IL GOVERNO LOCALE
6.7. I “mercanti vilipesi dai nobili”
Lo Statuto ammetteva come solo criterio discriminante per poter partecipare al consiglio cittadino quello dell'appartenenza “civile” alla comunità veronese, che si reggeva sui due presupposti essenziali della residenza in città e del pagamento delle tasse. Poichè la possibilità di entrare nel consiglio da parte di famiglie borghesi era vanificata dalle “conventicole” dei nobili, che decidevano con accordi di corridoio le nuove aggregazioni e relative nomine consiliari, nel 1572 i mercanti Giulio Torniello e Maffio Dossi si rivolsero al Consiglio dei Dieci per ottenere il rispetto delle norme statutarie e specialmente della “regolazione” stabilita nel 1517. Nella motivazione di
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RIZZONI JACOPO, Continuazione alla Cronica di Pier Zagata, in BIANCOLINI GIAMBATTISTA (a cura di), Cronica della città di Verona descritta da Pier Zagata, Parte II, Verona, 1747, pp. 194-195.
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RIZZONI JACOPO, Continuazione alla Cronica di Pier Zagata, in BIANCOLINI GIAMBATTISTA (a cura di), Cronica della città di Verona descritta da Pier Zagata, Parte II, Verona, 1747, p. 195.- Paola Lanaro, che dedica un denso capitolo alle novità dopo il 1517, spiega: "Questo Consiglio sarebbe rimasto in carica fino al dicembre 1518, quando, giusta l'antica tradizione veronese, si sarebbe proceduto al suo rinnovo o esattamente al rinnovo di quel quarto che, per tessera nei primi tre anni, per naturale alternanza negli anni seguenti, si sarebbe ritenuto decaduto per contumacia. Si introduceva cioè per la prima volta nella sua storia la norma della vacanza che doveva valere nei confronti tanto del Consiglio dei Cinquanta che dei Settandadue". LANARO P., Un'oligarchia urbana nel Cinquecento veneto. Istituzioni, economia, società, o.c., p. 44.
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Questa la memoria del Simeoni: "In capo alla piazza sta la grande Colonna di S. Marco, in marmo bianco veronese, fatta erigere dalla città nel 1523, per attestare la sua devozione a Venezia dopo lo sciagurato dominio imperiale (1509-1517), e su cui l'anno dopo veniva collocato l'alato Leone scolpito da Pyrgoteles (pseudonimo di Lascari). Ad essa poi, con deliberazione del 19 Marzo dello stesso anno, si attribuiva il diritto d'asilo per i debitori, che durò poco. La colonna che arieggia all'ordine composito (salvo che nel capitello sono inseriti gli stemmi del Doge Gritti, del podestà Marcello, del capitano Tron e di Verona), fu disegnata da Michele Leone, architetto veronese, figlio del valente lapicida Pietro da Porlezza. Nei primi del maggio 1797 il leone venne strappato dalla colonna dai giacobini veronesi; l'attuale, scolpito da Cesare Poli, vi fu ricollocato nell'aprile del 1886. Gli stemmi che si vedono sulla base sono quelli dei Camerlenghi, ossia tesorieri, GIacomo Marcello e Girolamo Capello". SIMEONI LUIGI, Verona. Guida storico-artistica della
fondo del loro ricorso c'era anche la lagnanza per l'ingiusta situazione dei mercanti, penalizzati dagli estimi, trovandosi essi aggravati non solo sui beni immobili, come i nobili e tutti gli altri cittadini,
ma anche sulle mercanzie662. Per riparare a tale ingiustizia ritenevano che fosse necessario
intervenire direttamente nelle operazioni inerenti al rifacimento degli estimi con la loro presenza in consiglio. Aggiungevano accuse contro i nobili del consiglio comunale,rimproverando loro di non rispettare gli statuti della casa dei mercanti, scegliendo tra gli aristocratici oltre al vicario - di cui
non discutevano - anche i consoli e gli altri ufficiali663. Nella ducale del 9 maggio 1572 il doge
Alvise Mocenigo aveva ampiamente riassunto i termini della contesa tra nobili e mercanti scrivendo
ai rettori Pietro da Mosto, podestà, e Girolamo Morosini, capitano664. In particolare si diceva: «Sono
