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Nuovo spazio pubblico Il nostro presente si identifica nella città ba-

sata sullo sviluppo, il consumo di territorio e la trasformazione continua, nella società post- industriale e nella condizione post-moderna, a cui sembrerebbe ragionevole attribuire una certa cautela ecologica e una certa sensibilità verso le questioni della rigenerazione urbana. D’altra parte, in tale contesto, il concetto di paesaggio urbano ci pone di fronte a scenari estremamente complessi, che da un lato ren- dono quasi impossibile una risposta chiara, incisiva e definitiva e dall’altro mostrano una certa debolezza professionale, un’inquietudine legata alla necessità di stabilire nuovi approc- ci, rinnovati modelli urbanistici pieni di vigore, effervescenti.

Il paesaggio è dinamico e mutevole, così diffi- cile da controllare, manipolare e conformare. Il paesaggio, insieme di molteplici processi, richiede un’approssimazione creativa. za) che non mostrano apprezzabili movimenti

se osservate a occhio nudo. Anch’esse, tut- tavia, si muovono intensamente, anche se su una scala di tempi molto diversa dalla nostra. La corretta visualizzazione di questi eventi len- ti richiede tecniche cinematografiche che ne aumentino la velocità.

Negli ultimi anni l’interesse della scienza per i movimenti della pianta è molto cresciuto. Nu- merosi laboratori, oltre al LINV, si occupano oggi di questo interessante tema. Poiché, in- fatti, i movimenti delle piante sono il risultato di una lunga elaborazione, molto più laboriosa che negli animali, quando una pianta decide di muoversi lo fa a ragion veduta. Il consumo energetico che la pianta sostiene per muoversi deve essere ripagato dal risultato ottenuto con il movimento. Per questo studiando perché e come le piante si muovono, si cerca di ottenere informazioni sulle loro capacità, diciamo così, cognitive.

Sonno

La definizione di “sonno delle piante” la dob- biamo a Linneo che nel 1755 pubblicò un librettino poco conosciuto dal titolo Somnus plantarum in cui riassumeva i risultati dei suoi studi sulla differente posizione assunta dalle foglie e dai rami di alcune piante. Nonostante Linneo sia stato il primo a formalizzare in un trattato il fenomeno, questo era, nondimeno, conosciuto fin dal tempo dei Greci, tanto che Androstene, scienziato del seguito di Ales- sandro Magno, descrisse per la prima volta la variazione di posizione fra giorno e notte delle foglie di tamarindo già nel IV secolo a.C. Oggi abbiamo imparato che questo fenome- no interessa tutte le specie vegetali e stiamo cercando di addentrarci nel meccanismo che lo regola. Sappiamo che ogni specie ha la sua posizione preferita, che la necessità di riposo è vitale anche nelle piante e che, se le ore di

180NUOVO SPAZIO PUBBLICO

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modello adeguato che ci permetta di affronta-

re i nuovi obiettivi professionali ed educare le generazioni future che si muovono fra l’insi- curezza degli strumenti tradizionali e la ferma volontà di modificare in positivo un ambiente instabile.

In un momento in cui la città contemporanea non ha limiti, e il territorio aperto e il costru- ito si fondono, si determina la necessità di adottare nuovi approcci che ci permettano agilità di movimento e rigore operativo in una dimensione generale di diffuse incertezze progettuali.

La crisi ecologico-ambientale, i cambiamenti sociali, i dubbi nel campo dell’architettura e dell’urbanistica ci obbligano dunque a ripen- sare modelli ormai inadeguati, introducendo nuove forme d’uso dello spazio costruito che, rispettando la conformazione di un territorio, assumano come obiettivi progettuali primari il controllo energetico, la sensibilità ecologica, la coscienza sociale.

Occorrerà allora parlare di nuovi modi di usare la città e di rapportarsi alla dimensione urbana, occorrerà riflettere, adottare nuovi modi di vivere lo spazio urbano per poter scoprire una rinnovata attitudine progettua- le per le nuove generazioni di professionisti maggiormente coinvolti nelle sfide della con-

temporaneità. Agata Buscemi

Riferimenti bibliografici

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Raymond Unwin, La practica del urbanismo: una introducción al arte de proyectar ciudades y bar- rios, Gustavo Gili, Barcelona 1984.

