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2.1 Il contenuto della Dedizione

Una certa tendenza storiografica non ha avuto esitazioni nell'affermare che Venezia ebbe cura di lasciare invariata alle città soggette la loro vita amministrativa senza tentare nessuna forma

risponde l'insurrezione di un popolo da tutti i quartieri della città al suono delle campane a martello". BERENGO MARINO, La società veneta alla fine del Settecento, Firenze, Sansoni, 1956, pp. 320-321.

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SIMEONI LUIGI, Verona, o.c., p. 197.

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Già Carlo Cipolla e Luigi Simeoni avevano recisamente contestato le accuse di atrocità mosse da più parti ai Veronesi, il primo affermando: "Che qualche azione inumana sia stata commessa, si può ammettere; ma che il fatto in sè stesso considerato si risolvesse in una orribile strage, come dichiarò perfino il governo di Venezia in un documento diplomatico, lo si può negare con fermezza. Un cronista francofilo lo dice: 'Gli ospitali non furono punto tocchi, checché ne dicano i Francesi'. Pare che i Francesi morti nel giorno in cui la rivoluzione scoppiò (17 aprile, lunedì di Pasqua), siano stati tutto al più 200, ma assai probabilmente furono in minor numero". E Luigi Simeoni riferendosi a Napoleone ribadisce: "L'episodio veronese gli...risparmiò la pena di creare un motivo per rompere con Venezia... Da questa necessità venne l'accusa di rivolta preparata, di massacro di feriti, e l'esagerazione del numero degli uccisi nelle strade portato a 400, mentre forse fu di 60, e non di uomini disarmati, ma di pattuglie assalite quando il bombardamento iniziato dai castelli avea creato uno stato di guerra. Gli ospedali furono protetti e se qualche disordine ci fu, in una così improvvisa e naturale esplosione di odio, va attribuita ai villici e agli Schiavoni ("i dalmatini, soldati nativi di Dalmazia, affezionatissimi al dominio veneto", di cui parta anche il Cipolla). Questa deformazione dell'avvenimento appare già nel nome datogli dal Bonaparte di Pasque Veronesi, per accostarlo al massacro dei Vespri Siciliani; e la leggenda così creata a scopo politico, ebbe, ed ha ancora una generale diffusione, alla quale contribuì il Botta con le sue descrizioni di orrori, fatte per esercizio retorico". CIPOLLA C.,

Compendio della Storia politica di Verona, o.c., pp. 352-353; SIMEONI L., Verona, o.c., pp. 202-203.

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di assimilazione. Una irrefutabile conferma verrebbe dalla varietà degli ordinamenti municipali diversi da città a città, e ciascuno fondato su quella sorta di “magna carta” che è l'atto di dedizione. Quello di Verona - essendo la carta fondamentale dei rapporti tra città suddita e città dominante - occupa, col nome di “bolla d'oro”, il posto d'onore nel libro veronese delle ducali e nelle diverse edizioni a stampa che si fecero degli Statuti del 1450.

La città di Verona si era mossa tempestivamente per salvaguardare la sua autonomia e i suoi

interessi economici, inviando propri rappresentanti126 presso Gabriele Emo, il provveditore

dell'esercito veneziano accampato a Montorio, ed ottenendo delle garanzie127, che di lì a qualche

giorno sarebbero state ribadite in Venezia ai membri di una delegazione scaligera prontamente

inviata anche sulla Laguna128.

La bolla d'oro concedeva i seguenti privilegi.