stati uditi dalli capi del Consiglio nostro di dieci li fideli nostri Giulio Torniello et Maffio di Dossi, Nontij delli Cittadini mercanti di quella Magnifica Città, dimandanti con li loro Avvocati, che vi fosse scritto, che non ostante, che da un tempo in quà non sia stato ottenuto quello che del 1517 fu
preso in esso Consiglio dei X, circa il modo, che si deve tener nel far il novo Consiglio di essa
Magnifica Città, che si dovesse far che si tornasse à far il detto Consiglio giusto la forma di essa
Parte 1517 allegando a favor di questa petitione le ragioni et cause lor»665. A questo punto la relazione del doge dà spazio all'opposizione fatta dagli oratori della città, conte Giulio Sambonifacio, Marc'Antonio Serego, Francesco Cagalli, Alessandro Capella. La delegazione inviata dall'aristocrazia veronese pretende che «li detti cittadini dover esser licenziati, stante massimamente l'osservanza continuata già molti anni contraria all'intelligenza, ch'essi mercanti danno alla detta
deliberatione 1517...», la quale, aggiungono, «è sinistramente interpretata» e porterebbe «pessimi
effetti, introducendosi essi mercanti in consiglio» ed «escludendo la maggior parte degli antichi cittadini della... città dagli offitij et Magistrati, che si danno al Foro della Mercanzia». Infine si fa cenno dagli oratori della città ad antichi privilegi e alla recente decisione del Senato presa in “simile materia” per Brescia e favorevole alle loro tesi. La richiesta di ottenere l'accesso al consiglio non
ritorna in discussione che si riapre solo sulle elezioni dei vari ufficiali della Domus666.
La ducale 9 maggio 1572, nonostante che i mercanti abbiano ottenuto lettere loro favorevoli dall'Avogaria di Comun, dopo aver riassunto le posizioni delle due parti in conflitto - mercanti e nobili - ordina ai rettori che «non sia fatta alcuna novità». Con il che si chiude definitivamente il
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Una documentata memoria settecentesca sull'estimo mercantile ripercorrendone la storia dal 1405 ci fa conoscere uno dei tanti motivi di contrasto tra nobili e mercanti. In essa si legge: "Li più insistenti però furono li mercanti et artisti, li quali ora come corpo mercantile, et ora come scolari bombardieri, hanno cercato di mettere in vista ai tribunali et al Prencipe l'incongruenza, et ingiustizia delle massime fondamentali della facitura dell'estimo mercantile; studiando principalmente di far decidere il punto, che nel ripartire l'estimo non possano gli estimatori aggravare l'industria del giro e rigiro del capitale da ciaschedun
individuo negotiato; volendo essi soltanto che fosse considerato il solo capitale di ciascheduno, et ogni
ducati 240 di esso capitale fosse aggravato un soldo d'estimo; senza che si havesse a considerare, come è l'antica pratica, che detto capitale nel corso d'un'anno viene girato quatro, o sei, o più volte, e per conseguenza rende quatro, o sei, e più utilità, sopra la quale per legge salica deve cader la gravezza. Questo punto adunque fu espressamente combattuto, et acremente disputato nell'Ecc.mo Collegio li 22 giugno 1654 dal corpo de mercanti, in confronto della città, e ne restarono corretti, commandandosi l'esecutione dell'antica pratica". A.S.VR., Archivio Comune, b. 107 proc. 211.
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La ducale 9 maggio 1572 riferisce - riportando il punto di vista dei mercanti - che "la difficoltà non esser, chi debba fare l'eletione, ma di qual sorte di persone, dicendo che dal Vicario in fuori, del quale non
parlavano, li consoli et altri offitiali devono esser eletti del numero de mercanti, ch'esercitano la mercatura,
giusta la forma de' statuti di quella città, sì come continuamente è stato esercitato fin il 1566". A.S.VR.,
Archivio Comune, b. 153 proc. 2527 (Ducale, 9 maggio 1572).