Così nel progetto si dimostra necessaria l’inte- razione fra “l’oggetto” disegnato e il suo sup- porto vivo, su cui l’oggetto genera tensioni e spazi urbani nuovi e dinamici. Questo processo è infinitamente complesso perché dimostra che lo spazio non è predeterminato, ma si sviluppa attraverso tensioni e relazioni fra le parti. Ormai da tempo, l’idealizzato spazio pubblico moderno è stato sostituito dalla reale dinamica delle trasformazioni urbane.

Esempi come quello del distretto 22@ di Bar- cellona rispondono alla necessità di recupe- rare il dinamismo economico e sociale delle antiche aree industriali, creando un contesto diverso e compatto, in cui gli spazi produttivi convivono con centri di ricerca, di formazione continua e di nuove tecnologie, zone residen- ziali, servizi e zone verdi che migliorano la qualità della vita e del lavoro.

Lo spazio pubblico, elemento di supporto della struttura urbana, delle relazioni e delle attività, uno dei componenti costitutivi per la configu- razione della città, si propone con una sequen- za di scale e di misure, dove le grandi aree si estendono gradualmente fino alle piazze e ai percorsi pedonali connessi al tessuto edifica- to, convertendosi in reali spazi di relazione fra diversi fruitori.

Eppure, nel caso di Barcellona, nonostante una serie di progetti contemporanei rivaluti- no l’area del 22@ rispetto a un processo che alcuni definiscono come “riappropriazione ca- pitalista della città”, rinnovando senza dubbio la consolidata tradizione barcellonese di speri- mentazione degli spazi pubblici, alcuni dubbi sorgono in merito alla possibilità di riconosce- re questa operazione come un effettivo passo in avanti verso un paesaggismo sostenibile e sociale.

La società è in costante cambiamento così come l’architettura, gli edifici, le relazioni ur- bane e sociali: occorre reinventare allora un

181 ORNAMENTO di messaggi pubblicitari, moderne interpreta- zioni di antichi dirigibili “tatuati”, si ha istanta- neamente l’idea di “tatuaggi” contemporanei all’interno della città.

Oppure giocando con le estreme interpreta- zioni di episodi che sorgono quasi furtivi all’in- terno della memoria, troviamo che, nel film “Nuovo cinema Paradiso” di Giuseppe Torna- tore, all’ornamento degli edifici settecenteschi di un barocco in ritardo tipico della tradizione siciliana, quasi per magia, si sovrappone l’im- magine di un film proiettato sulle facciate delle case: sostituzione moderna di un “ornamento” o “tatuaggio” d’immagine, a un “ornamento” o “tatuaggio” di sostanza.

L’ornamento all’interno della città ritorna dun- que prepotente sotto diverse forme, sia sta- tiche, con grandi manifesti pubblicitari, sia dinamiche, con i grandi schermi e insegne. L’ornamento non più attribuibile a singoli episodi diventa una sorta di nuovo linguaggio sottile della città, nella sottile ambiguità con- temporanea che costringe al sottile: schermi, computer, telefoni, libri e architetture. Un or- namento contemporaneo che ha le sue radici nel libro Learnig From Las Vegas di Robert Venturi e si articola poi attraverso le grandi teorie dell’effimero e della leggerezza nella vi- sione contemporanea della città, dove l’orna- mento, da stile o linguaggio architettonico, si è trasformato in una sorta d’identità collettiva del vivere, comunicando messaggi.

