3. La letteratura che guarda alla socialità degli stranier
3.4 Gruppi di connazional
Alcuni autori611 fanno notare rispetto alle aggregazioni di tipo etnico che, sebbene siano poche le ricerche che trattano tale tema, tuttavia sono state rilevate due modalità aggregative: i minori che frequentano i connazionali come membri di un nucleo familiare e quelli che li scelgono per stare in gruppi di coetanei.
Manca, però, la considerazione per un altro gruppo amicale. Favaro, infatti, precisa che a volte i ragazzi stranieri frequentano non solo i propri connazionali, ma anche altri immigrati, conosciuti al doposcuola e in attività extrascolastiche: con loro “sembra più facile stabilire dei legami sulla base della comune appartenenza o di esperienze condivise” che non con gli italiani612.
Bertozzi, comunque, descrivendo l’aggregazione tra connazionali, invita a distinguere le forme che possono essere frutto di una scelta (per recuperare elementi della cultura d’origine), da quelle che sono “l’esito di una non-scelta dovuta a processi di esclusione sociale”613, come nel caso dei giovani albanesi a Genova614: essi, infatti, si riuniscono su base etnica perché si sentono esclusi dalla società d’accoglienza.
Tuttavia tale distinzione appare troppo manichea e tralascia l’importante dimensione dell’agency. Gli immigrati, difatti, non sono vittime passive di discriminazione, ma davanti ad essa sanno reagire in varie forme615, magari attuando anche “pratiche di auto- esclusione mutue”. Allo stesso tempo, anche quei giovani che scelgono il gruppo per reazione all’esclusione, poi possono trasformare questa condizione e, ad esempio, nel caso dei giovani latinoamericani “si scoprono e si inventano latinos”, in un processo definito “etnogenesi” 616.
In una ricerca sugli studenti immigrati a Milano617, del resto, si è constatato e ben messo in luce che essi, lungi dall’essere travolti da conflitti culturali, sperimentano diverse strategie di gestione delle differenze, mostrando di avere molte “risorse”.
611 Bertozzi, 2004a op. cit; Rizzi E., 2007 I figli degli immigrati tra ethnic embeddedness ed integrazione. Relazione presentata al convegno “Seconde generazioni in Italia: presente e futuro dei processi di integrazione dei figli di immigrati”, Bologna 3 maggio 2007
612 Favaro, 2005 op. cit: 13 613 Bertozzi, 2004a op. cit: 130 614
Quadrelli, 2003 op. cit
615 Del resto sia in Rebughini (2004), sia in molte mie interviste si vede il tentativo dei giovani immigrati di soprassedere davanti a episodi di razzismo o anche di razionalizzarlo.
616 Queirolo Palmas, 2006 op. cit.: 140 617
Inoltre, come si è visto per gli immigrati adulti618, le cosiddette “reti etniche” presentano sia aspetti positivi, come un importante sostegno all’inclusione sociale e il controllo interno, sia negativi, quali problemi di potere, invidia e, in generale, di limitazione del rapporto con la nuova società. Quindi il gruppo etnico non va demonizzato: può essere un significativo strumento a disposizione degli adolescenti immigrati, così come può rivelarsi un difficile terreno di incontro e un ostacolo all’inclusione nella società italiana.
Se mai, vedere i giovani stranieri in gruppi, definiti dai ricercatori stessi619 “impenetrabili e co-etnici”, può aumentare la mancanza di fiducia e la percezione di pericolo da parte della società.
