producono costruzioni urbane differenti, ma altrettanto rappresentative della realtà in cui cerchiamo l’ordine in un sistema pre- determinato.
Una realtà che si presenta sempre sotto nuovi aspetti, dando origine a problemi impensati o a soluzioni inaspettate. Gli spazi seppure di- sordinati, in realtà racchiudono un processo creativo, che fonda le basi sulla ricerca di un ordine che è altro in quanto nuovo, comples- so, vitale ed è tale ricerca che darà l’impulso a modificare la vecchia forma-urbana.
Alcuni studiosi si sono focalizzati sulla consi- derazione degli spazi urbani degradati come generatori di micro-criminalità quale feno- meno antecedente alla grande criminalità organizzata. Intervenire sullo spazio ove si annida la micro-criminalità implica evitare il degrado del luogo e il mancato rispetto delle regole. La teoria nota come “Broken Win- dows” (finestra rotta) di cui è autore George Kelling mette in evidenza come un quartiere può degenerare nel disordine e nel crimine se nessuno si occupa di mantenerlo ordinato. I luoghi non voluti e riconosciuti dalla am- ministrazione funzionalista possono divenire aree urbane della sopravvivenza e costituire, seguendo la definizione dell’architetto-antro- pologo Marc Augé, i non luoghi antropologi- ci della città che, se non curati, possono dege- nerare in aree di pericolosità sociale. Le dimensioni territoriali dei non luoghi si possono riscontrare in angoli cittadini, piazze, discariche, parti nascoste delle periferie, zone queste “di frontiera”, ma che rappresentano pur sempre spazi della città, dove vi sono persone che manifestano esigenze di vita e di sopravvivenza. La ricerca di un luogo dell’a- bitare fa sì che spesso sorgano costruzioni originali, che nascono con materiali di scarto (lamiere, tavole, cartoni) o elementi naturali già presenti in loco come canne, argilla, fango. capacità di dialogo con le istituzioni. Per
questo l’impegno ora è rendere accessibile una directory ragionata delle realtà milane- si che operano sul verde urbano sostenibile e partecipato. Emina Cevro Vukovic per www.lunedisostenibili.org
Cura dei luoghi
Il mondo suburbano delle città europee è caratterizzato da divisioni nette. Esistono le periferie per le classi lavoratrici, incentrate su quartieri popolari di proprietà statale costrui- ti nell’ottica assistenzialistica del Welfare. In molte realtà urbane si sono creati dei veri e propri “quartieri-ghetto” per le minoranze etniche degli immigrati: un caso tipico è rap- presentato da “la Courneuve” a Parigi. Oppu- re si sono formati veri e propri ghetti etnici riservati a magrebini (soprattutto a lavoratori di origine araba e alle loro famiglie). Tipici casi sono quelli dei quartieri londinesi di “To- wer Hamlets” o “Hackney” o quello parigino di “La Goutte d’Or”.
Le pratiche sociali spontanee, alternative, anche all’interno di quartieri periferici si pongono come ponte tra una realtà sociale “insostenibile” (così percepita) e un futuro possibile che si presenta attraverso una ten- sione progettuale nascosta: “una vita decente ancora da conquistare” e tale tensione viene a costituire un processo micro-rivoluzionario. L’importanza che ne deriva è di saper leggere il fenomeno e operare un riadattamento del- le forme dell’esistenza a un nuovo costrutto sociale, teso verso la liberazione dall’oppres- sione economica, sociale, culturale, verso il riscatto di vite costrette ai margini. Creare forme di coesione sociale e partecipazione. L’ordine e il disordine nel contesto urbano sono concetti del nostro immaginario, che
80 CURA DEI LUOGHI
C
scrizione del Quartiere del Varignano e l’As-sociazione Araba Fenice.
Questa Associazione è un gruppo di aggre- gazione culturale, composto da soggetti di diversa provenienza: persone con problema- tiche legate al carcere e all’immigrazione, in primo luogo, e volontari privati che accettano di lavorare con finalità sociali per un progetto di recupero sociale e di servizio al quartiere e alla città (www.arabafeniceonlus.it).
