tanti si rendano conto che le risorse sono limitate e che troppo spesso vengono spre- cate, anche e soprattutto nelle aree urbane dove la concentrazione antropica è maggio- re: nei negozi, nei centri commerciali, nei ristoranti, nelle farmacie, soprattutto nelle nostre case, ma ovunque in verità. Del re- sto, la merce prodotta e accumulata se non reinterpretando, trasformando e riprogettan-
do la realtà locale con un’ispirazione positiva alla realtà globale; questi progetti potrebbero non solo stimolare una maggiore accetta- zione sociale degli interventi, ma anche fare tesoro dell’identità culturale esistente, che spesso finisce per perdersi nelle città e nei quartieri di nuova costruzione. Le interpre- tazioni contemporanee del vecchio concetto di genius loci proposte da Christophe Girot9 trovano un loro spazio nel dibattito sul Lan- dscape Urbanism insieme a metodi di map- patura analitico-processuali e ad approcci più orientati formalmente come le reti territoriali di Mashing di AA o il Metrobosco di Stefano Boeri per la cintura milanese.
La stessa architettura del paesaggio deve perciò rinunciare da un lato al campo da golf e all’ideale del “paesaggistico” e, dall’altro, alla sua posizione radicale in materia di tutela e conservazione. Si tratta di inventare e svi- luppare nuovi paesaggi culturali, che devono non solo preservare ma anche incorporare il cambiamento. Il Landscape Urbanism potrà costituire una strategia fondamentale per comprendere, mappare e leggere le condi- zioni esistenti, orientare gli obiettivi per il territorio e proporre nuovi metodi di proget- tazione, edificazione e manutenzione. «Se ‘ogni cosa esiste all’interno del paesaggio’, allora gli architetti del paesaggio devono impa- rare a progettare ogni cosa». Stefan Tischer Note
1 The Landscape Urbanism Reader, edited by Charles Waldheim, Princeton Architectural Press, New York 2006, p. 11.
2 Mohsen Mostafavi, in Landscape Urbanism. A Manual for the Machinic Landscape, Architectu- ral Association, London 2003.
3 La conferenza originale sul “Landscape Urba- nism” è stata tenuta alla Graham Foundation di Chicago nel 1997.
145 LAST MINUTE MARKET man, nella società consumistica è neces- sario scartare e sostituire: il consumismo, oltre a essere un’economia dell’eccesso e dello spreco, è anche un’economia dell’il- lusione. L’illusione, come l’eccesso e lo spreco, non segnala un malfunzionamento dell’economia dei consumi. È, al contrario, sintomo della sua buona salute, del suo es- sere sulla giusta rotta. Ed è segno distintivo dell’unico regime che può assicurare a una società dei consumatori la sopravvivenza. Oggi – è paradossale, ma è così – dobbiamo “sopravvivere al troppo” o, in alcuni casi, al troppo poco.
È il caso del cibo, ad esempio.
Nei nostri sistemi economici, quotidianamen- te, si concretizzano due “scontri”. Da una par- te, quello tra produzione e spreco: si produce sempre più pur sapendo che poi una parte verrà distrutta senza essere utilizzata. Dall’al- tra, quello fra affamati e ipernutriti. Insomma qualcuno mangia poco o non mangia affatto, qualcun altro mangia troppo.
Oltre gli “scontri”, possiamo annoverare anche due paradossi. Il primo fa riferimen- to a una stima FAO che evidenzia come la produzione agricola mondiale potrebbe nu- trire 12 miliardi di persone, cioè il doppio di quelli attualmente presenti sul pianeta. Però al mondo abbiamo oltre un miliardo di malnutriti.
Il secondo paradosso riguarda invece la spazzatura, dove finisce tutto il cibo spre- cato. In Gran Bretagna ogni anno oltre un terzo dell’intera produzione alimentare vie- ne sprecato. Vale circa 30 miliardi di euro, cifra che equivale a cinque volte quanto lo stesso paese destina agli aiuti internazio- nali e che, secondo le stime delle Nazioni Unite, potrebbe contrastare la fame di 150 milioni di africani. Negli Stati Uniti, il 25% viene consumata deve essere in qualche
modo eliminata, distrutta, al limite regalata, per fare posto agli altri prodotti che vengo- no continuamente “sfornati” dal mercato stesso. Dove metteremmo altrimenti quel- li nuovi? Lo spreco è un valore aggiunto del mercato, ne fa parte: si accumula. Usa e getta, obsolescenza programmata sono ormai le parole d’ordine del nostro sistema produttivo. Che genera rifiuti, inquinamen- to, malessere.