Gli abitanti erano al sicuro da ogni violenza all'atto dell'occupazione e da pene per gli uffici sostenuti (I, II); alla città sarebbero state riunite tutte le terre staccate durante la guerra (III); non sarebbe stato imposto nessun nuovo tributo (IV); diritti e giurisdizioni dei cittadini nel Territorio si conservavano come al tempo dei Visconti (V); rimanevano in vigore gli statuti della città e della casa dei mercanti (VII); tutti gli uffici della città venivano riservati ai cittadini veronesi, salvo la podestaria e quelli con giurisdizione criminale o funzioni militari, sui quali aveva esclusiva

competenza la Signoria129. Quanto ai posti ecclesiastici, la città li avrebbe pure voluti esclusivo

appannaggio dei propri cittadini, ma il doge rifiutò di impegnarsi su tale materia, riservata al Papa,

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Presso Gabriele Emo vengono inviati Pietro Da Sacco, capitano della città, eletto dal popolo, levatosi in armi contro Giacomo Da Carrara; il giurista Jacopo Fabbri e il sindaco della città. - Alla ricerca di rapporti tra veronesi e Venezia, Reinhold C. Mueller in riferimento a Pietro di Sacco ci fa sapere: "In età viscontea,

Pietro di Sacco, fedele degli Scaligeri, detto 'discretus et circumspectus vir, campsor' nell'atto, ricevette

risposta favorevole (munita di bolla argentea) alla sua supplica del 1391 per lo status de intus, che avrebbe goduto 'stando et habitando Venetiis, cum familia sua'. Questo suo rapporto formale con Venezia certamente avrà contribuito alla decisione dei veronesi di nominarlo Capitano del Popolo nel 1405, col compito di trattare la resa con i veneziani". MUELLER R. C., Veronesi e capitali veronesi a Venezia in epoca

scaligera, in "Gli scaligeri. 1277-1387", a cura di G.M. Varanini, o.c., p. 372.

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Le garanzie alla città vengono date prima dell'ingresso ufficiale delle truppe veneziane da Giacomo Suriano e Rosso Marino, che furono i primi due rettori di Verona; nonchè da Barbo Morosini e Gabriele Emo, "provisores" dell'esercito veneziano.

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La cerimonia veneziana a distanza di due secoli, nel 1619, viene rievocata in questi termini: "Dopo la capitulatione, immediatamente furono eletti dal consiglio nostro venti ambasciatori, i quali pochi giorni dopo si condussero in Venetia, et per dimostrare la purità dell'animo, col quale si era volontariamente data alla Serenissima Republica, et la sincerità, et candidezza della fede, ch'era perpetuamente per osservare, tutti comparvero in habito bianco di seta...; furono ricevuti dal Serenissimo Principe...non in alcuna sala del palagio, ma perchè cadauno potesse godere di così lieta et felice vista, sopra un tribunale a questo effetto fabricato, et pomposamente ornato, nella publica piazza, dirimpetto alla chiesa di S. Marco. Dove da uno di essi Ambasciatori...furono presentate in un bacino d'argento le chiavi della città, et lo stendardo della patria nostra che ancora pendeva...nel tetto della suddetta chiesa, supplicando la confirmatione della Capitulatione". A,S,VR,, Archivio Comune, proc. 109.

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Nel suo studio sulle castellanìe di Verona nel Quattrocento John Easton Law osserva: "E' difficile accertare il numero delle castellanìe e la parte di esse spettante a patrizi veneziani. Una descrizione del 5 dicembre 1428 elenca venti fortezze del contado sotto la responsabilità del comune di Verona. Nel 1455, in una fase di 'tagli' militari, si elencano solo dieci castellanie per il Veronese, di cui tre situate all'esterno dei suoi confini storici. Nella relazione redatta il 7 giugno 1478 per il capitano Giacomo Marcello, Giorgio