La metodologia richiama le linee della filo- sofia michelucciana – un lavoro sociologico e progettuale sistemico-relazionale, in parte costituito attraverso reti di auto-aiuto e mu- tualità – in cui il protagonismo degli attori si manifesta nel trovare soluzioni originali per qualificare uno spazio pubblico marginale e renderlo fruibile da parte della cittadinanza. La riqualificazione degli spazi degradati si rivela uno spazio terapeutico, che permet- te di avviare un processo di recupero della persona disagiata – la riqualificazione della propria vita, sembra camminare di pari pas- so con quella dell’area verde. In altre parole rendere bella l’area significa rendere belli se stessi e permette di trovare la spinta per andare avanti nella consapevolezza di valere come persone, di avere una propria identità e dignità, di sognare cose belle per se stessi e per gli altri. Nasce così, da posizioni parteci- pate e condivise, l’idea di un giardino che sia di tutti e lo spazio di un luogo dove le persone si possano incontrare in libertà.
Il luogo dell’incontro è stato pensato come una “pagoda” che, nella circolarità delle sue linee, rappresenta un luogo dove le persone possano stare insieme in armonia: il tema del cerchio come simbolo di unione e condivisio- ne. Il progetto di riqualificazione ha alla base l’atteggiamento di accoglienza verso ogni cittadino che dovrà trovare nel parco un la- boratorio sociale, per gli incontri liberi, per Gli “slums”, non di rado tuguri di canne, ter-
ra, legno e intonaco, i barrios, insediamenti di Venezuela, Columbia e di tutta la catena andina, che “sorgono d’incanto al mattino” dopo un lavoro alacre di una notte, costruiti con vecchie lamiere, tavole recuperate, pali di legno, le “baracche” che sorgono anche nelle zone periferiche delle nostre città, fatte di muratura e rappezzate con semplici mate- riali: sono questi alcuni esempi di luoghi dove lo spazio è stato plasmato “spontaneamente” e informalmente dall’uomo per sue necessità esistenziali, di sopravvivenza, ignorando ogni regola istituzionale.
Spesso l’ambiente urbano diviene il luogo delle diversità in quanto vengono attivate mo- dalità innovative e creative di utilizzo o riuti- lizzo dello spazio disponibile. Si creano forme dell’abitare che seguono percorsi spontanei che non tengono conto di canali formali, di regole e di progetti istituzionali, al contrario sono dettate dalla rivendicazione di alterità come altra forma di espressione dell’abitare. Tuttavia anche in queste condizioni estreme si dà vita a forme di sopravvivenza che contengo- no speranza e ideali e talvolta anche bellezza. Ad esempio, il progetto della realizzazione di una pagoda/luogo di incontri nel parco della Fenice a Viareggio, presentato al pubblico a fine settembre 2007 nella sala consiliare comunale, costituisce il prodotto di un lun- go lavoro sviluppato a livello locale, nella considerazione di un’auto-progettazione di spazi degradati: un’area verde abbandonata in un’area periferica urbana è stata oggetto di un intervento di riqualificazione, attivato da un gruppo di ex-detenuti e tossicodipen- denti che hanno concentrato le loro energie in servizi utili alla cittadinanza.
Il progetto di riqualificazione del “parco della Fenice”, già “parco della Rotaia” nasce da un comune impegno di tipo sociale tra la Circo-
81 CURA DEI LUOGHI di spazi trascurati e degradati, dando vi- ta alla rigenerazione di un’area cittadina, creando cultura e favorendo le linee de- mocratiche di partecipazione. Questi pro- cessi devono essere osservati all’interno delle politiche del territorio in una logica di governance e di cittadinanza attiva. Tali fenomeni urbani necessitano una giusta lettura per poter costruire forme di auto- governo e sviluppare una coscienza del luogo attraverso un’auto-progettazione degli spazi e una decodificazione e rico- struzione di saperi. Emma A. Viviani Riferimenti bibliografici
Pier Luigi Cervellati, L’arte di curare la città, Il Mu- lino, Bologna 2000.
Raffaello Ciucci, La comunità inattesa, SEU, Pisa 2006.
Paolo Cottino, La città imprevista, Eleuthera, Mi- lano 2003.
Silvano D’Alto, La città dei barrios, Bulzoni, Roma 1998.
Michel de Certeau, L’invention du quotidien, trad. it L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2001.
Giovanni Michelucci, Ordine e disordine, «La Nuo- va città», Quaderni della Fondazione Michelucci, 5, dicembre 1984.
Emma Viviani, Città emarginazione autoprogetta- zione, tesi di laurea specialistica in Sociologia, Università di Pisa, 2006.
