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Il tentativo di Luigi

A cavallo tra XVI e XVII secolo gli Asburgo avevano provato a realizzare il proprio sogno di un Europa unita, un’impresa che aveva attraversato più generazioni ma che alla fine si era dovuta scontrare con la realtà dei fatti, una realtà composta da particolarismi ed eccezionalità che sembrava invalicabile. La Guerra dei Trent’anni e il suo risultato conclusivo sembravano voler chiudere definitivamente la porta a qualunque altra occasione. Il testimone venne tuttavia raccolto dalla Francia, e nello specifico dalla nuova dinastia regnante dei Borbone, che perseguirono l’idea, e quindi il tentativo egemonico, portato avanti dagli Asburgo fino a qualche decennio prima: quella di unificare il continente sul profilo politico e religioso, sotto la guida di una sola potenza dominatrice. Il nuovo tentativo fu portato avanti dal Re Sole, Luigi XIV. Il regno del re di Francia, durato dal 1643 al 1715, fu caratterizzato infatti da un forte dinamismo internazionale volto a imporre l’egemonia francese sull’Europa. A questo scopo il sovrano utilizzò i mezzi più disparati: oltre a una serie di guerre, il Re Sole non si faceva alcuno scrupolo nel praticare la corruzione a livello internazionale. Egli infatti comprò con generose somme di denaro l’alleanza di altri sovrani e corruppe numerosi parlamentari inglesi per influenzare la politica del suo principale avversario, l’Inghilterra. Fu proprio attraverso delle accorte manovre diplomatiche che sarebbe riuscito a porre suo nipote sul trono di Spagna e a governarla per qualche tempo attraverso continue ingerenze.

La sua epopea ebbe in realtà inizio nel 1661, quando a Parigi morì il cardinale Mazzarino48 e inaspettatamente il giovane Luigi XIV annunciò che avrebbe retto il paese da solo, senza aver più bisogno dell’aiuto di un ministro forte alle spalle. Andò di fatto a dividere in due l’amministrazione, affidando l’interno e le finanze a Jean-Baptiste Colbert e gli esteri, compresa la guerra, a Michel Le Tellier, e più tardi al figlio di quest’ultimo, François-Michel. Tanto

48 Cfr. G. Gullino, G. Muto, E. Stumpo, Il Mondo moderno. Manuale di storia per l’università, Monduzzi, Bologna 2007. Giulio Raimondo Mazzarino (Pescina, 14 luglio 1602 – Vincennes, 9 marzo 1661), fu un cardinale e politico italiano, prevalentemente attivo in Francia, servendo come ministro principale sotto il regno di Luigi XIV, succedendo al cardinale Richelieu e raccogliendo, in qualche modo, l’eredità di quest’ultimo.

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Colbert quanto i Le Tellier erano stati collaboratori e allievi di Mazzarino. Né l’uno né l’altro erano nobili o grandi signori: Colbert era addirittura figlio di un semplice mercante, mentre i Le Tellier erano esponenti di mediocre aristocrazia di toga. La monarchia assoluta cominciava infatti a ridurre sempre di più il potere e l’influenza della grande nobiltà, e poteva al tempo stesso innalzare elementi borghesi. Ciò non voleva dire appoggiarli sistematicamente, né tantomeno appoggiarvisi. Ancora meno fondare un supposto «assolutismo borghese», in competizione con l’altrettanto presunta «rivoluzione borghese» che si stava svolgendo in Inghilterra. L’assolutismo, di cui la Francia era un modello importante e contagioso, era il trionfo e la concretizzazione della cosiddetta «Ragion di Stato», ovvero di una politica razionale, finalizzata al benessere e allo sviluppo dei popoli, sottomessa alle regole della morale e non più necessariamente, o comunque non solo, al controllo della Chiesa, non negoziata esclusivamente fra i rappresentanti di elementi privilegiati, non in balia della volubilità delle fazioni, della fortuna, di fette di popolazione o di ceti dirigenti incostanti, né asservita alle ambizioni di un unico individuo, bensì prodotta da una solida burocrazia, da un apparato di professionisti capaci di eseguire creativamente e con competenza le direttive del sovrano.

