GLI STATUTI DEL
4.4. Delitti e pene 1 Il Maleficio
Nella prima posta sono stabiliti i doveri e le funzioni del giudice del Maleficio343, le
mansioni del notaio «ad memoriale maleficiorum» e dei notai «qui stant ad dischum, seu bancum maleficiorum» e che scrivono «omnia acta et scripturas» relativi alle denunce e alle indagini in appositi e ordinati “quaterni”. Sono inoltre fissati i costi cui va incontro chi richieda il rilascio di un
atto notarile «de manifestationis accusa, defensione, denunciatione, et inquisitione»344.
Risse e ferimenti devono essere denunciati dai massari dei paesi rurali o dai giurati delle
contrade urbane. Le ferite richiedono anche una certificazione dei medici chirurghi. I notai del maleficio sono obbligati a mandare i viatores a spese dell'accusatore o del denunciante per l'atto di citazione dell'accusato o denunciato e dei testimoni. Se non è possibile fare la citazione a casa del citato in città o nel distretto, la si fa genericamente al capitello di piazza delle Erbe, o nella piazza
del paese o in altro luogo pubblico345.
La contumacia è considerata confessione. Non è ammessa la presenza di più di tre persone nel palazzo del comune da parte di ciascuno degli accusatori o accusati, dei denunciatori o denunciati o degli inquisiti. È libera la scelta del notaio o «tabellio ad scribendum pro se» da parte dell'accusatore o dell'accusato; però si tiene presente il grado di parentela che può impedire la scelta fino al quarto grado. Dopo l'accusa o denuncia, fatta l'indagine, il notaio che l'ha ricevuta è tenuto a leggerla subito e a comunicarla all'accusatore e all'accusato. La denuncia o l'accusa per risse,
percosse o ferite, non può essere presentata che dalla persona “iniurata” o dal padre, madre, ‘avo’,
figli, fratelli, marito o da quelli ai quali “singulariter” interessa; tranne il caso in cui si tratti «de homicidio, et rapina, seu praeda, et aliis criminibus» pei quali qualsiasi persona è ammessa «de jure communi ad accusandum». Delle accuse e delle denunce bisogna fornire le prove; e non devono essere incarcerati gli accusati e i testimoni per un crimine “quo provato”, non comporta «poena
sanguinis»346.
Quanto alla cauzione - che si paga in proporzione al proprio reddito - il suo pagamento in certe situazioni era sufficiente a evitare l'incarcerazione. Il libro III degli Statuti del 1450 ricalca molto da vicino il libro III di quelli del 1276. Quest'ultimo infatti a proposito di “securitas” o cauzione «de se presentando vel de solvendo» da parte di «accusati vel denunciati» di crimini per i quali sia prevista una pena pecuniaria non superiore alle 25 lire, stabilisce che non «ponatur in carcerem si convenientem securitatem paratus fuerit facere». Naturalmente il mio riscontro si riferisce agli Statuti del 1276 nell'edizione di Gino Sandri del 1940, i quali costituiscono un
dominante. Bartolomeo Cipolla legato del comune di Verona a Venezia (1447-1463),in VARANINI G. M., Comuni cittadini e stato regionale. Ricerche sulla Terraferma veneta nel Quattrocento, o.c., pp. 361-384.
Ma anche in quello stesso volume (del 1992) il saggio: VARANINI G.M., Gli statuti delle città della
terraferma veneta dall'età signorile alle riforme quattrocentesche ("I Consilia di Bartolomeo Cipolla e gli
statuti veronesi", p. 50 ss.).
342
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p.189.
343
Libro III, Posta I: "Haec sunt Statuta officii maleficiorum et de ordine procedendi in causis criminalibus".
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p. 190 ss.
344
Per altri atti notarili si richiamano i pagamenti vigenti per le cause civili, poste al cap. 16° del libro II°.
345
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p.194 (l.III c.8°).