Emma Viviani, Una tribù all’ombra delle foglie di coca, ETS, Pisa 2010.
il gioco, il riposo e la vita nella natura; ma anche per discussioni e iniziative culturali, per feste comuni, per seminari, per la cura quotidiana dell’area verde. Da tale disposi- zione all’impegno comune nascerà anche la sicurezza del parco: come frutto di una inten- sa rete di relazioni – la quale già esprime una terapia di recupero – e di una costante e attiva presenza, per sviluppare il senso di apparte- nenza non solo a un luogo, ma a un progetto comune, di società e di cultura.
Possiamo riassumere in tre linee di lavoro quanto esposto:
1. i luoghi della marginalità, produttori di “disordine” all’interno del tessuto urbano, sono anche capaci di apportare modifiche e nuovi significati alla città. Questi luoghi si oppongono alle forme convenzionali della città esistente. Una lettura attenta dei fenomeni del “dissenso” può aiutare a interpretare le diverse culture e i modi dell’abitare e, attraverso processi di cono- scenza del territorio, si può riuscire a dare una giusta interpretazione del fenomeno; 2. il significato degli spazi e delle relazioni in-
formali, non riconosciuti istituzionalmente, ma operanti all’interno del tessuto urbano generano una micro-rivoluzione, in quanto si scontrano spesso con una gestione fun- zionalista dello spazio urbano;
3. una piccola collettività di persone si può impossessare, legalmente o illegalmente,
82 DECRESCITA
cietà dei consumi appare quindi una contrad- dizione in termini.
Per tentare di superare l’ossimoro costituito dallo sviluppo sostenibile, recentemente Ser- ge Latouche ha sviluppato l’idea di decresci- ta, sottolineando la necessità dell’abbandono della chimera della crescita illimitata e di una meccanica produttiva dove «l’uomo stesso tende a diventare lo scarto di un sistema che punta a renderlo inutile e a farne a meno» (Latouche, 2007). Contrapponendosi alla mi- stificazione di un uso banalizzato dell’aggetti- vo sostenibile, invocato ormai trasversalmen- te da politici, amministratori e pianificatori così come dalle grandi multinazionali e dalle agenzie pubblicitarie, Latouche individua in- fatti il nodo del problema proprio nella parola sviluppo, che sostanzialmente rimane un con- cetto tossico, quale che sia l’aggettivo che gli viene applicato. A una decrescita necessaria, inevitabile, subìta che si profila inesorabile in un contesto di profonda crisi economi- ca e ambientale, egli contrappone la scelta condivisa di una a-crescita, che non rifiuta la tecnologia, ma induce a ridefinire le priorità, mettendo al centro i concetti di cura e di re- sponsabilità individuale. Un’utopia concreta che non promuove un ritorno al passato, ma spinge a immaginare un futuro diverso, a su- perare le logiche del PIL e della produzione per «reinventare un’altra idea di bellezza che ci porti a vedere le città, il territorio, i paesag- gi, le comunità umane in modo differente» (http://www.decrescita.it).
Ma come si traduce il concetto di decrescita in termini di pianificazione, di progettazio- ne degli spazi aperti e di gestione e uso dei luoghi? Come si coniugano in ambito urba- no le Otto “R” messe in campo da Latouche: rivalutare, ricontestualizzare/reinquadrare, ri- strutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare?
Decrescita
Molte sono le definizioni che sono state date del concetto di “sviluppo sostenibile” dalla sua nascita, nel 1987 all’interno del famoso rapporto Brundtland, fino a oggi. In buona approssimazione, tuttavia, è possibile trovare un accordo attorno alla definizione di: svilup- po capace di consentire il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali, senza com- promettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future.
Come ha scritto Bauman però «la società dei consumi rimane florida fintanto che riesce a rendere permanente la non soddisfazione (e così, per sua stessa definizione, l’infelicità)» (Bauman 2009). Difficile appare quindi affer- mare che l’attuale modello di sviluppo, dove l’insoddisfazione permanente del consuma- tore è condizione necessaria alla continuità della produzione, possa davvero conciliar- si con l’attenzione alle generazioni future. Nell’economia di mercato, infatti, è indispen- sabile che i beni prodotti e acquistati siano immediatamente riconosciuti come superati, obsoleti, così che i desideri dei consumatori siano percepiti nuovamente come disattesi. Parlare di sostenibilità all’interno di una so-
83 DECRESCITA A scala territoriale, una delle forme che in Ita-
lia più si avvicinano a questi concetti è quella portata avanti dall’Associazione dei Comuni Virtuosi, costituitasi attorno alla volontà di eliminazione del consumo di suolo nel proprio territorio amministrato, attraverso il recupe- ro e la riqualificazione delle aree dismesse o sottoutilizzate, consapevoli che «la sfida di oggi è rappresentata dal passaggio dalla enunciazione di principi alla prassi quotidia- na» (http://www.decrescita.it).