Cosa significa sprecare? «Consumare inu- tilmente, senza frutto; usare in modo che determinate qualità o quantità di una cosa vadano perdute o non vengano utilizzate». Chiaro, ma non completo. Bisogna entrare nei particolari per capire meglio questo “consumare senza discernimento”. Spreca- re, dunque sempre legato al verbo consu- mare, significa in particolare: «non utilizza- re proficuamente o nel modo giusto». Non a caso nella società contemporanea lo spreco costituisce sempre più spesso il frutto non tanto e non solo dell’eccessivo consumo, quanto del mancato utilizzo di un determi- nato bene. Che invece potrebbe ancora es- sere usato, almeno da qualcuno: per vivere. Appunto: il ciclo di vita dei beni, e talvolta anche delle persone, è proprio breve. Sem- pre di più. Le “isole ecologiche” come si chiamano oggi, invece che discariche, so- no piene di prodotti di ogni genere ancora integri, commestibili o funzionanti, scartati a causa di qualche difetto del tutto irrile- vante, oppure sacrificati per fare spazio al “nuovo che avanza” nell’effimera civiltà dell’“usa e getta”. È come a Leonia, una delle città invisibili di Italo Calvino dove «l’opulenza … si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove».
146LAST MINUTE MARKET
L
se forme di inquinamento a cui l’ambientestesso è esposto: lo spreco dei rifiuti buttati nelle discariche o inceneriti che contamina- no fiumi, falde acquifere, terreni agricoli. Per gli alimenti, lo spreco si traduce nello smaltimento di eccedenze e prodotti inven- duti ma ancora consumabili.
Il fautore del “principio di sovrabbondan- za”, Peter Sloterdijk, scriveva che: «mentre per la tradizione lo spreco rappresentava il peccato per eccellenza contro lo spirito di sussistenza, perché metteva in gioco la riserva sempre insufficiente di mezzi di so- pravvivenza, nell’era delle energie fossili si è realizzato intorno allo spreco un profon- do cambiamento di senso: oggi si può dire che lo spreco è diventato il primo dovere civico. L’interdizione della frugalità ha so- stituito l’interdizione dello spreco – questo significano i continui appelli a sostenere la domanda interna». In realtà l’obsolescenza programmata dei prodotti è uno dei princi- pi dello spreco che perdura anche nel ven- tunesimo secolo.
Ma se adottiamo comportamenti che tendo- no a ridurre lo spreco ci indirizziamo verso una razionalizzazione del nostro stile di vi- ta, seguendo un’ottica pro-ambiente. Meno spreco vuol dire meno rifiuti, meno danni all’ambiente, meno inquinamento, insom- ma “più eco”. Ridurre lo spreco deve quindi divenire un imperativo ecologico, un diktat da seguire, che non porterà alla sua elimi- nazione ma sicuramente a una sua contra- zione, perché paradossalmente lo spreco, o una sua parte, può fare del bene.
Lo spreco, ciò che si getta via, almeno in parte può essere utile, almeno per qualcu- no. Prolungare la vita dei beni, nel nostro caso dei prodotti alimentari, vuol dire pro- lungare anche quella di chi li utilizza: cesti- di alimenti perfettamente consumabili vie-
ne incenerito. Su una spesa campione di 42 dollari, 14 ne vengono spesi per l’acquisto di prodotti non necessari. In Italia nel 2009 è rimasto in campo il 3,25% della produzio- ne agricola. In valore percentuale potrem- mo valutarlo un dato del tutto fisiologico e tollerabile, ma se andiamo a considerare il valore assoluto, 17.700.586 tonnellate, la prospettiva cambia radicalmente. Solo per l’ortofrutta infatti è rimasta in campo una quantità di prodotto quasi pari a quella che gli italiani hanno consumato sempre nel 2009. Solo dalla distribuzione organizzata finiscono ogni anno in discarica o nell’in- ceneritore 244 mila tonnellate di alimenti. Secondo l’Associazione per la Difesa e l’O- rientamento dei Consumatori (ADOC), ogni nucleo familiare in Italia getta via il 19% del pane, il 17% della frutta e della verdura, ogni anno 515 euro di prodotti alimentari su una spesa mensile di 450 euro, circa il 10%. Insomma nel nostro mondo scarsità e ab- bondanza, fame e sazietà, produzione e consumo si scontrano ma convivono spesso senza incontrarsi: sono i rovesci della stessa medaglia. Ma qualcosa, in fondo, lega tutto. Questo qualcosa è lo spreco.
