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La strada verso l’integrazione tra impegni e difficoltà

L’identità culturale europea: il rapporto problematico tra unità e differenze

4. L’evoluzione dell’Europa contemporanea e della sua identità

4.1 La strada verso l’integrazione tra impegni e difficoltà

Nel 1945, alla fine della Seconda guerra mondiale, quasi tutti i paesi europei uscirono devastati dal conflitto e dovettero affrontare un duro processo di ricostruzione, materiale ma anche morale. Le potenze vincitrici si impegnarono a far sì che non si ripetesse la situazione che aveva condotto, a distanza di una ventina d’anni, a una nuova guerra mondiale, e imposero alla Germania non solo un rigoroso disarmo, ma anche un regime di occupazione che durò per alcuni decenni. Ben presto, poi, la nuova politica dei blocchi fece sì che i due Stati si incamminassero su strade diverse, in una permanente ostilità destinata ad attenuarsi soltanto negli anni Settanta e Ottanta, in seguito alla Ostpolitik160 dei governi socialdemocratici andati al potere nella Germania federale. Qui il processo di ricostruzione, reso possibile dai massicci aiuti americani, si accompagnò alla graduale cancellazione del passato, sia di quello più remoto dell’ufficio imperiale di Bismarck sia di quello, ben più tragico, del regime nazista.

Se la situazione della Germania fu quella della maggior potenza continentale sottoposta a una lunga tutela che doveva garantire l’edificazione di una nuova società democratica, molti altri paesi uscivano dal conflitto in condizioni non molto migliori. Era proprio il caso, ad esempio, della Francia e dell’Italia, che allo stesso modo dovettero impegnarsi nell’opera di ricostruzione di case e di apparati industriali distrutti, nella ripresa economica e anche nel

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Con il termine tedesco Ostpolitik si definisce in realtà la politica di normalizzazione e di distensione dei rapporti con la Repubblica Democratica Tedesca (DDR) e con gli altri paesi facenti parte del blocco socialista perseguita da Willy Brandt, cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, a partire dall’inizio degli anni Settanta. Si rivelò una mossa di fondamentale importanza per garantire il riavvicinamento progressivo tra le due parti della Germania divisa, e per la quale lo stesso Brandt ottenne il Premio Nobel per la Pace nel 1971. Per la storia e l’evoluzione delle relazioni internazionali nel corso del XX secolo si veda J. Ikenberry, V.E. Parsi, Manuale di

relazioni internazionali. Dal sistema bipolare all’età globale, Laterza, Roma-Bari 2009, oppure

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recupero della coscienza nazionale. Per la Francia De Gaulle era stato un punto di riferimento nella continuazione della lotta all’invasore, certamente ben più saldo della monarchia sabauda in fuga. Ma in entrambi i casi, come per la Germania, c’era un passato da cancellare: da una parte il governo di Vichy e la sua complicità con le truppe di occupazione, dall’altra il ventennio fascista161

. Tra Francia e Italia c’era poi un’ulteriore somiglianza: la presenza di un forte partito comunista e, al suo fianco, di una cultura schierata in larga parte a sinistra che guardava all’Unione Sovietica con ammirazione e simpatia, o quantomeno con indulgenza, in particolare dopo il XX Congresso e il rapporto Chruščёv162, di fronte alla denuncia dei crimini del regime staliniano. La conferenza di Jalta, comunque, garantì il permanere della Francia e dell’Italia nell’area occidentale senza che lo scontro politico interno si traducesse in una guerra civile vera e propria, a differenza di quanto avvenne per la Grecia, dove l’iniziale collaborazione tra le forze partigiane e le truppe alleate sbarcate per liberare il paese dall’occupazione tedesca si trasformò ben presto in contrasto aperto. Il partito comunista greco imboccò la via della lotta armata e la sua sconfitta nel 1949 lasciò in eredità prima una serie di governi autoritari e poi ancora, dal 1967 al 1974, la dittatura dei colonnelli163. La Grecia conobbe così una lunga stagione

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Cfr. E. Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, Il Mulino, Bologna 2008. Al mito gollista della guerra in difesa della Francia, che doveva proseguire anche al di fuori dei confini nazionali, faceva riscontro similmente in Italia il mito della Resistenza partigiana, vista come un «secondo Risorgimento», che non riconosceva, né voleva riconoscere, i numerosi elementi di continuità tra il regime fascista e il sistema politico che nacque in seguito.