Come sostiene Latouche, se l’utopia della decrescita implica il pensiero globale, la sua realizzazione può essere avviata sol- tanto sul campo. A differenza dello svilup- po sostenibile, che fissa l’attenzione sulle responsabilità collettive nei confronti delle generazioni future, la decrescita ripropone dunque l’assunzione di responsabilità indi- viduale invitando «a muoverci a partire da noi stessi, da dove ci troviamo, dalle nostre relazioni, dal nostro territorio, dai luoghi che abitiamo, mettendo in moto processi virtuosi». I mille movimenti di ri-appro- priazione, autogestione, condivisione degli spazi urbani che si stanno moltiplicando ovunque, sembrano configurarsi dunque come cantieri di decrescita urbana, che in attesa dei cambiamenti di governance a livello globale, hanno intrapreso, più o me- no esplicitamente e in modo autonomo, la
strada della sobrietà, inventando modelli nuovi, etici, sostenibili in senso proprio, di progettazione, gestione e cura degli spazi aperti e della natura in città. In realtà urba- ne ormai sommerse dalle merci, ma sempre più carenti di relazioni e di spazi di vita, alcuni cittadini iniziano dunque ad attivarsi per reinquadrare il concetto di benessere: dalla produzione di beni materiali, verso la produzione di beni sociali.
Alle “8R” di Latouche i cantieri di decresci- ta urbana sembrano dunque aggiungere una nona “R”: quella della responsabilità e dell’impegno personale. Un’evoluzione im- portante perché, come sostiene Luigi Zoja, anche l’etica se non è individualmente perce- pita rimane un conformismo esposto ai mag-
giori rischi. Silvia Mantovani
Riferimenti bibliografici
Zygmunt Bauman, Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, Il Mulino, Bologna 2009. Serge Latouche, Petit traité de la décroissance serei-
ne, Mille et une Nuits, Paris 2007, trad. it. Breve trattato sulla decrescita, Bollati Boringhieri, To- rino 2008.
Luigi Zoja, Giustizia e Bellezza, Bollati e Boringhieri, Torino 2007.
Per un Manifesto della Rete italiana per la Decresci- ta, sito internet http://www.decrescita.it/joomla/ index.php/chi-siamo/manifesto
84 ECO-DESIGN
le… Con il termine ‘atteggiamento ecologico nel progetto’ si intende dunque un’attività di progettazione che assuma come valore il rispetto per la Natura».
L’Eco-design o Progettazione Ambientale di Prodotto è quindi una definizione di carattere generale che sottintende un intervento diret- to da parte del progettista sul prodotto o sul servizio, al fine di ridurre l’impatto ambien- tale lungo tutte le fasi del suo ciclo di vita. Si interviene cioè già nelle fasi di ideazione e progettazione per razionalizzare la scelta e l’uso dei materiali, ottimizzare le tecniche di produzione e il sistema distributivo, mi- nimizzare i consumi, rendere più agevole la fase della raccolta, riuso e riciclo finale del prodotto stesso.
Ad esempio un prodotto realizzato in mate- riale riciclato ma non riciclabile, potrebbe essere considerato un prodotto eco-compa- tibile o meno, solo dopo aver effettuato un attento confronto tra i benefici ambientali, economici e sociali – derivanti dalla riduzione nel consumo di risorse ambientali esauribili, dalla minore quantità di energia incorporata, dalla riduzione nella produzione di rifiuti da avviare in discarica e dalla sua possibile valo- rizzazione energetica – e i relativi costi. Attraverso l’analisi dell’intero ciclo di vita del prodotto (Life Cycle Assessment - LCA), dalla fase di selezione dei materiali fino a quella di dismissione e riciclo, è possibile infatti valutare dove si determinano i maggiori im- patti ambientali e di conseguenza definire le successive modalità di intervento e quindi di miglioramento.