Sommariva registra trentacinque 'roche e fortezze' a Verona e nel Veronese. E' probabile che non sia rimasto

costante nè il numero di quei posti, né l'equilibrio della loro distribuzione fra i patrizi e cittadini veneziani e i cittadini dei luoghi soggetti. Il numero e l'importanza dei comandanti di presidio variavano secondo la situazione militare, lo stato dell'economia e il numero dei patrizi in cerca di impiego". LAW JOHN E., Lo

stato veneziano e le castellanìe di Verona, in "Dentro lo 'Stado Italico'. Venezia e la Terraferma fra Quattro

pur promettendo di raccomandare la cosa alla Santa Sede (VIII). In realtà i posti più ricchi vennero

poi destinati ai cadetti delle famiglie veneziane130. Una piccola rivincita da parte veronese si ebbe

nel 1630. Il vescovo Alberto Valier di fronte al dilagare del contagio si era rifugiato, troppo tardi, in Venezia dove morì di peste. «Il governo della diocesi - ci informa Marchi, riprendendo il racconto di Francesco Pona - passò al vicario capitolare monsignor Cozza, che distribuì i centoventi benefici vacanti ad ecclesiastici veronesi, “sempre agli esteri preferiti con immortal commendatione”: e lo

storico (cioè Francesco Pona) si rende ben conto dell'eccezionalità dell'evento»131. Veniva inoltre

proibita l'esportazione delle vettovaglie perchè la città non soffrisse il rincaro della vita (IX), mentre, al contrario, si garantiva la più ampia libertà di esportare le mercanzie e particolarmente i prodotti del lanificio nei quali consisteva la vera ricchezza della città. I mercanti veronesi esercenti in Venezia avrebbero goduto delle stesse libertà dei veneziani, senza essere mai costretti a ricevere merci invece di denaro (X, XI).

Insieme alla “bolla d'oro” del 16 luglio 1405132, il doge approvava un'altra bolla, composta

di cinque capitoli. Essa disponeva, che fossero restituiti ai Veronesi le merci, i beni, e i crediti, sequestrati in Venezia, Mantova, Ferrara e Vicenza (IV), e che il dazio di baratteria - ossia il

monopolio del gioco d'azzardo - rimanesse di spettanza comunale133. La terza parte delle condanne

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L'occupazione dei posti ecclesiastici più lucrosi da parte di cittadini veneziani si manifestò subito provocando iterate proteste dei veronesi. "Dal 1434 dieci fra i ventiquattro ecclesiastici della parrocchia di S. Floriano nella Valpolicella furono veneziani. Nel 1459 il comune di Verona si lagnò con Pio II che il vescovo Ermolao Barbaro rimunerasse stranieri e i suoi familiari con rendite assegnate alla Mensa Accolitorum, e chiese, senza successo, di riservare per cittadini veronesi quei benefici con un valore sotto 60 ducati" LAW JOHN E., Verona e il dominio veneziano: gli inizi, in "Il primo dominio veneziano a Verona (1405-1509), o.c., p. 24.

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PONA F., Il gran contagio di Verona, Edizione fotostatica a cura di Gian Paolo Marchi, o.c., p. XLII.- Su Franceco Pona (1595-1655) si veda BONUZZI LUCIANO, Cultura e medicina dal Quattrocento all'età

del positivismo, in "Cultura e vita civile a Verona. Uomini e istituzioni dall'epoca carolingia al

Risorgimento", a cura di Gian Paolo Marchi, Verona, B.P.VR., 1979, pp. 437-441.

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Sui documenti approvati dal Senato veneziano in data 16 luglio 1405, Sergio Zamperetti commenta: "Il 16 luglio 1405 il Senato veneziano si era riunito per esaminare le primissime richieste cittadine. Chiamati in quella occasione a vagliare e ratificare i pacta stipulati tra il Comune e i capi dell'esercito veneziano 'ante

adeptionem civitatis Verone', gli attenti senatori veneti avevano bensì stabilito di far fede alle promesse; ma