Penso però esista ancora un’altra forma di “or- namento” o di “tatuaggio”, slegato completa- mente dal “tatuaggio” come forma effimera del comunicare, strettamente connesso invece al “tatuaggio” come forma di scrittura permanen- te e sedimentale: l’ornamento nel paesaggio. L’umanità, usando questa parola con tutta l’enfasi di cui di solito si carica una parola così collettivizzante, ha “tatuato” la superficie terre- ste per secoli, sovrapponendo costantemente

Ornamento

Nel famoso scritto Ornamento e delitto (Orna- ment und Verbrechen), pubblicato nel 1908, Adolf Loos manifesta l’esigenza, per una nuo- va società, di liberarsi da una sorta di “tatuag- gio” applicato all’architettura, che affermava essere rappresentato appunto dall’ornamen- to. Il tatuaggio era preso ad esempio come espressione ornamentale di tribù non “svilup- pate”, ornamento antico o banale, utilizzato per comunicare.

Oggi, invece, il tatuaggio sembra essere una forma di espressione ritornata comune, sem- pre di più un mezzo contemporaneo della comunicazione corporea. Un tentativo stoico di abbandonare la struttura grammaticale del linguaggio, per esprimersi in maniera “triba- le” attraverso l’uso dell’immagine.

Anche le città, seguendo una sorta di det- tato comune dell’agire, tendono a tatuarsi, tatuaggi comunque diversi dall’ornamento citato da Loos.

Ricordando le suggestive sequenze del film “Blade Runner” di Ridley Scott, dove mitici paesaggi del futuro sono rappresentati dal lento passaggio di strane astronavi portatrici

182ORNAMENTO

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degli Stati Uniti all’inizio del secolo scorso,

scopre il tipico paesaggio americano formato dal “tatuaggio” monotono di interminabili gri- glie dell’agricoltura.

Una visione ornamentale dello spazio del pae- saggio che, portato alle estreme deduzioni, può essere riletto nelle forme astratte degli og- getti di uso comune delle popolazioni africane, dove l’astratto come forma di ornamento non è eleggibile a opera d’arte, ma contiene in sé ogni necessità del vivere.

Nello stesso modo vedo che il paesaggio or- namentale letto attraverso Google Earth trova la sua particolare forza nell’uso comune e do- mestico, privo di regole di lettura, ma carico di manifesti al tatuaggio. Senza quella carica estetica che invece prepotentemente assume, per esempio, in alcuni disegni “astratti” di Paul Klee che anticipa la terra vista dall’alto, trovo che il tatuaggio è ornamento nell’uso comune del paesaggio, condizione collettiva dell’uomo, una sorta di fine corrugazione della superficie terreste, diverso dal tatuaggio della città che invece rappresenta l’estremo tentati- vo di rendere comune l’immagine come unica espressione possibile. Valerio Morabito Riferimenti bibliografici

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Landscape Architecture, edited by James Corner, Princeton Architectural Press, New York, 1999. Udo Weilacher, Between Landscape Architecture

and Land Art, Birkhauser, Basel 1996. alle figure che le forze della natura andavano

continuamente formando, un’altra superficie, una sorta di scrittura permanente legata ai segni e alle figure.

La grande scala del paesaggio naturale diven- ta minuta nella scala del segno del paesaggio tatuato, in quel segno del dettaglio che porta alla forma geometrica.

Se l’ornamento del paesaggio, riletto come tatuaggio, non è più segno, il complesso delle relazioni prodotte nella modificazione della superficie e del suolo potrebbe condurre a una rilettura della storia del territorio in termini di ornamento e di tatuaggio.

Per fare questo bisognerebbe provare a co- struire uno strumento culturale capace di po- tere incamerare le informazioni e catalogarle. Se per esempio prendessimo a testimone il brevissimo e straordinario racconto di Kafka il Cavaliere del Secchio, citato nelle Lezioni Americane di Calvino sulla “Leggerezza”, leg- geremmo di un uomo povero aiutato dal suo secchio per il carbone a volare sopra il mondo a lui ostile, raggiungendone un altro leggero e magico. Come con il secchio di Kafka, oggi possiamo sorvolare il mondo con una legge- rezza inaspettata, e questa leggerezza ci pone nella possibilità di rileggere il mondo attraver- so differenti prospettive e spazi. Applicando lo strumento del tatuaggio nelle sue forme più recondite, monumentali e barocche, scopri- remmo che l’ornamento nel paesaggio è pre- sente ovunque, con tratti sorprendentemente comuni in ogni parte del mondo: una sorta di stile, come un linguaggio complesso con radi- ci comuni complesse.