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Di nessuno dei due ci sono rimaste le relazioni, sicchè non ci è dato di conoscere il loro punto di vista sul
vano tentativo dei mercanti di recuperare spazi politici. Relazioni dei Rettori Veneti in Terraferma, IX, Podestaria e Capitanato di Verona, o.c.
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A.S.VR., Archivio Comune, b. 153 proc. 2527.
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contenzioso sul versante dell'accesso al consiglio comunale. Rimarrà aperto l'altro nelle cariche all'interno della casa dei mercanti su cui Venezia tornerà a pronunciarsi più volte, a cominciare dal
13 agosto 1572667. La ducale del 9 maggio 1572 era sibillina in quel «non sia fatta alcuna novità».
Se infatti col termine novità ci si riferiva alla consuetudine, avevano certo ragione i nobili; riferito però alle leggi statutarie i margini di interpretazione rimanevano molto ampi e reclamavano un'interpretazione autorevole, quella appunto data da Venezia attraverso le sue ducali. In ogni caso essa fu interpretato dagli storici come espressione della volontà del Senato veneto di conformare i consigli delle città suddite a quello della capitale, dove continuava ad essere operativa la “serrata”
del 1297668. Il Simeoni parla in proposito di “piccola serrata” quando afferma: «Nel 1572 fu dal
Senato limitata la partecipazione al Consiglio a quelle famiglie che ne avevano per consuetudine la prerogativa: una piccola serrata che creava, come quella veneta del 1297, una piccola oligarchia
cittadina»669. Con ogni probabilità Venezia avendo constatato quanto forti fossero le resistenze del
consiglio alla delibera del Senato, che lo obbligava ad eleggere gli ufficiali della “casa dei
mercanti” tra quanti esercitavano la mercatura, adottò la stessa tattica ispirata a cautela cui
l'abbiamo vista attenersi in occasione della ducale del 30 giugno 1517. Venezia insistette, dunque, per quanto riguardava la “casa dei mercanti”, ribadendo lo statuto vigente che consacrava la consuetudine e non fece parola sul tema più scottante, incoragggiando ad interpretare il silenzio come un assenso alle tesi degli oratori della città.
Nel 1578, sei anni dopo l'inutile intervento dei due mercanti, Torniello e Dossi, il capitano Domenico Priuli, rettore di Verona, nella relazione al Senato con molta aderenza alla realtà parla di «malissima sodisfattione d'animo per causa degli officij et Consiglio» che vi sarebbe «fra essi nobili et li cittadini over mercanti, con li qual è anco per il più il popolo». La ragione è appunto l'esclusione dal consiglio di mercanti pur dotati di patrimoni e di risorse finanziarie di primo piano. Eppure - dice ancora il Priuli - i «mercanti vilipesi dai nobili» fanno di tutto per superare in buone
opere di carità «di gran lunga cadauno del Consiglio per grande che sij»670.
Due episodi mettono in evidenza l'accanimento dei nobili che pure avevano ormai chiuso l'accesso al consiglio. Il primo riguarda le false e prezzolate accuse lanciate contro il Torniello (uno dei due protagonisti mandati a Venezia con le richieste del ‘corpo’ dei mercanti), il quale per evitare uno scontato giudizio di condanna da parte della consolaria in mano ai nobili veronesi, invocò dal
consiglio dei Dieci il privilegio di essere giudicato solo dal rettore veneziano in carica671. L'altro
episodio è legato al processo intentato tra il 1576 e il 1577 dal consiglio cittadino contro il dottore
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Tornerò sul conflitto nobili-mercanti al par. 8.3 "La 'malissima sodisfattione de' mercanti'" del cap. VIII "La casa dei mercanti".
