Indipendentemente dagli interessi e dalle iniziative di politica estera della Serenissima, la Repubblica di Venezia, e con essa quindi in prima fila il Territorio veronese, che si apriva alla pianura padana attraverso i litorali gardesani e lungo l'Adige, dovettero subire il peso assai ingente e dannoso di eserciti stranieri e talvolta offrire anche i luoghi per gli scontri armati dei contendenti. I momenti più gravi furono durante le guerre di successione spagnola, polacca e austriaca. Il territorio montano veronese, con epicentro la Corona e il Baldo, vide - ad esempio - gli scontri tra i Francesi condotti dal Vendôme e gli Austriaci del principe Eugenio di Savoia (27 aprile 1706). Il veronese sofferse anche per la guerra di successione polacca durante la quale Mantova fu nuovamente assediata. Nel 1734 gli eserciti accampati nelle campagne veronesi fecero strage di
gelsi con gravissime ripercussioni sull'industria serica cittadina e sulla bilancia commerciale della
provincia113.
Allo scoppio della guerra di successione spagnola, Venezia aveva proclamato la neutralità
armata, mandando immediatamente un provveditore a Verona per rinforzare i presìdi114. In realtà si
limitò a custodire la città e qualche fortezza. Il territorio rimase abbandonato ai contendenti.
Nonostante ciò, a Venezia fu coniata un'"osela" col Leone e il motto «oculis cubat apertis»115.
Venezia mentre ancora per tutto il '500 controlla ed esclude dal Territorio veronese il transito di truppe straniere, nel '600 e '700 perde di protagonismo fino ad assumere un atteggiamento di neutralità che si traduce in una caduta di prestigio e autorità.
Il problema della decadenza politica veneziana, subito sentito dai contemporanei, divenne
prevalente nella storiografia veneta d'ogni tempo116. La «neutralità disarmata... fece a tutti conoscere
111
Marchi riprendendo Francesco Pona ricorda che la peste sarebbe stata introdotta a Verona da "un
'Francesco Cevolini, soldato infermo', il quale, dopo aver preso alloggio presso 'una tal Lucretia di cognome
Isolana, in contrada di San Salvatore in Corte Regia', dopo cinque giorni morì; e benchè la diagnosi del medico che l'aveva visitato escludesse una forma pestilenziale, in breve morirono anche tutte quelle persone che in un modo o nell'altro avevano avvicinato il povero Cevolini". MARCHI G.P., Introduzione, in PONA F., Il gran contagio di Verona, Edizione fotostatica a cura di Gian Paolo Marchi, o.c., p. XXXVIII. Sul lazzaretto e sulla relativa bibliografia si veda anche BOSCAGIN CIRILLO, Porto San Pancrazio. Storia di
una comunità, Verona, 1986, p. 13 ss.
112
CIPOLLA C., Compendio della Storia politica di Verona, o.c., pp. 334-337. ANDREIS FRANCO,
Aspetti militari di Verona veneta, in "Verona 1405-1797", Verona, 1981, p. 138. PONA F., Il gran contagio di Verona, Edizione fotostatica a cura di Gian Paolo Marchi, o.c.
113
CIPOLLA C., Compendio della Storia politica di Verona, o.c., p. 337 ss.
114
Sui costi della neutralità armata si veda PINO-BRANCA ALFREDO, Riforme finanziarie e inizi di
tendenze unitarie nella politica veneta di terraferma nel sec. XVIII, Estratto "Atti Reale Istituto Veneto",
tomo 95° (1935-36), pp. 287-319.
115
SIMEONI L., Verona, o.c., p. 188.