Usando lo strumento oggi moderno di Google Earth, che sostituisce il secchio del comune e non eroico Cavaliere di Kafka, è possibile rileggere una certa rispondenza di questa azione con l’azione “non eroica” di J.B. Jakson che, sorvolando per la prima volta il territorio

183 ORTI DI PACE bisogna prenderla alla lontana. Non si può passare subito all’apprendimento di un sape- re pratico, come avviene nelle civiltà agricole. Talvolta bisogna riattivare facoltà cognitive perdute iniziando dal gioco, da quella sel- vatichezza di cui scrive Paolo Tasini nel suo bellissimo blog, www.attraversogiardini.it, o dalle Wild Zones, per usare l’espressione coniata da Karen Payne e David Hawkins, il creatore dello Edible Schoolyard di Berkeley (www.wild-zone.net). Si tratta di ripristinare i diritti dei bambini, come nel bellissimo deca- logo formulato da Gianfranco Zavalloni. L’ideale sarebbe una scuola immersa in uno spazio abbastanza grande da comprendere, oltre all’orto, un angolo ombroso di bosco, qualche albero da frutta, aiuole di piante aromatiche, un giardino insomma dove si avrà voglia di andare senza nemmeno sapere perché. Forse per l’attrattiva di quel tavolo sotto una pergola, di quella panca tra due alberi, di quella fragranza di osmanto. La pace e la serenità del giardino ispireranno il desiderio di restarvi più a lungo, di indugiare in quella dimensione dove tutto sembra più facile, anche il respiro. Magari trafficando tra le piante, lavorando la terra, ma anche ozian- do in quel luogo capace di farci sentire parte della natura.

Nel 2003 fui invitata a parlare a un gruppo di maestre che avrebbero tenuto un orto a scuola. Ho così scoperto, nella sede dell’Ecoi- stituto delle Tecnologie Appropriate, fondato nel 1980 a Cesena ispirandosi alla filosofia di Ernest Schumacher, che da anni alcuni inse- gnanti si adoperavano per regalare ai bam- bini questa esperienza formativa e gioiosa a un tempo, capace di rispondere a uno dei più urgenti bisogni del nostro tempo: ricon- netterci alla natura, apprendere qualcosa dei saperi pratici legati alla sopravvivenza, all’au- todeterminazione e quindi anche alla libertà.

Orti di pace

Non riesco a immaginare una città ecoso- stenibile abitata da uomini e donne ignari dei processi della vita organica, isolati dalla natura. Etty Hillesum diceva che uno degli aspetti più angosciosi del campo di concen- tramento era l’assenza totale di alberi. Certe città non sono molto diverse. Non si tratta, tuttavia, soltanto di alberi, di parchi e giardini pubblici. Si tratta di abitare in città arricchiti dalla consapevolezza di cosa animi la rete della vita.

In altre parole: non si tratta solo di non ce- mentificare a oltranza, ma anche e soprat- tutto di coltivare cittadini capaci di prendersi cura del mondo. Gli orti urbani rappresen- tano la palestra ideale per questo genere di allenamento. Che si tratti di orti sociali, preferibilmente non riservati ai soli anziani, o – investimento ancora più lungimirante – di orti, meglio ortigiardini, scolastici.

Vedo l’orto di scuola come uno spazio inter- medio tra pubblico e privato. Quando sento chiedere da dove cominciare per realizzare un orto, rispondo: dalla bellezza. Mi è ca- pitato, in una scuola, di vedere un orticello realizzato con le migliori intenzioni, eppure non era durato più di un paio di stagioni. Era molto brutto: un’aiuola squadrata nel mezzo di niente. Non c’era un angolo all’ombra dove riflettere e riposare, non un fiore, un albero o un cespuglio fragrante. Niente di niente. Solo terra nuda per sfacchinare.