non avevano però mancato di osservare che in quei capitoli scorgevano ora 'aliquas additiones' esulanti dagli accordi effettivamente intercorsi. Ebbene, su cinque capitoli sottoposti a indebiti ritocchi, due - per la precisione il sesto e il nono - presentavano appunto delle interpolazioni estremamente significative... Verona aveva pensato bene di premunirsi, inserendo all'interno dei pacta in prima adeptione, cui le città suddite attribuirono sempre grande importanza, le normative che facevano al caso suo... Non è dato sapere - le fonti conservano al proposito un completo riserbo - quale intensità avesse assunto l'irritazione veneziana di fronte a tanta impudenza; sta di fatto che per il resto le promesse vennero mantenute...mentre cadde ovviamente nel nulla l'audace tentativo di estenderne la pregnanza". ZAMPERETTI S., I piccoli principi. Signorie locali,

feudi e comunità soggette nello Stato regionale veneto dall'espansione territoriale ai primi decenni del '600,

o.c., pp. 128-130.

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Gli statuti di Cangrande della Scala del 1327 prevedevano l'estirpazione del gioco d'azzardo presso il ponte nuovo e il suo trasferimento in piazza delle Erbe presso il capitello, unico luogo dove tale attività era lecita. Questo il breve testo del cap. 105 del libro III (De causis criminalibus): "Item statuimus quod

barataria (banco da gioco) que est in platea Maiori iuxta pontem Novum, ubi consueverunt homines ludere

sine pena, tollatur et destruatur. Et quod in dicto loco nec alibi in civitate et toto districtu Verone possit ludi inpune ad ludum taxillorum (giocare al gioco dei dadi) nisi in capitello et iuxta capitellum mercati Fori Verone". BIANCHI SILVANA ANNA-GRANUZZO ROSALBA (a cura di), Statuti di Verona del 1327, con la collaborazione di Gian Maria Varanini e Giordana Mariani Canova, Presentazione di Giuseppina De Sandre Gasparini, voll. 2, Roma, Jouvence, 1992, pp. 494-495. Gli statuti di Rovereto del 1425 punivano il gioco d'azzardo con eccezione del gioco delle tavole. Recita infatti il cap. 42: "non debeant ludere ad aliquem ludum taxilorum (dadi) nec andruzorum, vachete nec ad aliquem ludum qui ostendat ponctos,

fatte dagli ufficiali del comune veniva riservata alla copertura delle spese necessarie a mandare ambasciatori a Venezia (V). Si respingeva invece la richiesta che fossero ritenute valide le vendite rovinose fatte dal Carrara dei beni della “fattoria” (demanio) per fare denaro. La Signoria veneta annullò le vendite, restituendo però le somme incassate dal Carrara. Solo più tardi quando decise di liquidare tutti questi beni demaniali, garantì ai vecchi compratori il diritto di prelazione purchè ovviamente sborsassero la differenza tra la somma chiesta dal Carrara e la nuova stima dei beni fatta dalla Serenissima.

Nei rapporti concreti con Venezia le enunciazioni del 1405 rimasero un punto di riferimento ideale, cui si aggrapparono quotidianamente gli amministratori della città, e comunque ogni qualvolta dalla capitale giungesse una qualche novità avvertita come una violazione della “magna

carta” della Dedizione.

Gli oneri fiscali, ad esempio, ebbero subito uno sviluppo non in linea con le illusioni della prima ora. Le difficoltà di cassa non rimasero un fatto circoscritto ai primi anni del '400, quando non si aveva neppure il denaro per pagare le poche braccia di panno che si regalavano ai cavallanti che portavano notizia delle vittorie venete; oppure quando - avviene nel 1412 - per pagare le spese di un torneo tenuto in piazza dei Signori per le nozze del Podestà, si dovette pregare il massaro del

Comune di far denaro vendendo 40 once d'argento134.