346
momento saliente dell'attività statutaria in Verona coll'affermarsi della Signoria scaligera347. Il
Faccioli suggerisce di chiamarli «Codice statutario del 1276», «in quanto questo Codice è una
ricomposizione di buona parte se non tutta la legislazione veronese accumulatasi nel più che
secolare corso storico del Comune»348. I punti di contatto fra gli Statuti del 1276349 e del 1450 sono
frequenti, specialmente nel II e nel III libro dedicati alle cause civili e a quelle penali. In comune hanno anche il numero complessivo dei libri, 5 in entrambi. Negli statuti di Cangrande del 1327 o
1328 i libri diventavano 6, mentre in quelli di Gian Galeazzo Visconti sarebbero tornati ad essere 5,
per la soppressione dell'ultimo, intitolato «De milicia, populo et stipendiariis».
Tra un corpus statutario e l'altro ci sono evidenti segni di sovrapposizione, nel senso che al momento di una nuova compilazione si tengono presenti gli Statuti precedenti, cui si apportano gli aggiustamenti ed integrazioni suggeriti dal nuovo contesto politico. La continuità esterna nel momento del trapasso da una signoria all'altra risulta evidente dal fatto che sul codice visconteo verrà abraso il nome di Gian Galeazzo Visconti, prontamente sostituito da quello di Michele Steno,il doge che firmò la bolla d'oro. Il particolare dell'abrasione ci dice che si vogliono evitare vuoti normativi. Il vecchio ordinamento continuerà ad avere valore nella nuova realtà politica in
attesa di interventi di adeguamento alle mutate circostanze350.
Sul modo di lavorare delle commissioni incaricate di redigere i nuovi statuti o se preferiamo di rivisitare e riadattare quelli in vigore nel precedente contesto politico, ci informa il Biancolini a proposito della riforma degli ordinamenti ezzeliniani. Questa la sua testimonianza: «Il Podestà e gli Anziani aveano la cura di eleggere dodeci uomini pratici, di retta coscienza, e nati di legittimo matrimonio, nel qual numero fossero quattro degli Gastaldi delle Arti ed un Giurista, e due Notari per Cancellieri. Questi quindeci (12+3) chiusi in un luogo appartato e rimoti da ogni pratica dovessero riformare i Statuti, né quindi uscire se prima non avessero l'opera perfezionata. E se alcuno de' cittadini avesse voluto alcuna cosa ricordare sopra tale materia, era lecito scrivergli, ma ragionar loro non già. Corretti e riformati ch'erano gli statuti, erano in Conseglio a capo per capo con suffraggi approvati o rigettati; degli approvati se ne scriveano tre volumi conformi, uno custodito dal Podestà, l'altro dal Giudice de' Maleficj, e il terzo nel Palazzo della Ragione a pubblico commodo. Alli compositori di essi Statuti fu determinata la mercede a misura
dell'operazione»351. In questo passo - che si riferisce alla commissione costituita per riformare gli
Statuti vigenti intorno al 1238352 - si ritrovano scopi e metodi assunti dal notaio Calvo che per incarico del podestà Manfredo di Cortenuova lavorò nel 1228 ad estrarre il materiale legislativo dalle “poste” anteriormente deliberate dai consigli cittadini, formandone un grosso volume, che si conserva originale nella biblioteca capitolare di Verona. Con la parola “posta” si indicava la proposta approvata dal consiglio, che in epoca veneziana è detta “parte”. Al lavoro del Calvo si
347
SANDRI GINO (a cura di), Gli Statuti veronesi del 1276 colle correzioni e le aggiunte fino al 1323, Venezia, Deputazione di Storia Patria delle Venezie, 1940.
348
FACCIOLI GIOVANNI, Verona e la navigazione atesina. Compendio storico delle attività produttive
dal XII al XIX secolo, o.c., p.