116
Anche Marco Foscarini (1695-1763), uno degli spiriti più acuti del Settecento veneziano, incontrerà difficoltà a condividere la scelta della neutralità, cui perverrà solo in tema matura. Nell'età più giovane - scrive Luisa Ricaldone - "la posizione di Foscarini rispetto al pressante problema della neutralità...è fermamente contraria. Nulla impedisce naturalmente di pensare che tale atteggiamento sia connesso a quell'idea mitica di Venezia che Foscarini veniva maturando, oppure, anche, sia legato ad una non improbabile considerazione delle gravissime spese cui Venezia era andata incontro tra il 1701 e il 1714 per conservarsi neutrale, senza per questo essersi potuta mettere al riparo da violazioni di territorio e delle acque (si pensi alle truppe austriache che appunto durante la guerra di successione spagnola attraversarono il territorio veneziano per contendere Milano ai francesi, o alla Francia, che allora inviò al largo della foce del
- scrive il Cipolla - che Venezia si avvicinava al sepolcro. Moriva tuttavia con onore, se non con l'onore delle armi, almeno con quello della diplomazia. È giusto infatti riconoscere che i suoi diplomatici seppero anche in questa tristissima età dimostrarsi discendenti ed eredi dei diplomatici
di altri tempi»117. Lo stesso Cipolla osserva quindi che quella di Venezia è ormai una politica di
pace «anche se in Oriente il Leone di S. Marco riesce a tenere testa ai Turchi», contro i quali gli Asburgo d'Austria sferrano però reazioni micidiali con le imprese condotte da Raimondo Montecuccoli prima ed Eugenio di Savoia poi. Venezia perde nel 1669 l'isola di Creta. Nel 1699 alleata dell'Austria, della Polonia e della Russia ottiene la Morea alla pace di Carlowitz, che segna l'inizio della decadenza turca. Ma durante un nuovo sussulto ottomano, antiasburgico e antiveneziano, Venezia è sconfitta nella Morea, mentre l'Austria trionfa nei Balcani. La pace di Passarowitz del 1718 restituendo la sovranità turca sulla Morea palesa e consacra la decadenza della Serenissima.
Quella diplomazia veneta che secondo il Cipolla si sarebbe salvata dalla decadenza politica
dello stato, in realtà mascherò e rese più lento il processo di disfacimento della Repubblica118.
Questo viene solitamente attribuito ad un complesso di cause di tipo amministrativo, ma soprattutto
istituzionale119. Si parla di centralismo, ma anche di corruzione e di apatia della classe dirigente. Ci
Po una flotta per impedire agli austriaci di mandare rinforzi da Trieste in Lombardia). Sta di fatto che, nelle riflessioni che si leggono in quei manoscritti, la neutralità viene rifiutata, pragmaticamente in
considerazione del rischio che la repubblica diventi preda del vincitore". FOSCARINI MARCO, 'Necessità della storia' e 'Della perfezione della Repubblica veneziana', a cura di Luisa Ricaldone, Milano, Franco
Angeli, 1983, pp. 25-26.
117
CIPOLLA C., Compendio della Storia politica di Verona, o.c., p. 339.
118
L'affermazione dello storico Carlo Cipolla ricalca da vicino quella che aveva già espresso nel '700 Marco Foscarini, convinto che gli artefici della neutralità non fossero certo inferiori agli autori delle conquiste militari del passato. Argomenta, tra l'altro, il Foscarini: "Della prudenza poi del Senato Veneziano la passata
neutralità ne dà così grand'argomento, che quegli, che ne aspetta uno maggiore, aspetta cosa impossibile, e
sopra l'umana capacità. Imperciocché sebbene non è quello stato l'esempio nuovo di tenersi indifferente nelle contese di due Potentati, mai però s'è veduta più ostinata, e atroce guerra di quella, né mai a noi più vicina, anzi in certa maniera dentro lo Stato nostro per i passaggi continui della milizia Alemana, e Francese; nelle quali congionture pur si soddisfece ad ognuna delle parti, e conservando la buona intelligenza di mezzo alle mortali loro diffidenze, si mantenne pacificamente, cosa rarissima ad accadere, tra gente armata la dignità del Principato; da che si vide, che in ogni tempo sono stati nella Repubblica uomini di singolare
ingegno, e prudenza. Fra i quali non ottengono luogo ai passati inferiore quelli dell'età degl'Avi, e Padri
nostri, come potrà la posterità istimare con incorrotto giudizio sulla cognizione delle cose accadute". FOSCARINI MARCO, 'Necessità della storia' e 'Della perfezione della Repubblica veneziana', a cura di Luisa Ricaldone, o.c., p. 206.