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Attestato su questa linea interpretativa è tra gli altri Alessandro Carli, ripreso da Paola Lanaro (Carli,
Istoria della città di Verona, cit., t. VII, cc. 284 e ss) che ce ne riferisce il pensiero. Scrive dunque la
Lanaro: "La ducale del maggio 1572 è stata interpretata come l'atto ufficiale di chiusura del Consiglio civico ad un solo ordine di cittadini: come ebbe ad osservare il Carli nella sua storia di Verona la serrata dell'assemblea cittadina non è tanto da fare risalire alle disposizioni del 1517 quanto alla ducale del 1572 presa 'allorquando il Senato volendo conformare i consigli delle città soggette a quello della capitale riserrò la concorrenza al Consiglio di Verona unicamente a quelle famiglie che ne avevano per consuetudine la prerogativa rigettando le istanze fatte dagl'impiegati delle faccende di commercio e di traffico, ch'avean praticato ricorso alla Dominante, onde poter esser del numero'". LANARO P., Un'oligarchia urbana nel
Cinquecento veneto. Istituzioni, economia, società, o.c., pp. 52-53. - In Venezia di serrata si parla anche per
i cittadini originari (ceto intermedio tra patriziato e popolo cui vanno una gran parte dei pubblici uffici). La loro serrata sarebbe del 1569. Ai cittadini originari ha dedicato un ponderoso studio ZANNINI ANDREA,
Burocrazia e burocrati a Venezia in età moderna: i cittadini originari (sec. XVI-XVIII), Venezia, 1993.
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SIMEONI L., Verona, o.c., p. 190.
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Relazioni dei Rettori Veneti in Terraferma, IX, Podestaria e Capitanato di Verona, o.c., p. 108 (capitano, Domenico Priuli, 27 settembre 1578).
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A.S.VR., Archivio Comune, reg. 24, cc. 202v-203r, 232rv, 239v, citato da LANARO P., Un'oligarchia
in legge Lelio Zanco, che con un gruppo di cittadini aveva chiesto la riforma degli statuti e l'ampliamento del consiglio. L'assemblea consiliare scaligera l'11 febbraio 1577 scrisse ai rettori veneziani di Verona chiedendo che contro Lelio Zanco si procedesse a norma di statuti e «delle sante leggi dell'Illustrissimo Dominio» perchè era «un seminator di odii et guerre...machinator di
nove regule et costitutioni di governo publico, homo d'animo indomito et incorregibile...»672 I
contrasti tra gruppo oligarchico e ‘corpo’ mercantile continuarono oltre tali vicende. Col tempo il fossato si farà sempre più profondo, senza tuttavia diventare pericoloso, perché Venezia abilmente vigilava su entrambi gli schieramenti, mostrando tuttavia maggiore arrendevolezza verso i nobili come tornerà a fare anche nel conflitto che li opporrà al Territorio di Verona.
L'attaccamento dei nobili veronesi al consiglio cittadino ha destato sempre meraviglia unita alla curiosità di volerne conoscere le giustificazioni di fondo. A soddisfare tale specifica esigenza si incaricano i rettori di Verona che hanno consegnato il loro punto di vista nelle relazioni di fine mandato. Domenico Priuli conferma la ‘voglia di consiglio’ con queste parole: «Si trova in... (Verona) un'ambitione fra nobili per entrar nel Conseglio così grande, che maggior in alcun altro loco non ho inteso ve ne sij per grandissima dignità che si habbi a ottener, essendovi le parte (= fazioni) fra loro, andandosi a tempo che si ha da crear il nuovo Conseglio tutta la notte alle case con li amici et parenti, ballottando... et con tante altre cerimonie, che se si havesse da ottener ogni gran
Principato, poco più si potria far...»673 Essere consigliere comunale non equivaleva certo ad «ottener... gran Principato», eppure, a prescindere dalla componente ‘vanità’, certamente spingeva verso il ‘consiglio’ la possibilità di controllare l'economia cittadina nella compilazione dell'estimo e nell'assunzione di qualcuno dei molti incarichi che vi si distribuivano. Non va poi dimenticato che il ‘cursus honorum’ nella città natale era tanto più ambito essendo precluso ai nobili della Terraferma quello statale, con gravi ripercussioni anche sulle cariche ecclesiastiche, appannaggio dei patrizi veneti. Lo sottolinea il podestà Giulio Contarini nel 1606 osservando come i «primari cittadini come conti et altri titolati» non hanno «adito agl'honori né di prelatura né di militia in questo Stato, et sicome confessano nel resto esser felicissimi sudditi, così sentono grande amaritudine di non poter né per nobiltà di sangue né per eccellenza nelle lettere, né per esperienza o valore nelle armi conseguir di quelle dignità e di quegl'honori che lor pare di meritar, et vivono con opinione di essere
più tosto impediti che favoriti nella Corte di Roma quando alcun di loro è in stato di poter sperar
alcuna prelatura»674.