349
Sull'età comunale si rimanda a VECCHIATO LANFRANCO, Costituzione politica e prestatutaria del
Comune di Verona (1172-1228), in "Nova Historia", rivista diretta da Lanfranco Vecchiato, Anno VII, fasc.
V-VI, Verona, 1955, p. 5 ss. Citato da OPLL FERDINAND, Verona e l'Impero all'epoca di Federico
Barbarossa. La formazione del Comune e le vicende relative all'Impero, in "Verona dalla caduta dei
carolingi al libero comune" (Atti del convegno), presentazione di Gino Barbieri, Verona, Accademia di Ag. Sc. e Lett., 1987, pp. 29-30.
350
SOLDI RONDININI G., La dominazione viscontea a Verona (1387-1404), in "Verona e il suo Territorio", v.IV, t.1, o.c., p. 156.
351
ZAGATA PIER, Cronica, in BIANCOLINI G.B. (a cura di), Cronica della città di Verona, vol. 1°, Verona, 1745, p. 35.
352
volle dare il nome di Statuti, anche se le “poste” non sono riunite in libri e quindi le «materie vi si
trovano dentro ammassate alquanto confusamente»353.
4.4.2 Multe, mutilazioni, decapitazioni e rogo
La prima pena menzionata è un'ammenda di 60 soldi comminata a chi «contempserit aliquod praeceptum sibi legitime factum per aliquem officialem communis Veronae jurisdictionem contentiosam habentem, vel per aliquem viatorem communis Veronae ex parte alicuius ipsorum
officialium»354.
Il debitore che alla terza intimazione (“commissio”) non abbia consegnato l'oggetto da dare
in pegno va incontro ad una multa di 5 lire, se maschio, 3 lire se femmina355.
Una pena in denaro è prevista anche per chi di notte dopo il terzo suono della campana esca di casa “sine lumine”. Girare dunque senza lume può costare una multa di 40 soldi. 5 soldi paga invece chi lasci la porta di casa aperta nelle ore notturne. Di notte la città era pattugliata dai soldati del podestà, che la percorrevano contrada per contrada; similmente facevano i “bariselli” nella borgata di S. Zeno. Le guardie svolgevano azione di prevenzione al fine di impedire furti, risse, danneggiamenti o altri “maleficia”. Chiunque fosse trovato per la strada dopo il terzo suono della campana con armi proibite veniva fermato e rilasciato solo se dava garanzia di presentarsi l'indomani mattina “coram Capitaneo”, dal quale sarebbe stato multato. Le persone coinvolte, invece, in risse (“meschlantiae”) o in altri “malefici”, erano trattenute «usque mane» e poi
presentate al podestà, il quale decideva se farle incarcerare o lasciarle a piede libero356. I
responsabili di un omicidio o di un delitto comunque di rilevante gravità venivano denunciati al
podestà «eadem nocte» (357. Coloro che non utilizzavano i ponti e le porte, ma transitavano lungo
“fossas”, “schajonatas” (terrapieni), e “muros”, erano multati a pagare 10 lire di giorno e 20 di notte (358.
I furti di legna dalle case private o dalle rivendite erano puniti con una multa di 10 lire. A pieno arbitrio del podestà era lasciata la pena da comminare contro chi avesse detto «verba iniurosa». Gli si raccomanda solo di valutare la natura delle offese pronunciate e la condizione delle
persone coinvolte nell'episodio359.
Provvedimenti più spettacolari che severi, erano previsti per i bestemmiatori, che non fossero in grado di pagare le pene pecuniarie. Queste avevano la seguente gradualità: 50 lire di multa per la bestemmia contro Dio; 25 contro la Madonna; 15 contro i Santi. Chi non avesse avuto i soldi, veniva tuffato per tre volte («ter suffocetur») nella vasca (‘lavello’) del capitello di piazza
Erbe, d'inverno. Nelle altre stagioni era fustigato tre volte intorno allo stesso capitello360.
