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Integrazione senza unità

L’identità culturale europea: il rapporto problematico tra unità e differenze

4. L’evoluzione dell’Europa contemporanea e della sua identità

4.4 Integrazione senza unità

Il bilancio del processo di integrazione europea, in corso ormai da più di mezzo secolo, appare così intrinsecamente contraddittorio. Dopo il 1945, ma soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, l’Europa ha conosciuto un periodo di

180 Cfr. V. De Grazia, Irresistible empire. America’s advance through twentieth-century Europe, Harvard University Press, Cambridge 2005, oppure D.W. Ellwood, The shock of America: Europe

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pace che ha consentito di sanare, in larga misura, le ferite di un trentennio di guerre, di regimi totalitari e di conflitti all’interno delle stesse comunità nazionali. Ciò ha reso possibile una crescita economica senza pari che ne ha trasformato la struttura sociale, riuscendo anche a creare un modello di redistribuzione della ricchezza che, attraverso un saggio impiego dello strumento fiscale, ha favorito l’integrazione della classe operaia e, in generale, dei ceti più poveri. Gli Stati europei hanno dato vita ad un sistema che ha garantito l’assistenza sanitaria e il pagamento delle pensioni, contribuendo ad attutire il peso e le conseguenze delle ricorrenti crisi industriali e finanziarie. È ovvio che nessun modello è perfetto, e quello europeo non fa eccezione sotto questo punto di vista. Tale modello sociale ha rivelato infatti, con il passare del tempo, tutti i suoi limiti intrinseci: soprattutto il suo onere è diventato sempre più difficile da sopportare quando lo sviluppo tecnologico ha drasticamente diminuito il bisogno di manodopera industriale e quando il netto miglioramento dei livelli della salute e della vita media ha inevitabilmente accresciuto il numero e il peso economico della popolazione anziana. Indipendentemente dagli interessi degli Stati nazionali, il welfare state ha rappresentato per oltre mezzo secolo un elemento tipico della società europea. E forse non è un caso che la sua crisi si accompagna, in un complesso intreccio di relazioni, alla progressiva perdita di competitività dell’economia europea nei confronti di quella degli Stati Uniti o di quella dei paesi emergenti dell’Estremo Oriente e del sub-continente indiano.

Al di là delle differenze che ancora sussistono, l’Europa ha comunque conosciuto un processo di graduale avvicinamento tra i diversi paesi, fattore che ha inciso profondamente sulle abitudini di vita e sui costumi. Nel corso di circa mezzo secolo prima il settore secondario e in seguito l’imponente sviluppo del settore terziario hanno scalzato il tradizionale predominio dell’agricoltura, ridotta gradualmente a elemento marginale, sia in termini di reddito che di numero di addetti. Soprattutto nel corso del primo ventennio successivo alle guerre le vaste correnti migratorie provenienti dal sud e dall’est dell’Europa, che prima si dirigevano oltre l’Atlantico, sono state attratte dalle aree europee di maggiore sviluppo industriale, come la Renania e l’Italia settentrionale, dove i lavoratori immigrati sono stati gradualmente assimilati, favorendo un vasto processo di

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integrazione. Anche il Sessantotto, sotto questo punto di vista, ha rappresentato un fenomeno «europeo» in grado di accelerare la trasformazione dei costumi, in primo luogo di quelli sessuali, e ha contribuito a uniformarli: si è diffusa una cultura di massa, la quale si è rapidamente sovrapposta alla cultura trasmessa dalle istituzioni scolastiche e l’ha largamente svuotata del suo ruolo tradizionale. Ovviamente anche in questo caso c’è l’altra faccia della medaglia. Uniformazione, infatti, non vuol dire affatto unità, ma è in larga misura una copertura superficiale che nasconde la permanenza di vecchi contrasti e l’emergere di nuovi. Ciò riguarda, in primo luogo, la struttura interna delle varie formazioni statali, poiché l’Europa comprende da una parte Stati federali, dall’altra Stati dalla forte tradizione centralistica. Particolarmente grave è l’assenza di una linea comune da adottare di fronte ai mutamenti in atto su scala globale, mutamenti di vastissima portata. Pensiamo ad esempio al fatto che, nei quindici anni trascorsi dalla fine della Guerra Fredda, si è venuta progressivamente indebolendo la solidarietà atlantica che legava i paesi dell’Europa centro-occidentale agli Stati Uniti. La fine, tanto improvvisa quanto sotto diversi aspetti inaspettata, del confronto tra il blocco sovietico e l’Occidente non lasciava certamente dubbi su chi, tra i due, alla fine avesse trionfato, ma al tempo stesso vedeva un fronte, quello occidentale, diviso ed esitante. La superpotenza americana, che era servita come scudo nei confronti dell’Unione Sovietica, è stata sempre più percepita come un elemento estraneo, se non come un vero e proprio nemico, dello «spirito» europeo181. Gli interessi degli Stati Uniti, che ormai spaziavano in ogni angolo del globo, apparivano sempre più lontani all’Europa. E, come osservato già nel precedente paragrafo, proprio la valutazione «storica» dell’alleato americano si è trasformata,