Le Tellier e suo figlio riuscirono a rafforzare enormemente la potenza militare della Francia, creando un esercito permanente di duecentomila uomini. I confini e le città di frontiera furono fortificate con imponenti opere. Furono creati nuovi gradi intermedi, come quello di maggiore e di tenente colonnello, e uno superiore, di generale brigadiere, per ufficiali poveri ma capaci. Anche lo stato maggiore fu prontamente riorganizzato, e al suo interno vi spiccavano due fra i più importanti condottieri dell’epoca: Turenne49

e Condé50. La Francia, prima potenza europea, aggredì i possedimenti spagnoli delle Fiandre e della Franca Contea, rivendicando la «devoluzione» del patrimonio fiammingo della Spagna ai

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Cfr. Ivi. Henri de La Tour d'Auvergne-Bouillon, visconte di Turenne, noto anche col nome di Grand Turenne (Sedan, 11 settembre 1611 – Salzbach, 27 luglio 1675), è stato un noto generale francese, prima sotto Luigi XIII e poi con Luigi XIV.

50 Cfr. Ivi. Luigi II di Borbone-Condé (Parigi, 8 settembre 1621 – Fontainebleau, 11 novembre 1686) è stato un condottiero francese. Fu il quarto principe di Condé, forse il più noto rappresentante del ramo dei Condé della dinastia dei Borbone di Francia ed uno dei più abili combattenti e generali dell’epoca: le sue capacità in ambito militare gli valsero l'epiteto di Gran Condé, e fu considerato addirittura l'Alessandro Magno di Francia.

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soli figli di primo letto, come era previsto dalle consuetudini del Brabante51. Secondo quella norma, Maria Teresa d’Austria, moglie di Luigi XIV, avrebbe dovuto ereditare i Paesi Bassi al posto del fratellastro, il re di Spagna Carlo II, essendo l’unica figlia del primo matrimonio di Filippo IV. La questione della successione spagnola avrebbe in effetti occupato Luigi XIV per tutta la vita. Se i Borbone fossero riusciti, com’era nelle loro intenzioni, a unificare i troni di Parigi e Madrid, considerando anche il controllo dell’Italia e delle colonie americane, avrebbe potuto dunque pretendere l’egemonia in Europa, proprio come avevano fatto gli Asburgo. All’identità europea è mancata l’unità politica: Luigi XIV fece uno dei grandi tentativi per proporla, anche come modello economico, sociale e culturale, dandole Parigi per capitale.

Dopo la breve «guerra di devoluzione» del 1667, finita con un compromesso diplomatico, nel 1672 la Francia aggredì le Province Unite al fine di spezzare la loro supremazia marittima. I repubblicani olandesi di fede protestante, borghesi e commercianti come i puritani inglesi, erano i peggiori rivali del «re cristianissimo» francese, poiché erano portatori di un modello politico opposto al militarismo aristocratico assolutista. Approfittando della particolare conformazione territoriale, ovvero che una parte dei Paesi Bassi è sotto il livello del mare, gli olandesi riuscirono ad ostacolare l’invasione francese solo rompendo le dighe e distruggendo il lavoro di intere generazioni. Così facendo si salvarono, ma furono costretti a ripristinare il ruolo di Staathouder per Guglielmo III e a rafforzare il peso della famiglia d’Orange nel loro ordinamento. Alla lunga si erano avviati verso un sistema tendenzialmente monarchico. Il 1672 fu definito come «l’anno dei miracoli», perché erano riusciti a fermare quello che era considerato come l’esercito più potente d’Europa. Alla fine la crisi delle Province Unite si concluse con un compromesso, e nulla di sostanziale cambiò, ma il

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Cfr. P.R. Campbell, Luigi XIV e la Francia del suo tempo, Il Mulino, Bologna 1997. Quando Filippo morì nel 1665, gli avvocati di Luigi giustificarono le possibili rivendicazioni del monarca francese asserendo che, mentre per la legge di successione spagnola il trono doveva passare al figlio di Filippo, Carlo II, le antiche leggi del Ducato di Brabante (il cui territorio è attualmente diviso tra Belgio e Olanda) sancivano che i Paesi Bassi spagnoli dovevano essere «devoluti» in base all'emendamento (ius devolutionis) solo ai figli di primo letto di Filippo, la cui unica superstite rimaneva Maria Teresa. In base a questo emendamento infatti solo i figli di primo letto erano legittimi eredi dei beni paterni.

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modello oligarchico precedentemente adottato di istituzioni repubblicane fatte di pesi e contrappesi aveva cominciato a incrinarsi.