Indeterminata - e quindi lasciata all'arbitrio del podestà - rimane la pena anche per chi «de die vel de nocte solus vel associatus cum aliis», abbia assalito uno in casa sua o altrove. Invece uno schiaffo (“alapa”) costava al responsabile 25 lire.
353
CIPOLLA C., Compendio della Storia politica di Verona, o.c., p. 140-142. Sulla composizione dello statuto e sull'opera del notaio Calvo si veda anche SIMEONI LUIGI, Il Comune Veronese sino ad Ezzelino e
il suo primo statuto, in "Miscellanea di storia veneta", o.c., p. 86 ss.
354
Libro III Posta II: "Haec sunt statuta de poenis". Si va dal cap. 21° al cap. 74°. Statutorum Veronae libri
quinque, o.c., p. 199 ss.
355
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p. 199 (l.III c.22°).
356
Mesclantia è la "violenza armata con spargimento o senza spargimento di sangue; lib. 3 capp. 6, 34".
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., "Voci oscure".
357
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p. 200 (l.III c.24°).
358
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p. 200 (l.III c.25°).
359
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p. 201 (l.III c.26°,27°).
360
Il portare armi era proibito sia di giorno che di notte. I “forenses” in transito erano autorizzati a portare armi purchè le depositassero durante la sosta. Analoga autorizzazione valeva per i nobili, i cittadini e i mercanti. A tutti erano lecito munirsi di armi nell'andare dalla città in campagna o da un qualsiasi paese all'altro della provincia. Tutti gli altri erano puniti, a seconda dell'arma, a pagare una multa. Particolarmente salata la multa per chi osasse entrare con armi nel palazzo del comune di Verona o in quello del podestà e del capitano. Il cap. 31° enumera molte armi - che non possono ancora essere da fuoco - alcune dai nomi strani. Si incontrano infatti: coltello “a punta trivellata”, lancia, daga, spada, lanzono, lanzeta, giaverina (piccolo giavellotto), dardo, spontono, falzono, rangono, aza, plambata, “vel similibus”. Puniti erano anche coloro che pur non portando armi indossassero armature o strumenti di difesa di vario genere, come «celata sive
cervelleria vel collario, scuto..., panceria, et coracia»361.
Era proibito gridare “ad arma, ad arma”, ma anche più semplicemente “heus, foras”. Si
temeva infatti che il popolo insorgesse362. Se con le armi - proibite o non proibite - si procuravano
ferite con fuoriuscita di sangue si era condannati a pagare 50 lire, che scendevano alla metà senza versamento di sangue. A tali cifre andavano aggiunte le eventuali spese per il medico e le
medicine363.
In alcune situazioni era ammessa la tortura. Nei casi di omicidio, furto, “robaria”, incendio, adulterio, falsificazione di atti e falsa testimonianza, il podestà poteva «inquirere et ponere ad
tormentum» con il consiglio e la volontà di tutti i giudici e dei giudici-consoli eletti dal consiglio di
Verona «vel maioris partis»364.
Se in seguito ad una ferita o a percosse era seguita la morte dell'offeso, il podestà e il giudice del maleficio, prima di denunciare di omicidio il responsabile, doveva accertarsi con la massima diligenza se ci fosse stata premeditazione. Tale raccomandazione era tanto più doverosa visto che poi l'omicida veniva decapitato. Se i responsabili era più di uno la pena capitale scattava solo per
una persona365. La casistica contemplata nel cap. 40° in relazione all'omicidio è molto articolata. La
pena di morte si accompagnava, se era necessario, alla confisca dei beni, che potevano essere
assegnati agli eredi del morto366.