Anche l'autonomia della vita amministrativa fu più apparente che sostanziale. La dipendenza da Venezia finì col riguardare anche aspetti minimi della vita cittadina. Sia che si trattasse di aggiustare argini, mutare una tariffa o altre inezie, sempre ci voleva una ‘ducale’, per ottenere la quale spesso non bastava scrivere, ma bisognava mandare oratori speciali, in aggiunta a quelli che

risiedevano in modo permanente nella capitale135. Ovviamente ogni preambolo di queste ambascerie

excepto ad ludum tabullarum" (p. 106). Poi però al cap. 124, parlando del mercato che mensilmente si

svolge per tre giorni, si autorizza il gioco dei dadi: "possit ludus taxillorum exerceri in platea, et non alibi et

non ultra" (p. 133). Durissima contro il gioco dei dadi e delle carte una ducale di Francesco Foscari

esecutiva di un provvedimento valido per tutta la Terraferma ispirato dal consiglio dei Dieci e datato 19 sett. 1457 (p. 201). Statuti di Rovereto del 1425 con le aggiunte dal 1434 al 1538", a cura di Federica Parcianello, Introduzione di Marco Bellabarba, Gherardo Ortalli, Diego Quaglioni, Venezia, Il Cardo, 1991, p. 106. In un suo lavoro comparativo tra gli statuti di Trento, Verona e Vicenza, a proposito di gioco d'azzardo Hans von Voltelini osservava: "Come nella maggior parte degli statuti italiani, anche in questi statuti sono vietati, sotto pena pecuniaria, i giochi d'azzardo. Trento e Verona puniscono allo stesso modo chi fa un prestito a un giocatore, mentre Vicenza applica la pena soltanto se il giocatore è un figlio di casa. In tutte e tre le località viene inoltre punito chi tiene il giuoco o permette che in casa sua si giochi. A Trento ed a Verona le pene sono raddoppiate se si gioca di notte. Trento e Vincenza (ma anche Rovereto, aggiungiamo noi!), infine, permettono il giuoco nei giorni di mercato". VON VOLTELINI HANS, Gli

antichi Statuti di Trento (traduzione italiana del testo uscito nel 1902), Trento, Accademia Roveretana degli

Agiati, 1989, p. 103.

134

SIMEONI L., Verona, o.c.,

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L'invio di ambasciatori straordinari rimarrà una costante per tutta l'età veneta. Quando un affare risulti particolarmente scottante, o quando si voglia comunque sensibilizzare Venezia su una specifica questione giudicata irrinunciabile, il consiglio comunale di Verona invia propri uomini scegliendoli tra le figure di maggior prestigio politico e sociale. Già i loro nomi dovrebbero annunciare alla Serenissima quanto stia a cuore a Verona il problema che essi sono incaricati di trattare. Dunque la prassi dell'invio di plenipotenziari non verrà mai abbandonata. La residenza stabile di un 'nunzio' veronese in Venezia sembrerebbe risalire invece all'anno 1549, quando "questa città, per solevarsi dalli gravosissimi dispendj, che per qualunque affare, ancorché non fosse della maggior importanza, le abbisognava incontrare colle frequenti spedizioni di

Oratori alla Dominante, ha preso l'utile partito...di stabilire colà un cittadino col titolo e carattere di nunzio". Sembrerebbe dunque di capire che prima della legge varata dal consiglio scaligero il 30 marzo

1549, tutti gli oratori fossero occasionali. A quella data, dopo l'esperienza di un secolo e mezzo di incessanti andirivieni, Verona deve aver capito che le sarebbe costato di meno mantenere un uomo fisso in Venezia. Ecco quindi l'istituzione di una nuova figura, quella del residente. La 'parte' 1549 rimase però inapplicata per quasi un decennio. Non si trovava infatti nessuno disposto ad accettare il trasferimento a Venezia per un

partiva dal momento - col tempo divenuto mitico - della Dedizione. Il loro compito era insomma quello di rinfrescare la memoria ai governanti veneziani frastornati dall'urgenza del quotidiano, ricordando loro che alle origini del matrimonio tra Verona e Venezia c'erano condizioni contrattuali continuamente violate da una delle due parti contraenti. Questo il tenore delle riflessioni che gli ambasciatori veronesi andavano a sottoporre all'attenzione dei governanti della Serenissima, in una

