), Le Corbusier definì i grandi principi che avrebbero dovuto ispirare la nuova ur- banistica. Aumentando l’altezza degli edifici e sopprimendo in gran parte la strada co- me principio strutturante, la città avrebbe potuto soddisfare quattro funzioni di base: abitazione, lavoro, circolazione e ricreazione. L’espressione «sole, spazio, verde» implica- va che la costruzione (che doveva rappre- sentare il 12% del terreno) avrebbe potuto lasciare libero più spazio al suolo (88%), che sarebbe diventato spazio di gioco e “spazio verde”. La nozione di spazio verde prese uno slancio considerevole nel quadro dei piani di ricostruzione del dopoguerra (1946-1960), inizialmente in relazione alla preoccupazione igienista ancora percepibile in Le Corbusier (luce, verde), ma sempre più in una pro- spettiva propriamente ecologica; iniziò così a svilupparsi la lotta contro l’impermeabiliz- zazione dei terreni e la mineralizzazione della città, in quanto l’estensione della vegetazione avrebbe dovuto assorbire il CO2 prodotto dal riscaldamento, dall’industria e dalla circola-

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vate derivanti dalle specie selvatiche. Con le

variazioni climatiche, si rischia di assistere a migrazioni di specie come quelle che si sono verificate ogni volta che il pianeta ha vissu- to grandi alterazioni del clima. Nella nostra epoca, tuttavia, la situazione è notevolmente cambiata perché una delle specie, l’uomo, ha colonizzato una gran parte dei territori, modificando profondamente gli ecosistemi naturali e trasformandoli nei tipi di ambiente di volta in volta necessari per la sua attività: laghi artificiali, strade, autostrade, insedia- menti urbani, ecc. E tutto questo insieme di elementi concorre a occupare ogni pezzo di terra che, diversamente, sarebbe destinato alla nutrizione delle popolazioni viventi. Oggi l’attività agricola ha bisogno di estensione per sostenere la produzione alimentare con- tro la produzione di materie vegetali destina- ta sia all’industria agroalimentare che ad altri tipi di attività industriali. La produzione di combustibili di origine agricola potrebbe ag- gravare questa crisi. Cosa resterà alla natura spontanea davanti a queste esigenze spieta- te? Senza dubbio non molto, e gli ecosistemi naturali saranno talmente indeboliti che il loro funzionamento ne sarà alterato.

Avendo chiarito il problema della disponibi- lità di superfici per la flora spontanea, vorrei ora servirmi di un’altra immagine per espri- mere il mio pensiero. Mi sono spesso interro- gato sul tema della città, per tentare di darne una nuova definizione più biologica che ur- banistica o architettonica, una definizione che fosse applicabile sia alle grandi metropoli che ai piccoli borghi. La città è costituita in gran parte di materiali minerali, escludendo il me- tallo che tuttavia, rispetto alla vegetazione, ri- veste un ruolo analogo a quello del cemento, della pietra e degli altri componenti di origine geologica che sono alla base delle costruzioni e quindi dell’architettura della città. In effetti che, oltre alle specie rare e a rischio, esiste

una lunga serie di specie comuni che alcu- ni definiscono banali e che altri descrivono come Terzo paesaggio o come biodiversità ordinaria. Anche queste specie contribuisco- no, insieme ai milioni di individui di una data comunità (specie), al funzionamento dell’in- sieme degli ecosistemi. Oggi sappiamo anche che in territori come quello francese gli spazi protetti riservati alla natura selvatica non superano il 10% del totale. Periodicamente si solleva il problema della perdita della di- versità dei biotipi e, allo stesso tempo, della perdita di territorio per una natura spontanea che ha bisogno di spazio. Non si è mai parlato tanto di ecologia e non si sono mai distrutti così tanti biotopi che, nel gergo naturalista, provengono dagli habitat. Ecco perché, in oc- casione dei colloqui sulla biodiversità dell’U- nesco tenuti nel 2005 a Parigi, il tema princi- pale in discussione è stato proprio l’erosione della biodiversità.

In tutte le città, sia grandi che piccole, per molto tempo sono stati ammessi solo par- chi e giardini che ospitassero specie preva- lentemente esotiche rispetto a quelle della regione. Le specie appartenenti alla natura ordinaria locale sono state relegate al ruolo di erbacce e combattute nei giardini, sui mar- ciapiedi, ai piedi degli alberi, ecc., perché un marciapiede su cui nasceva dell’erba veniva considerato sporco.

Per molti, in effetti, la natura ordinaria è una sorta di sporcizia, un rifiuto di cui spesso e volentieri si tende a disfarsi.

Pensando al funzionamento ecologico degli ecosistemi, gli organismi vegetali sono sen- sori energetici che trasformano la materia minerale (azoto, acido fosforico, potassio, cal- cio, ecc.) in materia organica per i consuma- tori, che sono non solo gli animali ma anche gli uomini, naturalmente per le specie colti-

167 NATURAZIONE URBANA 100 anni sovrastando la cima del campanile di Mosset, nei Pirenei orientali. Infine arriva- no le forme di vegetazione superiori, di cui gli alberi rappresentano il punto più visibile ai nostri occhi. Nel Giura francese vi sono paesaggi famosi in cui è possibile osservare questa evoluzione, come la celebre Reculée di Baume les Messieurs.

Trasponendo il ragionamento nel campo del- la costruzione, potremmo paragonare questa struttura a un edificio con mura spesso trop- po verticali, che presentano un grande nume- ro di cenge (i balconi) e un tetto che potrebbe rivelarsi molto favorevole allo sviluppo di una vegetazione. Nella maggior parte di queste costruzioni mancano soltanto le spaccature. E l’invecchiamento, che a volte comporta l’attaccamento di una pianta all’edificio, è vissuto come un’aggressione, da ripristinare con un bel restauro!