L'adulterio era punito con 300 lire di multa, con 6 mesi di carcere e la perdita della dote a
favore del marito o dei suoi eredi. Punizione analoga toccava all'uomo. Lo stupro era punito con la morte. Questo il testo: «si vero per vim quis aliquam mulierem honestam carnaliter cognoverit,
capite puniatur»367. Non si procedeva invece contro chi «carnaliter cognoverit, non per vim,
mulierem et infra mensem desponsaverit»368. Puniti con multe rilevanti erano i matrimoni ‘furtivi’ e
la bigamia369.
Crudeli le pene previste per i falsificatori. Si tagliava la mano destra a chi falsificava documenti; la lingua a chi risultasse reo di falsa testimonianza. A seconda dei casi, alle due mutilazioni si aggiungeva anche la «mitria» e l'esposizione in «platea mercati fori». In quest'ultimo caso si finiva dunque alla berlina in piazza Erbe. Chi deponeva il falso in tribunale per denaro o per averne comunque una ricompensa, veniva “mitrato” cioè gli si imponeva in testa la «mitria» e
361
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p. 203 (l.III c.32°).
362
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p. 203 (l.III c.34°).
363
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p. 204 (l.III c.35°).
364
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p. 204 (l.III c.36°).
365
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p. 205 (l.III c.37°).
366
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p. 206 (l.III c.40°).
367
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p. 207 (l.III c.42°).
368
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p. 208 (l.III c.43°).
369
quindi condotto “in publicum” per subire il taglio della lingua370. Se era una donna veniva fustigata
e marchiata sulle ginocchia («in utraque genua bulabatur»)371. Invece la falsificazione di una
scrittura privata «in damnum et praejudicium alterius» costava una multa di 200 lire. Nei capitoli dal 51° al 55° si parla ancora di falsi in scritture pubbliche e di false testimonianze, di cui si possano rendere colpevoli i notai o i ‘viatores’. Per questi ultimi le pene sono più pesanti, essendo prevista la fustigazione «ter circa Capitellum» e la marchiatura a fuoco («postea bulletur in fronte»). Terribile è lo statuto di Verona con i falsari di monete. Il cap. 57° ordina che siano bruciati («igne
cremetur»)372.
Sui banditi, su quanti cioè siano fuggiti dopo aver commesso gravi delitti, sono previste pene severe per tutti coloro che in qualche modo li favoriscano, e ricompense per chi ne agevoli la cattura.
Il cap. 74°, «de columbis non capiendis», tende a salvaguardare una voce non irrilevante nell'attività economica dell'epoca, e quindi a scoraggiare il bracconaggio. I mezzi comunemente usati per la cattura sono ‘retia’, ‘laquei’, ‘formulae’, ‘zambelli’, ‘sagittari’. Quindi vanno perseguiti
tutti i possessori di reti privi di licenza del podestà373.
4.4.3 Danneggiamenti
Le disposizioni statutarie in tema di danni374 sono state riformate dalla ducale del 28 luglio
1456, recepita negli Statuti, che stabilisce i punti principali da tenere presenti nel caso di «damnis
abscose datis». In particolare nel farne denuncia, il danneggiato, che ha 20 giorni di tempo, deve
indicare natura, quantità e valore del danno subito, e dichiararsi disposto a giurare sulla veridicità delle affermazioni. I danni subiti in campagna coinvolgono i saltari (guardie campestri) e il massaro del comune nel quale si trovi il bene danneggiato. Quelli invece inferti “ascose” «circa civitatem Veronae, in suburbiis», chiamano in causa anche la contrada con la sua vicìnia.