Parlare di spreco vuol dire affrontare una questione dal significato inequivocabil- mente negativo. Potremmo aggiungere che spreco indica anche dispendio di energia, perdita di tempo, di denaro … Del resto si può “applicare” in tutti i campi: culturale, economico, politico, ambientale, alimenta- re, energetico … Si può sprecare qualsiasi bene, materiale o immateriale che sia. Concentrando il nostro interesse sullo spre- co ambientale e su quello alimentare, si può dire che, ambientalmente parlando, lo spreco si traduce nel degrado e nelle diver-
147 LAST MINUTE MARKET denaro in cibo e acquistare altri beni e ser- vizi. Ecco il cuore del Last Minute Market: fare sì che tutti ci guadagnino qualcosa. Un “modello” che diventa poi il modo per col- legare due mondi apparentemente distanti e per riequilibrare un mercato, quello ali- mentare, palesemente squilibrato: un mer- cato dove c’è chi ha troppo, e quindi spreca, e c’è chi ha poco e soffre la fame. Questo modello è duttile, si può declinare in tanti modi, non soltanto in relazione al cibo, che peraltro rimane il problema principale per- ché l’alimentazione è un bisogno primario, ma anche con i libri, i farmaci e tutti i pro- dotti non alimentari.
Ma per fare tutto ciò bisogna coniugare a livello territoriale (città, quartiere, paese) le esigenze delle imprese for profit, produt- trici di eccedenze, e quelle degli enti non- profit, consumatori delle stesse. Bisogna promuovere un’azione di sviluppo auto- sostenibile a livello locale per sfruttare la prossimità riducendo lo spazio e il tempo. Bisogna fare in modo che siano evidenti i benefici diretti e indiretti di quest’azione e le ricadute positive a livello economico, sociale, ambientale, sanitario e nutriziona- le. Deve attivarsi sul territorio urbano una rete di solidarietà locale, dinamica e stabile, tra mondo profit e non-profit, formata da solide interazioni e scambi di beni e valori attraverso il dono. Così nello scambio sen- za contropartita monetaria non entrano in gioco soltanto valutazioni di utilità e conve- nienza economica, ma si viene a generare una fitta rete di relazioni che va oltre il sem- plice passaggio del bene alimentare capace di creare reciprocità. Ciò non solo permette di sopperire alle necessità materiali dei più indigenti, ma assume anche un’interessan- te valenza educativa nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica alle problematiche nare i prodotti prima del loro uso o della lo-
ro fine “naturale” è un po’ come farli morire e con loro eliminare le persone che invece potrebbero consumarli. Lo spreco infatti lo possiamo considerare come una potenziale offerta di prodotti. Alla stessa stregua è possibile immaginare che vi possa essere una domanda inespressa proprio per quegli stessi prodotti. Pensiamo solo agli indigen- ti, soggetti senza potere di acquisto. Ecco quindi lo spreco utile: ciò che per tanti è abbondanza, e quindi spreco, per qualcun altro è scarsità e quindi opportunità. Lo spreco può dunque trasformarsi in risor- sa, almeno per qualcuno. Questo, in fondo, è l’obiettivo di Last Minute Market. Il collan- te tra scarsità e abbondanza, tra affamati e ipernutriti, tra produzione (abbondante) e consumo (scarso). Un progetto che ha pro- prio l’obiettivo di fornire servizi capaci di permettere il recupero del potenziale spre- co alimentare con la finalità di metterlo a disposizione di soggetti indigenti.
Perché Last Minute Market? Last significa ultimo, ma con un doppio senso: l’ultimo minuto perché è necessario fare in fretta, in quanto i prodotti stanno per essere spre- cati, ma anche ultimo perché i beneficiari sono gli “ultimi” della società. Così si inne- sca un meccanismo virtuoso, conveniente per tutti, e che per questo funziona: da una parte l’impresa for profit trae vantaggio a cedere il prodotto perché evita il costo di trasporto e smaltimento, e può farsi della pubblicità positiva partecipando ad un pro- getto caritatevole, dall’altra il mondo non- profit riceve gratuitamente un prodotto che dà un doppio vantaggio: economico, dato che si risparmia denaro, e nutrizionale: si mangia di più e meglio. Tutto si basa sul dono fra chi ha troppo e chi ha troppo poco. E soprattutto, chi ha meno può risparmiare
148LIMITI E CONFINI
L
re che ha superato l’economia di mercato,è andata oltre l’economia solidale e ha raggiunto l’economia di reciprocità. Dun- que, un insieme di attività guidate preva- lentemente da motivazioni non strumentali, fondate su relazioni fiduciarie e organizzate secondo la logica dell’azione privata finaliz- zata al bene comune, avviando delle relazio- ni interpersonali definite come incontro di
gratuità. Andrea Segrè