Riguardo «agl'honori di prelatura» va ricordato che fin dai giorni in cui si patteggiava la dedizione (1405) fu trattato questo argomento con una certa insistenza da parte dei veronesi, i quali avevano chiesto che Venezia interponesse i suoi buoni uffici presso il papa, perchè ai Veronesi fosse agevolata la possibilità della carriera ecclesiastica. La richiesta è sottintesa nell'ottavo capitolo della ‘bolla’ dove però si dice chiaramente che Venezia «de beneficiis ecclesiasticis se non
intromittit, quinimo dispositioni sanctissimi Domini nostri Papae et aliis Praelatis Ecclesiae dimittit,
illud quod requiritur super hoc promittere non possumus», anche se si offrono di sensibilizzare la
corte romana sulla legittima ambizione dei veronesi675. L'opera di sensibilizzazione promessa nel
1405 evidentemente non c'era stata o non aveva dato frutti, come ci conferma Giulio Contarini che nel 1606 raccoglie le rimostranze dei veronesi circa la loro esclusione dalle cariche ecclesiastiche.
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A.S.VR., Archivio Comune, reg. 89, cc. 180v-181v, citato da LANARO P., Un'oligarchia urbana nel
Cinquecento veneto. Istituzioni, economia, società, o.c., pp. 52-53.
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Relazioni dei Rettori Veneti in Terraferma, IX, Podestaria e Capitanato di Verona, o.c., p. 109 (capitano, Domenico Priuli, 27 settembre 1578).
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Relazioni dei Rettori Veneti in Terraferma, IX, Podestaria e Capitanato di Verona, o.c., pp. 173-174 (podestà, Giulio Contarini, 27 luglio 1606).
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Dicono infatti: "sed offerimus quod... Dominatio penes praefatum Dominum Papam ipsos Veronenses recommissos habebit". Statutorum Veronae libri quinque, Privilegia, o.c., "Privilegium a Bulla aurea", pp. 393-394.
Nella stessa Verona il vescovo fu quasi sempre veneziano perchè la Serenissima concedeva il proprio ‘placet’ soltanto a prelati di proprio gradimento che immancabilmente provenivano dalle fila del patriziato lagunare. Un esempio dell'indisponibilità veneziana ad accettare soluzioni diverse ci viene dal pontificato di Paolo IV. Tale papa alla morte di Agostino Lippomano (1559) aveva
designato come successore Marcantonio Da Mula, bocciato da Venezia676. Alla fine il papa, che
pure aveva insistito per due interi anni, lasciando scoperto il vescovado di Verona, dovette cedere al Senato veneziano rassegnandosi a designare un patrizio veneto, Girolamo Trevisan (1561-1562), un religioso dell'ordine di S. Domenico. Significativo era stato anche il caso di Ermolao Barbaro (il giovane), celebre umanista veneziano, che osò accettare la nomina a patriarca di Aquileia, senza il preventivo consenso del Senato; diffidato, non rimise più piede in patria, rimanendosene a Roma
dove morì nel 1493677.