Si arriva così ad un importante nodo problematico: la posizione degli studiosi rispetto ai gruppi giovanili di immigrati. Infatti, benché il contributo curato da Queirolo Palmas e Torre si proponga di sottolineare la normalità diffusa, che si riscontra nelle pratiche di aggregazione spontanea, e voglia criticare la costruzione mediatica che, invece, presenta tali pratiche come l’espressione di “bande” giovanili, tuttavia mi pare che alcuni studi, in esso contenuti, invitino il lettore a considerare i gruppi omogenei per nazionalità come un potenziale pericolo. Ad esempio, secondo alcuni autori620 la necessità dei ragazzi immigrati di raggrupparsi tra connazionali (definita “regressione e chiusura”) va spiegata con il loro “spaesamento” e “il vuoto di identità”, che porta a “rimarcare l’esistenza di un noi, mettendo così in atto un meccanismo di difesa verso tutto ciò che nella società di arrivo è percepito come nuovo”. Tale posizione pare troppo netta ed estrema, perché utilizzando (e forse abusando di) termini psicologici finisce, da una parte, con l’impoverire le emozioni, i vissuti e le strategie difensive e di coping dei giovani e dall’altra con il rendere quasi patologico lo stato del migrante.
Sulla stessa linea di Valencia Leon e Flores, sembra muoversi Ambrosini621, che nella prefazione a Il fantasma delle bande si riferisce alle aggregazioni spontanee dei ragazzi stranieri come a una “condizione spesso sofferta, di esclusione e di separatezza, [che]
618 In Italia è stato studiato da La Rosaet al. (2003) e Bertolani (2003), invece in Gran Bretagna, Ballard (1990) ha studiato i sikh che vivevano in zone connotate da una concentrazione residenziale di connazionali e ha concluso che le reti nazionali sopperivano di fatto una carenza di servizi locali, ma avevano il rischio di restringere i contatti e limitare l’uso della lingua inglese.
619 Valencia Leon et al., 2005 op. cit: 137 620 Ibidem: 135-137
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può diventare l’anticamera della marginalità, oppure (e talvolta nello stesso tempo) dar luogo alla costruzione di nuove identità sociali…”
Inoltre, nel vedere in tali compagnie il segnale di “un deficit di integrazione sociale”, egli conferisce ai gruppi di pari stranieri un forte potere. Addirittura Ambrosini sembra considerare l’influenza di tali compagnie “etniche” superiore a quella che si manifesterebbe in gruppi di italiani, infatti parla di
“significati che vanno anche al di là dell’importanza che la rete amicale riveste generalmente per i giovani: il gruppo di amici non è solo il luogo in cui stare insieme, ma anche una risorsa da cui attingere modelli di comportamento, sostegno emotivo, conferma della propria identità, talvolta anche benefici materiali”622.
Sul gruppo dei pari tornerò in seguito, tuttavia mi limito a sottolineare un diffuso allarmismo e a notare che le funzioni del gruppo sembrano siano sì importanti, ma anche molto simili per autoctoni e stranieri. Come nota Wimmer623, infatti, le differenze culturali non sono così rilevanti nelle pratiche quotidiane e nella cultura dei pari, perché nella formazione dei gruppi entrano varie caratteristiche, quali la classe sociale, il genere e molti altri fattori.
Dunque, mi pare utile riflettere su una visione parziale che la letteratura italiana fornisce rispetto ai gruppi cosiddetti etnici: essa insiste molto sui rischi potenziali di tali aggregazioni, mentre non dà altrettanto spazio alle possibili implicazioni positive. Invece, meriterebbero maggiore attenzione tutti i ruoli che possono avere i connazionali624: ad esempio, essi, con lo stretto controllo sociale, che in genere attuano, e con la loro aspettativa di mostrarsi ed essere riconosciuti come brave persone, creano dei modelli di comportamento e così influenzano le strategie d’azione dei ragazzi. Quindi il gruppo etnico non ha solo effetti negativi e sottolineare o studiare solo questi, rischia di essere unilaterale e iniquo.
622
Ambrosini, 2005c op. cit.: 12
623 Wimmer A., 2004 Does ethnicity matter? Everyday group formation in three Swiss immigrant
neighbourhoods in “Ethnic and Racial Studies”, v. 27, n.1, pp.1-36
624 Zanuso R., 2003 Genitori e figli a confronto: la negazione dei valori tradizionali all’interno delle