Francia, Inghilterra e Olanda erano diventate il triangolo della sperimentazione politica e istituzionale, fra monarchia assoluta e bilanciamenti repubblicani; erano inoltre capitali del commercio internazionale e del «mercantilismo». Colbert, il «Controllore generale delle finanze» è passato alla storia come il più coerente artefice della politica economica mercantilista, che in Francia era definita «colbertista», cioè dell’applicazione della ragion di Stato all’economia: una dottrina che corrispondeva agli sforzi di centralizzazione dello Stato e che ovviamente si sposava bene con l’assolutismo, ma altrettanto con l’ordinamento monarchico limitato, o addirittura repubblicano, come a Londra o ad Amsterdam. Nel Seicento si riteneva costante la popolazione, quindi la domanda globale, e di conseguenza la produzione agricola e quella manifatturiera, il volume dei commerci internazionali, il numero di navi in circolazione fra un porto e l’altro, per un totale di ventimila in tutto il continente, secondo le stime di Colbert. Costante era anche l’argento che rappresentava in termini monetari il valore di merci e servizi, dato che dall’America ne arrivava ormai poco. Nessuno di questi fattori ormai cresceva più come nel secolo precedente: per il momento dunque lo sforzo di ogni paese poteva essere solo quello di ritagliarsi la fetta maggiore di una torta dalle dimensioni invariabili, ma proprio in quest’ottica era ovvio che più si cercava di ingrandire la propria parte, più la cosa finiva per danneggiare i propri vicini. Sembrava in ogni caso essere l’unica strada, e per questo si doveva pensare ad una politica estera aggressiva, e mettere sempre in conto l’eventualità della guerra. Era necessario aumentare le entrate fiscali per poter finanziare questa politica di potenza, perseguire la ragion di Stato finalizzata al benessere dei sudditi (ma pur sempre a scapito degli altri), favorire all’interno dei propri confini uno sviluppo competitivo nei confronti dei paesi esteri. Secondo la politica economica mercantilista bisognava piuttosto creare questo sviluppo, governandolo in maniera pianificata. In particolar modo bisognava cercare di accaparrarsi il monopolio del commercio estero e dei traffici coloniali, aumentare le esportazioni e diminuire le importazioni, così da incrementare la quantità di moneta circolante all’interno, e realizzare tale estensione fuori d’Europa, dove

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c’era spazio nuovo per crescere, per popolare terre, per creare ricchezza. A tal proposito, furono sistematicamente incoraggiare le compagnie di imprenditori del grande commercio internazionale, dotate di statuti e privilegi che riconoscevano il monopolio dei relativi traffici, in alcuni casi addirittura il governo dei territori oltremare. Il mercantilismo protezionista e aggressivo stava così per trasformare gli oceani del mondo in un teatro della guerra europea.

Gli olandesi detenevano all’epoca più della metà del commercio internazionale, e quindi delle ventimila navi in navigazione fra i porti europei. Londra e Parigi a loro volta avevano dovuto allargare le loro quote: avevano imposto tariffe doganali, legislazioni commerciali e sorveglianze sui porti, che colpivano gli interessi dei rivali. A causa di questi sviluppi, il passo successivo sarebbe stato inesorabilmente la guerra. L’idea mercantilista era “pessimista riguardo alle capacità creative e di autoregolazione del mercato come principio, e favorevole pertanto alle istituzioni che regolano e che sorvegliano l’economia: la produzione e il mercato come luogo in cui avvengono gli scambi. In Francia finanziamenti a fondo perduto e prestiti agevolati furono concessi ai poli manifatturieri in costruzione, per i settori produttivi per i quali il regno dipendeva dall’estero: le tappezzerie e la seta, per esempio. Meno importazioni avrebbero prodotto un attivo della bilancia commerciale, avrebbero assicurato una quota maggiore del denaro circolante in Europa. Più produzione avrebbe dato maggiore gettito fiscale”52

. In fin dei conti, i risultati economici della politica mercantilista non furono particolarmente spettacolari o soddisfacenti, ma diedero vita ad uno sviluppo importante. Essa gettò infatti un seme che crebbe in fretta, un principio che mise salde radici in Europa e che avrebbe dominato fino all’avvento del liberismo: che allo Stato toccasse controllare ogni aspetto della vita economica, e quindi la produzione, le quantità, le qualità e i prezzi, in maniera diretta con i suoi funzionari o con la concessione di licenze, o indirettamente attraverso le corporazioni, le compagnie privilegiate di mercanti.