memoria riassuntiva del 1619. «Per quanto si aspettava al privilegio - riferisce Giovanni Alvise Prato - dissi che se ben l'esperienza ci haveva fatto vedere che i nostri privilegi, acquistati pur col

merito della volontaria deditione di città così grande, e così importante, da certo tempo in qua erano resi così infermi, e deboli, che non avevano più forza per sostenere le nostre immunità et le nostre esentioni, tuttavia vivendo il merito della devotione dei nostri progenitori...trasfusa sui animi nostri...non erimo mai per lasciarli per abbandonati, o negletti; e che incessabilmente in ogni occasione erimo per rappresentarli a Sua Serenità come gloriosi monumenti e trofei eretti dalla grata mano di questa eccelsa Republica alla devotione et alla fede dei nostri progenitori». E dopo il preambolo, Prato, andando al nocciolo del problema per il quale era stato mandato fino a Venezia, proseguiva: «E dissi che questo non era semplice privilegio, ma patto convenuto vicendevolmente, cioè che i nostri maggiori dessero alla Republica la città di Verona, et che essi et suoi posteri servassero perpetua fedeltà; et che, d'altro canto, la Serenissima Republica servasse la nostra città

esente et immune dalle nuove imposizioni»136.

2.2. I riflessi della Dedizione sull'assetto istituzionale della città

I patti della dedizione ebbero un immediato riflesso sugli assetti istituzionali della città. Non va preliminarmente dimenticato che l'organizzazione comunale, contemplata dal «Liber iuris civilis

urbis Veronae», raccolto dal notaio Calvo (1228), di cui si era ottenuta la conservazione, era stata

già molto alterata sotto la Signoria137. Negli Statuti scaligeri di Alberto e Cangrande (1276-1328) e

in quelli di Gian Galeazzo Visconti, erano già distinti e separati i due momenti più delicati della

solo anno e per soli 150 ducati annui. Il 7 novembre 1558 il salario annuo fu elevato a 200 ducati e il periodo della residenza divenne triennale con possibilità di rinnovo. Il primo che - nel 1559 - partì per Venezia, allettato dalla nuova normativa, fu Camillo Ridolfi. I nunzi cinquecenteschi rimangono tutti poco sulla Laguna, un triennio o due al massimo. I loro cognomi sono Cavicchioli, Zucchi, Corfini, Sagramoso, Pellegrini, Da Prato, ecc. Nel '600 e nel '700 i soggiorni sulla Laguna si faranno invece lunghissimi. I primatisti sono Giulio Cesare Portalupi rimasto 30 anni; Agostino Morando e Giulio Lando (con loro siamo nel '700) che soggiornano a Venezia per 27 anni; 24 anni vi rimangono i secenteschi Moncelese, e Zucchi. Nel '700 si proporrà una modifica alla normativa che regola la carica di nunzio, imponendo un periodo di compresenza in Venezia del nunzio uscente e del neoeletto, in modo che questi venga introdotto nelle pieghe degli apparati veneziani. La variante viene così formulata: "Nei casi di elezione di nuovo nunzio sia concesso al nuovo eletto lo spazio di mesi due dopo la sua elezione, cioè sin tutto il mese di febbraio a preparar il suo allestimento e portarsi alla Dominante all'esercizio di quelle incombenze, nelle quali per altri

quattro mesi dovrà esercitarsi come coadiutore sotto la direzione del nunzio antecessore; il quale perciò non

avrà a partir di colà se non finito il mese di giugno successivo, et in tanto dovrà comunicar al nuovo eletto tutti i lumi opportuni alla miglior direzione degli affari di questo comun". A.S.VR., Archivio Comune, b. 327 ("Vicarii Domus Mercatorum et Provvisores Communis, 1337").

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Ciò che Giovanni Alvise Prato tentava di evitare alla città di Verona erano la nuova imposta del 5% sull'eredità e un aumento del dazio sulla concia delle pelli. A.S.VR., Archivio Comune, proc. 109 (17

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