Gli obiettivi da raggiungere possono essere diversi per tipologia di prodotto, per azien- da, per processo o scenario di riferimento: a ognuno di essi corrisponderà una diversa strategia progettuale.
Con la strategia del Design for Disassem-
Eco-design
Il dibattito sul design e la questione ambien- tale comincia a svilupparsi in Italia a partire dagli anni Ottanta, per poi divenire priorita- rio negli anni Novanta, contemporaneamente all’affermarsi della “consapevolezza dei limi- ti” nel mondo della produzione industriale. Sono questi gli anni in cui si passa da una cul- tura del fare in assenza di limiti a una cultura del fare in modo limitato, secondo cui “i limiti ecologici”, dovuti alla scarsità delle risorse e all’immissione di crescenti quantità di rifiuti nell’ambiente, possono fare la differenza in termini di prodotto e di mercato, incidendo fortemente sulla dimensione economica e so- ciale delle imprese.
In questo contesto si inserisce l’Eco-design o Design for Environment (DfE), una metodo- logia finalizzata all’integrazione degli aspetti ambientali nella progettazione e nello svi- luppo di un prodotto, di un servizio o di una combinazione prodotto/servizio.
Più in dettaglio, come scrive Ezio Manzini, «il sostantivo ‘ecologia’ riferito all’artificiale, rimanda alla possibilità di adottare per l’am- biente artificiale dei criteri di lettura mutuati dallo studio ecologico dell’ambiente natura-
85 ECO-DESIGN bling, ad esempio, si può intervenire al fine di
prevedere e facilitare la separazione di tutti i componenti del prodotto per ottimizzarne il riuso (Design for Reuse) e/o il riciclo (Design for Recycling), laddove il termine “riuso” non va confuso con il termine “riciclo” come spes- so erroneamente accade.
Più in dettaglio, per «riuso si intende la va- lorizzazione di un bene o di un componente divenuto rifiuto attraverso il suo re-impiego nella forma originaria; per riciclo si intende, invece, il processo di valorizzazione di beni giunti a fine vita o di scarti di lavorazione attraverso il ri-trattamento in un nuovo pro- cesso produttivo, per l’ottenimento di altri materiali o beni. Nel processo di riciclo il prodotto-rifiuto o lo scarto di produzione vengono trasformati in materia prima detta secondaria – scaglie, polvere o granulo – per poi essere nuovamente rilavorati» (M. Capel- lini, www.matrec.it).
Con la crescente attenzione verso la que- stione ambientale, l’innovazione di prodotto e l’eco-design diventano una delle strategie aziendali per competere sui mercati interna- zionali, incrementare la produttività e sod- disfare al meglio una domanda sempre più attenta alla sostenibilità dei prodotti. Negli ultimi dieci anni si passa così dal De- sign for Environment (DfE) al Design for Su- stainability (DfS), vale a dire «un approccio progettuale finalizzato allo sviluppo di inno- vazioni di prodotto e/o di servizio in grado di conciliare la sostenibilità ambientale con quella economica e sociale […] fino a giun- gere ad una visione più ampia, dinamica e di lungo periodo orientata alla innovazione di sistema» (M. Capellini, www.matrec.it). L’obiettivo è quello di rendere sostenibile il prodotto non solo attraverso l’innovazione nei prodotti e nei servizi, ma anche nei metodi
di lavoro, nei comportamenti e nei sistemi di gestione imprenditoriale al fine di accrescere il benessere sociale, attraverso la riduzione dei rischi sul lavoro e andando a migliorare la motivazione dei dipendenti, ad accrescere il valore del brand e contemporaneamente a soddisfare la domanda di consumatori sem- pre più attenti e responsabili, garantendo qualità, affidabilità e sicurezza del prodotto, senza mai perdere di vista il profitto. Non è pensabile realizzare un prodotto eco- efficiente, a ridotto impatto ambientale, im- piegando lavoro minorile e non rispettando le norme di sicurezza sul luogo di lavoro e/o i diritti umani dei lavoratori. Così come non sarebbe sostenibile la realizzazione di un pro- dotto eco-compatibile che non sia in grado di remunerare in modo congruo il capitale investito.
A ciò va aggiunto che ogni prodotto deve poter raccontare la propria storia in maniera trasparente al fine di rendere il consumatore finale consapevole e libero di valutarne non solo funzionalità, forma, colore ma anche la sua “identità sostenibile”.