181 In realtà già prima del 1989 gli Stati Uniti avevano assunto con il tempo un vero e proprio ruolo imperiale, un ruolo che era stato proprio, nel corso del secolo scorso, delle potenze coloniali europee. Gli Stati Uniti si erano ormai lasciati alle spalle la discutibile dottrina di Monroe, andando a creare una fitta rete di alleanze e stabilendo basi militari in diverse aree del globo. Paradossalmente, dunque, quella che in passato era stata una caratteristica principalmente europea non sembrava accettabile a dei paesi che non erano più in grado di attuarla. Per cui, come si diceva sopra, quando la minaccia sovietica cominciò ad attenuarsi, si venne a creare una divergenza tra Europa e America, il cui punto decisivo fu la guerra del Vietnam, percepita come una guerra imperialistica. Per approfondire l’evoluzione dei rapporti tra i paesi europei e gli Stati Uniti d’America nel corso del XX secolo si veda D.W. Ellwood, The shock of America: Europe and the

challenge of the century, Oxford University Press, Oxford 2012, oppure V. De Grazia, Irresistible empire: America’s advance through twentieth-century Europe, Harvard University Press,

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dopo l’11 settembre, in un terreno di scontro tra i diversi paesi europei, alcuni dei quali, come la Gran Bretagna, hanno condiviso tale politica, mentre altri, come la Francia e la Germania, si sono dissociati dall’intervento militare in Iraq, rifiutando il ricorso alla forza come reazione al terrorismo islamico. Torniamo così al discorso di prima, ovvero alla mancanza di una linea comune che i vari Stati membri dell’Unione possano adottare di fronte ad eventi, e di conseguenza a decisioni, di vasta portata, come lo scendere o meno in guerra accanto ad un alleato che, per certi aspetti, non poteva essere più considerato come prima.

All’Unione europea è mancato fino ad ora, e al di sopra di tutto, il legame rappresentato dall’appartenenza ad una comunità statale, del tipo di quello che era alla base dello Stato nazionale. Le è mancato, nonostante i tentativi compiuti in questo senso, un sistema di governo e giuridico comune, surrogato, nella maggior parte dei casi, da accordi di portata più o meno limitata che richiedevano il più delle volte il lungo cammino della ratifica dei singoli parlamenti nazionali. I poteri dello stesso Parlamento europeo sono stati a lungo compressi e subordinati alle competenze di altri organismi comunitari. In effetti “l’«Europa delle patrie» di stampo gollista si è dimostrata, tutto sommato, più resistente dei progetti federativi avanzati fin dal 1945”182

. Questo stato di cose ha però anche motivazioni culturali molto profonde: tutte le volte che negli ultimi secoli la cultura europea ha assunto anche una valenza politica, lo ha fatto richiamandosi al passato dei singoli popoli, presentandosi cioè sotto forma di cultura nazionale. Anche quando essa ha assunto un respiro più ampio, il richiamo alla civiltà europea è stato declinato in chiave di primato nazionale, o privilegiando il contributo di una singola nazione rispetto alle altre. L’eredità cosmopolitica dell’Illuminismo settecentesco si è così consumata, e sembra arduo riportarla in vita in un’epoca che viva una forte crisi economica e che assiste sempre di più al ritorno delle religioni, ma anche dell’elemento etnico, come principale strumento di definizione delle comunità, e sulla quale incombe il fantasma del conflitto tra le civiltà.

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