119
Marco Foscarini nel suo Della perfezione della Repubblica veneziana contestava i detrattori di Venezia ed in particolare tale Amelot de la Houssaye che "nella Histoire du gouvernement de Venise aveva tracciato nel 1676 un profilo della Serenissima del tutto opposto a quello perseguito da Foscarini e singolarmente inquietante". "A livello politico - scrive Luisa Ricaldone nel suo studio su Marco Foscarini - Amelot segnalava infatti, tra l'altro, le turpitudini che avrebbero operato gli inquisitori, l'immoralità dei nobili, e confutava il mito della libertà di Venezia... E ancora, in uno scritto pubblicato l'anno seguente e conosciuto da Foscarini, Des causes principales de la décadence de la République de Venise, riferiva esempi di irrisolutezza e di lentezza deliberativa da parte della classe dirigente. A livello di costumi morali poi, i veneziani venivano dipinti come ingrati, traditori e avari, e a suo giudizio pareva che non vi fosse luogo al mondo 'dove la gioventù fosse più insolente e licentiosa che a Venezia'". Prosegue Luisa Ricaldone: "L'Amelot, peraltro, non era una voce isolata. Negli anni in cui Foscarini componeva il saggio Della
perfezione, presumibilmente al tempo della pace di Passarowitz, la letteratura mitica, quella su cui egli
veniva formando la propria educazione civile, andava ormai tramontando, e vi si sostituivano scritti polemici, volti piuttosto a sottolineare i mezzi non sempre ineccepibili usati dal patriziato per far funzionare le istituzioni ormai in via di logoramento, che non a considerare la perfezione dell'uno e delle altre, e una letteratura interessata in prevalenza a cogliere della Serenissima gli aspetti genericamente di costume".
si dichiara convinti che la storia avrebbe avuto un esito diverso se la capitale avesse imboccato la
strada delle riforme caldeggiata da molti, in particolare da Scipione Maffei120. Forse non sarebbero
state sufficienti a rianimarla, a farla uscire dal coma entro il quale l'avevano poco alla volta paralizzata da un lato l'invadenza spagnola ed austriaca che la cingevano ed immobilizzavano in Terraferma, e dall'altro gli spazi sempre più angusti entro i quali l'aveva rinserrata l'aggressivo espansionismo turco.
Se la capitale si lasciò morire senza più risvegliarsi dal lungo sonno settecentesco, un ultimo sussulto lo ebbe la parte più generosa del grande corpo della Terraferma. Alla logica suicida della neutralità disarmata si ribellò inutilmente Verona, la quale sulla sua pelle aveva imparato che cosa significasse presentarsi inermi di fronte ad un conquistatore spietatamente determinato a far
prevalere la legge del più forte121. Sull'interpretazione da dare alle Pasque Veronesi, uno dei pochi
esempi di aperta e decisa ribellione armata alle prevaricazioni dell'esercito napoleonico, c'è chi le inquadra tra le insorgenze di tipo sanfedista, chi vi vede una reazione dei fedeli al vecchio regime veneto; altri ancora ne minimizza il significato considerandole frutto di enfasi storiografica; qualcuno le ritiene invece il frutto di una manovra politica francese, i cui responsabili avevano
bisogno di giustificare di fronte all'opinione pubblica italiana ed europea la morte di Venezia122. Su
FOSCARINI MARCO, 'Necessità della storia' e 'Della perfezione della Repubblica veneziana', a cura di Luisa Ricaldone, o.c., pp. 26-27.