Nel frattempo la politica di Luigi era in piena attuazione. Venne edificata l’immensa reggia di Versailles, dove il re si trasferì nel 1682, con centinaia di famiglie dell’alta nobiltà, rese politicamente inoffensive dai debiti che venivano

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ripianati dal sovrano, e invitate o costrette ad una vita dorata, rigidamente governata dall’etichetta. Vi si celebrava quasi il culto dello stesso Luigi XIV, paragonato ad Apollo: il Re Sole appunto. Si faceva la migliore musica, il miglior teatro, vi si produceva la più alta cultura, imbevuta di classicismo, per la gloria del monarca. I cortigiani erano ammessi al risveglio, alla toilette, ai momenti più intimi e corporali di un re la cui vita privata era data in spettacolo, la cui personalità si identificava con la sfera del pubblico: un monarca divinizzato ai limiti della blasfemia. Ma questa rappresentazione costava cara, in termini di lusso, di mantenimento dell’intera corte e sterilizzazione dell’opposizione con prestiti e pensioni, in aggiunta ovviamente alle spese militari. Colbert aveva fatto del suo meglio per incrementare le entrate, ma il deficit dello Stato cominciò a crescere, soprattutto dopo la sua morte. Un altro episodio decisivo intervenne quando nel 1685 fu abolito l’editto di Nantes e migliaia di ugonotti, costretti alla conversione o perseguitati, lasciarono il paese portando però via con sé competenze ed entrate fiscali. Erano le ovvie contraddizioni e i pericoli derivati dall’assolutismo: al momento del suo massimo splendore, Luigi XIV stava ormai imprimendo alla politica interna una direzione negativa, in rapporto allo sforzo di sviluppare le risorse del paese. Indicativo di questo è la famosa espressione che gli viene notoriamente attribuita: non si sa ovviamente se Luigi l’abbia davvero pronunciata, ma tale espressione è diventata ugualmente celebre quando, da giovane, dopo la Fronda, si presentò in Lit de justice53, con abbigliamento notevolmente irrituale e irriguardoso per partecipare alla seduta, e al presidente del Parlamento che si appellava all’interesse dello Stato, avrebbe prontamente risposto: «lo Stato sono io». L’idea assolutista della monarchia francese era che tutta l’iniziativa legislativa, giudiziaria, amministrativa dovesse muovere solo dal monarca. Ai parlamenti e alle altre corti, con sempre meno potere, fu sospeso il diritto di rimostranza.

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Cfr. P.R. Campbell, Luigi XIV e la Francia del suo tempo, Il Mulino, Bologna 1997. Nel periodo precedente la Rivoluzione francese il Lit de justice (Letto di giustizia) era la seduta eccezionale di un parlamento, presieduta dal re di Francia, nella quale quest'ultimo aveva facoltà di superare l'opposizione dello stesso parlamento ad un atto legislativo o normativo, imponendone la registrazione e quindi la validità con il ricorso al proprio potere assoluto. Era una procedura molto rara, adottata quando il re riteneva che l'interesse della Francia prevalesse sulla autorità parlamentare.

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A seguito delle guerre contro Spagna e Olanda, la Francia aveva esteso il proprio territorio in direzione nord-est, raggiungendo esattamente le frontiere di oggi, e in particolare l’area del Reno con l’acquisizione della città Strasburgo e dei territori dell’Alsazia, scavalcando il Ducato di Lorena che era ancora autonomo. In tal modo la Francia arrivò a minacciare direttamente l’Impero, che reagì a propria volta con un’alleanza con la Spagna, firmata ad Augusta, discretamente appoggiata anche dallo Stato pontificio e dalle Province Unite di Guglielmo III, che sarebbe presto diventato anche re d’Inghilterra; tale alleanza contribuiva a completare l’isolamento sul piano internazionale di Luigi XIV. Ciononostante, il Re Sole era ancora in grado di tenere testa a tutte le altre potenze europee messe insieme: possedeva imponenti risorse finanziarie e militari, e la Francia restava il paese europeo più grande e popoloso. La successiva guerra, detta della «Lega di Augusta», ebbe inizio nel 1688, pochi mesi prima della «Gloriosa Rivoluzione» inglese, tramite la quale Giacomo II venne scacciato da Londra (rifugiandosi poi a Parigi) e venne incoronato al suo posto lo staathouder d’Olanda, Guglielmo III. La Francia riuscì a resistere al terribile assalto di un’Europa interamente coalizzata, cercando anche di invadere l’Inghilterra dall’Irlanda cattolica, per riportare gli Stuart sul trono. Ma non fu in grado di vincere, per quanto avesse raggiunto l’apice della propria potenza. Cominciava ad accumulare una serie di chiusure e di errori politici. In aggiunta a ciò, i suoi nemici potevano contare su importanti personalità impegnate sul campo di battaglia, come ad esempio il principe Eugenio di Savoia54.