Nell’epoca odierna, con la politica di rispar- mio energetico che impone misure di isola- mento esterne, si tende a orientarsi sempre più spesso verso nuovi tipi di rivestimento degli edifici, usando materiali come il legno, il vetro o metalli come l’alluminio. Questo ci allontana dalla possibilità di colonizzazio- ne spontanea che la città potrebbe offrire. Fortunatamente l’abbandono dei diserbanti chimici favorisce sul terreno l’estensione orizzontale di una parte della biodiversità ordinaria. Si inizia a osservare il timido ritor- no di un’entomofauna, indispensabile agli equilibri biologici ricercati, anche all’inter- no delle città, e impossibile da ottenere nei giardini senza il ricorso a questa biodiversità ordinaria. Allo stesso modo, non si potreb- be sperare che le città del futuro si “auto- colonizzino”, anche sulle loro costruzioni? Diventerebbero in sé dei veri ambienti natu- rali. Chiaramente questo non rimetterebbe affatto in discussione gli spazi verdi creati una città assomiglia, a seconda delle sue di-

mensioni, a una collina più o meno grande interamente rocciosa, nella quale sono stati scavati assi di circolazione orientati in varie direzioni che si incrociano, si intersecano per creare una rete. A seconda della loro lar- ghezza, questi assi si trasformano in canyon, valli, pianure o anche valli fluviali. I blocchi di roccia tagliati da questa rete possono essere paragonati agli edifici delle nostre città. Continuando nel ragionamento, questa roc- cia tagliata finirebbe per vegetalizzarsi spon- taneamente, un po’ sul modello di ciò che possiamo osservare sui dirupi rocciosi delle montagne, nei canyon, sulle scogliere marit- time, creando tutta una serie di microclimi ombreggiati, surriscaldati, ventosi e dunque un mosaico di ambienti che sarebbero favo- revoli alla colonizzazione spontanea. Questi dirupi hanno un’organizzazione nota, la cui parte verticale è la muraglia. Essa non forma un blocco compatto, perché è percorsa dalle diaclasi della roccia che diventano spaccature più o meno divaricate. La roccia inoltre, con il suo sistema di erosione, ha favorito la for- mazione nella muraglia di parti più o meno orizzontali, le cenge. La sua sommità è ten- denzialmente piatta, almeno questo è quanto si osserva di solito in natura. Tutto questo equipaggiamento crea condizioni favorevoli ad accogliere tutti gli stadi di colonizzazione, che iniziano sempre dai batteri, proseguono con i cianobatteri e altre microalghe a cui fanno poi seguito i muschi. È a questo stadio che inizia, sotto il muschio, ad accumularsi dell’humus, che in parte deriva da una pro- duzione propria, mentre per il resto proviene dalle polveri dell’atmosfera trattenute dai cu- scinetti del muschio. Si crea così un ambiente vitale in cui, sotto il controllo del muschio, possono svilupparsi betulle, pini e altre spe- cie. Lo testimonia il pino che cresce da più di

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Le problematiche relative alla vegetazione

costituiscono uno degli elementi più imme- diati ed evidenti nella sistemazione paesaggi- stica di un sito archeologico e il tema è stato affrontato in diverse occasioni nel corso degli ultimi tre secoli, con contributi teorici e pro- gettuali, spesso elaborati sulla base di codici esclusivamente estetici.

Nel Memorandum steso nel 1709 per moti- vare la conservazione delle rovine gotiche di Woodstock Manor all’interno del progetto per il parco di Blenheim, John Vanbrugh fornisce già indicazioni sulle specie più ap- propriate da inserire tra le rovine, tutte sem- preverdi e di aspetto “selvatico”, come tassi e agrifogli, da piantarsi fittamente per formare un boschetto, in modo da ottenere un sogget- to degno della migliore pittura paesaggistica. Il primo autore a occuparsi in maniera siste- matica dei criteri per la scelta e la gestione della struttura vegetale di un sito archeolo- gico è Giacomo Boni, che vi dedicherà gran parte della sua opera teorica e che nel 1896, in una lettera al Ministero, descrive le diverse operazioni connesse alle sistemazioni a ver- de da lui curate nelle aree archeologiche dei Fori, suddividendole per voci tematiche. Il repertorio prende in esame aspetti culturali, estetici, gestionali e manutentivi, indagando sulle possibili declinazioni dei rapporti tra rudere e vegetazione: si tratta così di “Flora parassitaria”, “Falciature”, “Pelliccie erbose”, “Cortine vegetali”, “Recinzioni”, “Alberate”, “Flora ornamentale”, “Macère”, “Flora clas- sica” e, per ciascuna di queste voci, l’autore illustra le operazioni già svolte e quelle da svolgere in futuro, evidenziando temi e pro- blematiche relative non soltanto alle albera- ture, ma anche alle specie erbacee, tappez- zanti e arbustive (De Vico Fallani, 1988, p. 45). Nel contesto culturale italiano dei primi de- cenni del Novecento, in cui, anche grazie alla a immagine della nostra rappresentazione

della natura.

Forse solo in quel momento le città diventereb- bero sopportabili, perché il nostro bisogno di natura non può essere totalmente soddisfatto da decorazioni vegetalizzate negli interni o all’a- perto. La fuga settimanale di una parte della popolazione urbana verso il mare, la campagna o la montagna rappresenta un buon indicatore di questa necessità. Claude Figureau

Nature archeologiche