120
"La più importante e organica espressione del pensiero politico di Scipione Maffei - ha scritto Paolo Ulvioni - fu pubblicata nel 1797, quarantadue annni dopo la morte dell'autore...a Venezia con il titolo di
Consiglio politico finora inedito presentato al governo veneto nell'anno 1736 dal marchese Scipione Maffei. Diviso in tre parti. Il titolo è fuorviante e arbitrario: quasi tutte le copie manoscritte finora reperite portano,
salvo piccole varianti, quello di Suggerimento per la perpetua preservazione ed esaltazione della
Repubblica Veneta atteso il presente stato dell'Italia e dell'Europa". Paolo Ulvioni suggella il suo
contributo con il ricordo della presentazione, al Senato della morente Repubblica, del Consiglio o
Suggerimento del Maffei. "Nel marzo 1797 - annota Ulvioni - quando lo Stato veneziano stava per essere
travolto dagli eserciti napoleonici e dalla disaffezione di molte città suddite, Daniele Dolfin, 'preso argomento dell'asprissime circostanze de' tempi correnti', presentò in Senato due proposte, una di alleanza con la Francia e l'altra di adozione immediata del Suggerimento:
'per tentare di consolidare la fede e l'attaccamento della suddita Terra Ferma non rivoltata, ed anche il ricupero di quella infelicemente mancata al Governo, si verificasse il piano immaginato e scritto di commissione pubblica dal marchese Scipione Maffei, illustre letterato veronese, cioè l'associazione degl'individui delle provincie della T.F. al governo della Repubblica, col qual mezzo assicurare l'amore, la fede, l'interesse e l'ambizione di tutti quei corpi che, vedendosi al pari di tutti, si porterebbero necessariamente ad agire con efficacia alla preservazione dello Stato'. Il savio di settimana Pietro Donà ribattè che...'...la grandezza degl'argomenti stessi, la immensa mole degl'affari correnti e le gravi riflessioni che esiggono li temi proposti non ne permettevano un immediato esaurimento'. Le ulteriori insistenze del Dolfin vennero respinte dall'assemblea con una netta maggioranza di astenuti. Non sono in grado di dire, allo stato attuale della documentazione, se il Dolfin intervenne a promuovere la stampa del Consiglio poco dopo la caduta della Repubblica". ULVIONI PAOLO, Note per una nuova edizione del 'Consiglio politico'
di Scipione Maffei, in "Studi Veneti offerti a Gaetano Cozzi", Venezia, Il Cardo, 1992, pp. 301-308.
121
Sul periodo del trapasso illuministico e sulla presenza nei territori della Repubblica di Venezia di francesi a cominciare dal conte di Lilla, il futuro Luigi XVIII, si veda l'interessante rassegna bibliografica contenuta in PICCOLI ELISABETTA, Dal riformismo alla rivoluzione. Proposte e presenze nella Verona
settecentesca, Tesi di laurea, Fac. di Magistero, Università di Verona, relatore prof. Francesco Vecchiato,
a.a. 1992-93.
122
Un'ipotesi non esclusa da Marino Berengo quando ebbe a scrivere: "Certo è che, se i generali del
Direttorio non provocarono volutamente quella sommossa di Pasqua che infranse l'instabile equilibrio tra
Venezia e Parigi, essi non fecero però nulla per evitarla. Le giornate di Verona non rappresentano un episodio della guerra sanfedistica contro i Francesi, bandita in tutta Italia in nome della Vergine Maria, e neppure un impetuoso slancio di fedeltà a Venezia: al saccheggio, al furto, all'arroganza dei Francesi,
questa linea si è recentemente attestato Godechot per il quale le Pasque veronesi sarebbero state provocate da agenti segreti dell'esercito francese, e dovevano fornire il pretesto a Napoleone per decretare la fine della Repubblica, e quindi per utilizzarne i territori come merce di scambio nella trattativa con l'Austria. La tesi del 'pretesto' confermerebbe a sua volta anche la bontà della neutralità disarmata scelta da Venezia proprio al fine di togliere qualsiasi fondamento ad eventuali provocazioni. Non avendo forze sufficienti per opporsi validamente ad eventuali aggressori, con la neutralità disarmata Venezia si appellava in fondo al diritto internazionale. Andrebbe in questa ottica ridimensionata l'accusa di “inerzia” mossa ad esempio dal Simeoni, il quale considera «stolta
deliberazione... la neutralità disarmata... quasi un invito ad abusare della sua debolezza»123. Non
potendo competere con le due superpotenze europee, l'appellarsi al diritto delle genti fu l'unica mossa che la diplomazia veneziana aveva a disposizione.
Quanto alle Pasque, qualcuno ha ipotizzato che con ogni probabilità la «collera dei veronesi profondamente offesi nella loro fede cattolica e nel loro attaccamento alla Serenissima, sarebbe esplosa alla prima occasione» anche senza interferenze degli 007 napoleonici. Il Berengo ebbe a scrivere che le Pasque veronesi si trascinarono per cinque giorni «in un Vespro antifrancese di
medioevale ferocia»124, considerandole «la pagina più sanguinosa e più complessa nella storia delle
popolazioni venete dell'ultimo '700»125.
Capitolo II