Allora ho compreso che, per assicurare lun- ga vita all’orticello di scuola, occorre evitare di affrontare la cosa di petto. Meglio partire, anziché dalla coltivazione di piante alimen- tari, dalla creazione di un angolo di bellezza o semplicemente di natura: perché quando l’isolamento e l’alienazione dei cittadini ri- schiano di toccare il punto di non ritorno,

184ORTI DI PACE

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nel marzo del 2009, è stato infine proposto il

manifesto Per una rete degli orti di pace. Gardens are for people, recitava mezzo se- colo fa il titolo del paesaggista californiano Thomas Dolliver Church. Potremmo, oggi, ribaltare: le persone sono ciò di cui il giardi- no, divenuto planetario, non può fare a meno. In greco antico il termine per designare la na- tura – physis – significava processo di crescita e venuta al mondo, non qualcosa di reificato o divinizzato, ma un movimento che coinvol- ge anche gli umani: qualcosa su cui riflette- re adesso che pare più che mai necessario, anche in città, tornare alla radice del nostro antico cercare, tra le piante, la vita. Pia Pera Per una rete degli orti di pace

Chiunque, nel rispetto dell’ambiente, coltivi la terra lavora anche per la pace. Anche quando i conflitti mettono a repentaglio la sopravvi- venza, e li chiamano per questo orti di guerra, sono sempre e comunque orti di pace. In questo momento storico, in cui i fonda- menti stessi dell’economia vengono rimessi in discussione, e il concetto di cosa abbia valore cambia al punto che i terreni agrico- li cominciano a venire considerati un bene rifugio, è arrivato il momento di annodare una rete tra tutti noi che crediamo che lavo- rare la terra in modo organico sia cosa bella e buona.

Occorre imparare di nuovo l’abbiccì della no- stra civiltà, che ha origini agricole. Per questo siamo partiti dagli orti scolastici: aule all’a- perto dove apprendere un modo di stare al mondo per cui, anziché semplici consumatori, diventiamo creatori di vita, e nella pratica di una possibile autosufficienza apprendiamo il respiro della libertà interiore. Oltre all’orto, abbiamo poi pensato anche al giardino, al bo- sco, anche ad aree lasciate alla creatività spon- tanea della vegetazione: in ogni caso, spazi E anche: trasformare la scuola in qualcosa di

vivo di cui prendersi cura.

Allora si parlava ancora poco di orto a scuo- la. Lo facevano, con scarso riconoscimento, maestri appassionati come Gigi Mattei a Pennabilli, Ida Pannone a San Giovanni al Pozzo, Nadia Nicoletti a Villazzano, Teodoro Margarita ad Asso, Lidia Savoldi a Torino, per citarne almeno alcuni.

A me dispiaceva che queste iniziative fati- cassero a diffondersi: coltivare un orto offre l’opportunità di stimolare la consapevolez- za ecologica in modo spontaneo, nella più completa libertà interiore, nel fare più che nel discettare, prendendo come maestro la stessa natura. In una parola, di lanciare dei semi. Così, nel marzo del 2006, mi sono autonominata ufficio stampa dell’orto e ho lanciato www.ortidipace.org come strumen- to a disposizione di chi si proponesse di cre- are orti e giardini nelle scuole, nelle carceri, negli ospedali, oppure di coltivare orti in appezzamenti di terreni pubblici assegnabili su richiesta. Sul portale hanno cominciato a scrivere in tanti, raccontando le loro espe- rienze oppure rispondendo alle richieste di chiarimento di chi aveva voglia di passare dalla voglia di fare al fare. Da allora orti- dipace.org si è arricchito di innumerevoli contributi, in una sorta di polifonia orticola che ha portato a scoprire come la vicenda di ogni orto sia diversa: un bell’arricchimento e, spero, un invito alla lettura.

Nel 2005 si è svolto a Cesena il primo di una serie di convegni annuali: una giornata in cui maestri e ortolani, ma non solo, si sono riuniti per raccontarsi esperienze sul campo. È stata un’occasione di condivisione e inco- raggiamento. Nel 2006 Slow Food ha firmato un protocollo d’intesa con l’Ecoistituto di Ce- sena per collaborare nello sviluppo del pro- getto “Orti in Condotta”. Al quinto convegno,

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