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Nature archeologiche I luoghi archeologici costituiscono, partico-

larmente in ambito urbano, un importante serbatoio di biodiversità: la bassa pressione antropica e la presenza di condizioni am- bientali peculiari favoriscono spesso l’inse- diamento di specie rare che trovano in questi spazi ad alta “diversità temporale” un habitat favorevole per il loro sviluppo.

La combinazione, anche allegorica, tra rude- ri e vegetazione ha origini remote, come ci ricorda il viaggio di Polifilo e l’accurata de- scrizione con cui il Colonna, con gli strumenti dell’umanista quattrocentesco, restituisce al lettore il repertorio della flora (ma anche la fauna) che abita le rovine: «Sopra e tra queste impervie rovine era germogliata una vegeta- zione selvatica: soprattutto la salda angiride, con le teche a forma di fagiolo, entrambi i lentischi, la branca ursina, il cinocefalo, la spatula fetida, lo smilace spinoso, la centau- rea e, annidate tra i ruderi, molte altre. Nelle fessure dei muri abbondavano la semprevi- va, la cimbalaria pendula, roveti spinosi. Vi serpeggiavano grosse lucertole, che spesso guizzavano sui muri arborescenti: in quei luo- ghi silenti e solitari e al minimo movimento provocavano in me, teso com’ero il più gran- de spavento» (Colonna, 1998, p. 550).

169 NATURE ARCHEOLOGICHE menti architettonici presenti sul sito. Maria Adele Signorini dell’Università di Firenze ha proposto di compilare per la vegetazione in- festante nelle aree archeologiche un indice di pericolosità, che prenda in considerazione la forma biologica, le caratteristiche di invasivi- tà e vigore e le diverse tipologie di apparato radicale per fornire un parametro di controllo ai fini della conservazione (Signorini 2002, in Marino 2009, p. 103).

Ma non dobbiamo dimenticare le numero- se potenzialità che una lettura accorta della struttura vegetale può sviluppare nell’indagi- ne su di un paesaggio archeologico: in alcuni casi, la vegetazione di superficie diviene un importante bio-indicatore per la lettura aerea delle stratigrafie sommerse; in altri la pre- senza di piante calciofile (come Ficus carica, Ulmus minor o Rubus ulmifolis) può rivelare ai ricercatori ubicazione e distribuzione delle strutture interrate.

È evidente inoltre che la ricostruzione di una struttura vegetale appropriata e compatibile nelle aree archeologiche, da poter integrare all’interno dei corridoi già individuati, con- sente di effettuare importanti connessioni ecologiche, di particolare rilevanza all’interno degli ambiti urbani: questo tipo di operazione è stata praticata con successo, ad esempio, nel corso dell’ultimo decennio, nelle aree ar- cheologiche romane.

La creazione di una trama vegetale appropria- ta può anche contribuire a favorire la conser- vazione delle strutture attraverso la riduzione delle radiazioni solari, del vento, delle precipi- tazioni atmosferiche e degli agenti inquinanti che costituiscono altrettanti, importanti, fattori di degrado (Caneva, 1997, p. 133).

In molti casi l’asportazione incontrollata della vegetazione, anche apparentemente “infestan- te”, accelera i processi di deterioramento delle architetture, innescando processi difficili da Mostra fiorentina del ’31, viene reinventato

un “giardino all’italiana”, che non è mai re- almente esistito, e le logiche autarchiche del regime prediligono i riferimenti alla romani- tà e a un malinteso paesaggio “autoctono”, nella ricerca di un deviato e strumentale uso pubblico della storia, pini domestici, lecci e cipressi sembrano le uniche specie deputate a costituire la struttura vegetale dei siti arche- ologici, come dimostra il nutrito repertorio di realizzazioni effettuate in questo periodo. Nel Promemoria per i lavori di sistemazione paesaggistica dei percorsi intorno all’Acro- poli ateniese, scritte nel 1955, Dimitris Pikio- nis descrive al Ministro dei Lavori Pubblici le proprietà che la vegetazione del sito avrebbe dovuto possedere, in particolare la compati- bilità storica, ecologica, semantica, culturale, figurativa con il paesaggio storico ed esplicita la necessità di effettuare un accurato studio preliminare sulla composizione floristica, ol- tre che sull’aspetto, sul colore e sulle qualità simboliche degli alberi da inserire. I criteri di scelta proposti da Pikionis riguardano la composizione plastica ed estetica, ma anche le dinamiche ecologiche e la salvaguardia dei monumenti.