Col tempo erano venute emergendo diverse situazioni capaci di condizionare e limitare la libertà di manovra dei nobili veronesi. Uno dei più gravi attacchi alla loro autonomia e indipendenza venne dalla figura degli “auditori”, una magistratura itinerante che Venezia aveva istituito per
«sollevare gli oppressi» della Terraferma678. Particolarmente attivi dopo gli anni della dominazione
imperiale, gli Auditori con la loro azione tornarono fin dal 1518 a dare ombra ai nobili consiglieri
che attraverso la consolaria amministravano la giustizia in città679. Nel 1529 il consiglio scaligero
ebbe a lamentarsi anche dell'operato di due “sindici inquisitori”, Giovanni Memo e Giacomo Barbo, colpevoli di agire come giudici di prima istanza in cause che esulavano dalle loro competenze. Verona chiese dunque la cassazione di tutte le sentenze emanate dai due inquisitori, senza trovare
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I Lippomano succedutisi sulla cattedra di S. Zeno sono quindi tre: - 1° Pietro Lippomano, dal 1544 al 1548, morì in Scozia il 9 luglio 1548;
- 2° Luigi Lippomano, dal 1548 al 1558. Il 20 luglio 1558 fu nominato vescovo di Bergamo. Rimase però a Roma dove morì il 15 agosto 1559, precedendo di 3 giorni papa Paolo IV che lo aveva voluto suo segretario; - 3° Agostino Lippomano: "era nipote e coadiutore da un anno dello zio Luigi". EDERLE GUGLIELMO,
Dizionario cronologico bio-bibliografico dei Vescovi di Verona, Verona, Vita Veronese, 1965, pp. 71-74.
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Per i veneziani Ermolao Barbaro, il vecchio e il giovane, si veda in questo lavoro il par. 3.9 "L'epistolario
di Matteo Bosso" del cap. III "La prima età veneziana tra poesia e storia".
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James S. Grubb parla di "appelli e petizioni che, come alcuni storici hanno recentemente sostenuto, Venezia incoraggiava per scavalcare le autonomie e i privilegi locali. Si può certamente interpretare in questo senso la creazione di strutture di appello, soprattutto la creazione nel 1410 degli Auditori Nuovi che avevano l'incarico di viaggiare per tutta la terraferma, di giudicare gli appelli meno importanti e di trasferire quelli più importanti a Venezia per il giudizio definitivo. Ricevevano anche domande di grazia o lagnanze di ingiustizia". JAMES S. GRUBB, Comune privilegiato e comune dei privilegiati, in "Storia di Vicenza", III/1, o.c., p. 55. Sugli Auditori Nuovi la bibliografia citata richiama: B. DUDAN, Sindacato d'oltremare e
di terraferma, Roma, 1935. Quindi COZZI G., La politica del diritto nella Repubblica di Venezia, in "Stato,
società e giustizia nella Repubblica Veneta (sec. XV-XVIII)", a cura di G. Cozzi, Roma, Jouvence, 1980; LOPEZ CEFERINO CARO, Gli auditori nuovi e il dominio di Terraferma, in "Stato, società e giustizia nella Repubblica Veneta (sec. XV-XVIII)", a cura di G. Cozzi, Roma, Jouvence, 1980, p. 259 ss.
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Sulle origini e funzioni degli "Auditori novi" Gaetano Cozzi scrive: "Era emblematico che nel 1437 si stabilisse che gli Auditori novi dovessero percorrere annualmente tutto il Dominio di Terraferma, con un compito che non era solo di dar audienza ai sudditi nelle cause civili d'appello, onde evitare che fossero sempre costretti a trasferirsi a Venezia per seguirne lo svolgimento, ma di raccogliere le lamentele contro 'estorsioni, violentie, manzarie, trabutamenti, over altri misfatti commessi per li spettabili Signori Podestà'. Il titolo attribuito a questi magistrati itineranti suonava chiaro: Auditori delle sentenzie, Avogadori,
Proveditori e Sindici generali di Terraferma. Quanto al cerimoniale, predisposto pure nel 1437, ordinava