In definitiva la guerra si concluse con un nulla di fatto, anche se non poteva dirsi completamente esaurita. Riprese infatti pochi anni dopo, con un nuovo nome, in uno scenario diverso e con un differente obiettivo, il trono di

54 Cfr. G. Gullino, G. Muto, E. Stumpo, Il Mondo moderno. Manuale di storia per l’università, Monduzzi, Bologna 2007. Eugenio di Savoia, noto soprattutto come Principe Eugenio (Parigi, 18 ottobre 1663 – Vienna, 21 aprile 1736), fu un condottiero e generale italiano naturalizzato austriaco, al servizio del Sacro Romano Impero. Benché fosse un rampollo della famiglia dei Savoia-Soissons, militò giovanissimo al servizio degli Asburgo ed intraprese la carriera militare divenendo ben presto comandante dell'esercito imperiale. Viene solitamente considerato come l'ultimo dei capitani di ventura. Fu uno dei migliori strateghi del suo tempo e con le sue vittorie e la sua opera politica assicurò agli Asburgo e all'Austria la possibilità di imporsi in Italia e nell'Europa centrale e orientale. Per le sue imprese, soprattutto per la Battaglia di Belgrado, gli venne dedicata la Prinz Eugen Marsch, un canto popolare in suo onore.

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Spagna. Alla morte senza figli del precedente monarca spagnolo, Carlo II55, questi aveva nominato suo erede Filippo56, duca d’Angiò, nipote di Luigi XIV, ma a condizione che rinunciasse alla successione al trono francese. Filippo V si insediò dunque a Madrid come nuovo re di Spagna. Tuttavia l’imperatore Leopoldo I57

si trovava in una situazione simile a quella della famiglia del re di Francia in rapporto ai diritti che poteva avanzare su quel trono, essendo stato marito di un’altra sorella di Carlo II, Margherita Teresa. Avanzò dunque le proprie pretese per il suo secondogenito, l’arciduca Carlo, mentre il primogenito sarebbe diventato poi nuovo imperatore come Giuseppe I, pur regnando pochi anni. A quel punto l’Austria mise in piedi una nuova coalizione con Inghilterra e Olanda, oltre ad alleati minori quali l’elettore di Baviera e il duca di Savoia. Così nel 1702 scoppiò la guerra di «Successione spagnola», che si sarebbe conclusa undici anni più tardi, vedendo la Francia nuovamente sola contro tutte le principali potenze del continente (tranne una Spagna ormai completamente indebolita) a giocarsi le ultime possibilità per imporre una vera e propria egemonia in Europa. Durante gli anni della guerra, almeno per qualche tempo, ci furono ben due sovrani in Spagna: il nipote del Re Sole Filippo V, insediato a Madrid quale legittimo sovrano, mentre contro di lui, insediato a Barcellona sotto occupazione inglese, Carlo III d’Asburgo, secondogenito dell’imperatore. Nel giro di qualche tempo la Francia non fu più in grado di tenere testa ai propri avversari. Gli inglesi si rivelarono in tal senso gli avversari peggiori, in grado di annullare le ambizioni di Luigi: essi avevano concluso un trattato con il Portogallo, occupato la Catalogna e l’isola di Minorca, per poi prendere poco dopo la rocca di Gibilterra. Il principe Eugenio, nel frattempo, portò gli imperiali alla vittoria in Germania, in Piemonte e nelle

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Cfr. Ivi. Carlo II d'Asburgo (Madrid, 6 novembre 1661 – Madrid, primo novembre 1700), soprannominato Carlo «lo Stregato», fu l'ultimo Asburgo di Spagna. Fu segnato per tutta la vita da pessime condizioni di salute, condite da frequenti emicranie, influenze e attacchi di epilessia, che gli valsero il soprannome di «el Hechizado», appunto lo Stregato.

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Cfr. Ivi. Il duca d’Angiò Filippo, in seguito noto come Filippo V di Borbone (Versailles, 19 dicembre 1683 – Madrid, 9 luglio 1746) fu il primo re di Spagna della dinastia dei Borbone. Era infatti nipote del re Luigi XIV di Francia e salì al trono di Spagna perché sua nonna, la regina Maria Teresa, moglie del Re Sole, era figlia di primo letto di Filippo IV di Spagna e sorellastra dell'ultimo re spagnolo della dinastia degli Asburgo, Carlo II di Spagna.

57 Cfr. Ivi. Leopoldo I d'Asburgo (Vienna, 9 giugno 1640 – Vienna, 5 maggio 1705) fu Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1658 fino alla sua morte, impegnato durante i suoi ultimi anni di