Nel progetto paesaggistico contemporaneo di un sito archeologico diviene fondamentale effettuare una indagine preventiva sulle com- patibilità di specie e associazioni che dovran- no andare a integrarsi con un contesto parti- colarmente fragile e pregiato, rispettandone le criticità stratigrafiche, ambientali e cultu- rali e, ovviamente, risultando appropriate per le specifiche condizioni climatiche, edafiche e storiche (Caneva, 1997).

Un’attenzione particolare deve evidentemen- te essere prestata alle interazioni tra struttu- re archeologiche e vegetazione, ai possibili conflitti e alla pericolosità che alcune specie possono costituire nei confronti degli ele-

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Nel caso di ulteriori indagini archeologiche,

infatti, potrà rendersi necessaria l’asportazio- ne della copertura vegetale senza danneggiare le eventuali stratigrafie sottostanti.

In alcune situazioni la componente vegetale può essere utilizzata come struttura volume- trica per integrare l’immagine del documento archeologico: nel progetto paesaggistico di un sito questo concetto si traduce spesso nel tentativo di riconfigurare uno spazio attraver- so l’utilizzo degli elementi del sistema vege- tale che conferiscano una nuova struttura e una trama legata al disegno storico perduto a luoghi privati dei riferimenti originari. Questo tipo di attitudine progettuale, prati- cata già nella prima metà del Novecento nei siti romani da autori come Giacomo Boni o Raffaele De Vico (in particolare, nel proget- to per il parco del Colle Oppio, 1926), può apparire oggi ingenuo e superato, ma va sottolineato come l’ipotesi di integrazione dei resti archeologici con l’uso di specie diverse secondo le necessità strutturali e didattiche sia stato riconsiderato di recente come mezzo di minima invasività e massima reversibilità (Marino, 2003, pp. 228-229).

Nelle prospettive di ricerca l’utilizzo di alcune specie particolari, già appartenenti alla flora classica, potrebbe essere studiato per consen- tire la costruzione di un codice vegetale finaliz- zato alla trasmissione di informazioni sulle por- zioni da integrare, ad esempio per suggerire superfici in muratura caratterizzate da tipologie diverse di opus, oppure per indicare datazioni o stratigrafie degli elevati. Tessa Matteini Riferimenti bibliografici

Giulia Caneva, A botanical approach to the planning of archaeological parks in Italy, in Conservation and management of archaeological sites, edited by Nicholas Stanley Price, James and James, London 1997, 3, pp. 127-134.

controllare. Scriveva Giacomo Boni, già alla fine del XIX secolo: «L’estirpamento dell’er- ba, fatto come si continua a farlo oggigiorno, priva gli antichi ruderi dell’aspetto pittoresco, unico compenso dato alla natura dai guasti avvenuti, li riduce a nudi ed aridi scheletri, e li espone a tutte le vicissitudini che sono comuni ai luoghi privi di copertura: l’acqua vi filtra o vi ristagna, il gelo li gonfia o li disgrega, si distac- cano pezzo a pezzo i reticoli o i mattoni della cortina, e in capo ad alcuni anni gli antichi mu- ri si riducono a informi disgustosi moncherini. Più volte ho avuto l’occasione di richiamare l’attenzione di codesto onorevole Ministero sulla efficace protezione che veniva offerta agli antichi ruderi da uno strato di terra vegetale coperta di zolle erbose, le quali impediscono la filtrazione d’acqua, il gelo e l’allignamento di piante nocive» (riportato in De Vico Falla- ni, 1988, p. 45). Al di là delle considerazioni ruskiniane sulla sublimità del rudere e sull’a- spetto pittoresco conferito dalla vegetazione, le indicazioni di metodo sono ancora valide: sappiamo infatti che in molti casi l’eliminazio- ne acritica delle piante infestanti può favorire l’accelerazione del degrado, mentre una co- esistenza controllata consente la protezione delle creste dei muri e di altre parti di difficile conservazione.

È diffuso all’interno dei siti archeologici l’uso mirato di vegetazione erbacea e arbustiva per integrare la comprensione degli ambienti e delle stratigrafie. Ovviamente agli intenti di- dattici di rievocazione storica debbono essere accostate considerazioni di ordine conserva- tivo: gli apparati radicali che caratterizzano le specie utilizzate dovranno essere particolar- mente ridotti e compatibili con la fragilità delle sottostanti strutture archeologiche, permet- tendo di considerare come reversibili tutti gli interventi di piantagione effettuati, meglio se inseriti in vasche che ne limitino lo sviluppo.

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