Considerati a parte sono i danni arrecati dai “banditi” nei comuni rurali «per incendium, per incisionem vinearum, olivarum, aut aliarum arborum, seu bladorum, vel aliarum rerum». In questo caso il podestà può obbligare il comune, entro i cui confini sia stato cagionato il danno, al risarcimento. Nel caso in cui il comune sia troppo piccolo e quindi privo di risorse, il podestà può rinunciare all'azione di rivalsa. Comunque la persona che eventualmente ottenesse il “mendum”
(risarcimento) deve dare al comune «omnes suas rationes»375. I comuni della campagna veronese
sono tenuti a consegnare alle forze di polizia di Verona (“in fortiam”) gli autori di eventuali ‘malefici’ o danni. Il cap. 80° impone procedure che ripugnano al senso moderno di giustizia. Allarga infatti ulteriormente la corresponsabilità dei comuni, non più limitata ai soli danni provocati da banditi, ma estesa anche a quelli dei comuni malfattori nel caso in cui le comunità non abbiano
fatto tutto il possibile per arrestare i responsabili376. Se poi le rapine o danni erano perpetrati «extra
villam», allora il podestà era autorizzato a condannare al risarcimento tutti quelli che si fossero trovati vicini o prossimi al fatto criminoso (‘robaria’) o quelli che ne avrebbero potuto udire il
370
La parola mitra o mitria, rimasta ad indicare il copricapo di vescovi, cardinali e papa, un tempo era utilizzata anche per denominare una berretta infamante. Una sua variante era la mìtera e cioè il foglio accartocciato che veniva posto per vituperio in testa ai condannati alla pena capitale o alla gogna.
371
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p.210 (l.III c.50°).
372
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p.213 (l.III c.57°).
373
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p.219 (l.III c.74°).
374
Libro III, Posta III: "Haec sunt Statuta de damnis datis". Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p. 220 ss.
375
Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p.223 (l.III c.78°).
376
Questa la disposizione: "si homines terrae fuerint negligentes ad prosequendum, et capiendum malefactores...tunc commune ipsius villae ad emendationem damni, si praedictis (cioè ai malfattori) resistere potuerint, omnimode teneatur". Statutorum Veronae libri quinque, o.c., p. 224 (l.III c.80°).
rumore. Nel caso in cui al podestà non riuscisse di individuare privati su cui rivalersi per i danni provocati da banditi poteva pur sempre condannare l'intera collettività.
I massari dei comuni erano tenuti, dietro richiesta dei commercianti che trasportavano merci per terra o lungo corsi d'acqua (l'Adige o altri minori), a reclutare delle guardie da porre a custodia
delle merci e delle imbarcazioni durante le soste377.
4.4.4 Vincolismo commerciale
Nessuno poteva esportare o introdurre nel distretto di Verona legname senza la licenza del
podestà378. L'esportazione di “stracci” e rottami di vetro era proibita «sub poena perdendi illas», il
cui valore andava per metà all'accusatore e metà alla casa dei mercanti379.
Senza apposita licenza del podestà nessuno poteva far uscire dalla città cereali (“blada”), farina, legumi, vino, olio, sale, carni, “seu victualia”. Le ammende erano proporzionali alla quantità trasportata abusivamente. I cereali portati ai mulini dei sobborghi o dei dintorni della città per esservi macinati, dovevano rientrare in città pena l'ammenda di 60 soldi. Le quantità che era lecito trasferire da un punto all'altro del distretto veronese erano fissate secondo il genere e la misura corrispondente in base ad una precisa catalogazione: «videlicet unam bacetam olei, medium modium vini albi, et medium modium vini vermilii, etiam super eodem plaustro unum minale
fructuum arborum, ecc.» Quando si trattava del raccolto (‘lectum’) o dei raccolti (‘lectos'’), purchè il
trasporto avvenisse lontano dai confini, non era necessaria la licenza del podestà. Se questa fosse richiesta, comportava anche l'impegno e la garanzia (‘bona securitas’) di portare il raccolto in città
dietro richiesta del podestà stesso380.
Più severe erano le disposizioni dello statuto nei riguardi degli acquisti di “biade” o “legumi” fatti in città o nel distretto con lo scopo di esportarli «extra districtum Veronae». Non solo si rischiava di perdere la merce, ma anche le bestie, i carri (‘plaustra’), e le barche, ed in più di
pagare una penalità. La metà andava a chi aveva denunciato il traffico illecito381.