162 Il XX Congresso del Partito Comunista dell'Unione Sovietica si svolse dal 14 al 26 febbraio del 1956. L’importanza particolare di questo congresso risiede nel fatto che, durante l'occasione, il segretario generale del partito Nikita Chruščëv, con il suo celebre rapporto segreto, denunciò le violenze, le morti attraverso le purghe e le numerose limitazioni alla libertà imposte dal precedente regime di Stalin. Il rapporto verteva in particolare sulle epurazioni compiute da Stalin, dopo il 1934, nei confronti di membri del partito considerati innocenti, sulle divergenze tra Stalin e Lenin, sul modo in cui aveva edificato il culto della sua persona e sugli errori da lui compiuti nella conduzione della guerra con la Germania. Il congresso fu in effetti molto importante anche perché esso fu l'evento che determinò la divisione del campo comunista internazionale tra i filosovietici e i filocinesi ispirati da Mao, che difesero Stalin e accusarono Chruščëv di revisionismo. Per una migliore analisi dei temi principali della storia europea contemporanea del XX secolo si veda A.M. Banti, L’età contemporanea, vol. II, Dalla grande guerra a oggi, Laterza, Roma-Bari 2009. 163 La Dittatura dei colonnelli, nota anche come la Giunta militare, è un periodo della storia greca contemporanea molto turbolento, compreso tra il 21 aprile 1967 e il 24 luglio 1974, ovvero quando la Grecia si ritrovò ad essere controllata da una serie di governi militari anticomunisti, saliti al potere in seguito ad un colpo di Stato guidato dai colonnelli Georgios Papadopoulos, Nikolaos Makarezos e Ioannis Ladas e avallato, suo malgrado, dall’allora sovrano greco Costantino II. Ancora, per approfondire i temi della storia più recente, si veda A.M. Banti, L’età contemporanea, vol. II, Dalla grande guerra a oggi, Laterza, Roma-Bari 2009.

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di instabilità che fu di impedimento alla crescita economica e che andò a generare una serie di problemi che, ancora oggi, fanno sentire tutto il loro peso. Nell’Europa orientale, che aveva subito l’occupazione tedesca, e con essa la distruzione dei ghetti e lo sterminio degli ebrei, la fine della guerra segnò in realtà soltanto il passaggio sotto un nuovo dominio straniero. Gli Stati esistenti nel 1939 furono liberati ma ben presto trasformati in strutture politiche sul modello sovietico, cioè in cosiddette «democrazie popolari». I tentativi di trasformazione in senso liberal-democratico, o anche in forme di comunismo svincolate dall’egemonia dello Stato-guida sovietico, ebbero come risposta l’intervento militare sovietico e furono stroncati dalla forza preponderante dell’Armata Rossa. A questa diversità di situazioni e di problemi si aggiungeva un altro fattore che agiva in senso destabilizzante tra i vari paesi, il processo di decolonizzazione. Ancora una volta all’interno di questo processo possiamo riscontrare un caso emblematico, rappresentato stavolta dalla Gran Bretagna: indotta a più miti consigli, forse perché memore della lezione subita all’epoca della rivoluzione americana, l’Inghilterra rinunciò al proprio impero coloniale in cambio del mantenimento in vita di una comunità di popoli, il Commonwealth164, che si estendeva dal Canada all’Australia, una comunità che era venuta in aiuto della patria nel corso delle due guerre mondiali. E ne fu ricompensata con rapporti politici ed economici privilegiati che sopravvissero a lungo, e che essa coltivò spesso a preferenza di quelli con gli Stati dell’Europa continentale. Al processo di costruzione dell’identità europea, dunque, e in particolar modo all’asse franco- tedesco sul quale si fondava, la Gran Bretagna rimase sostanzialmente estranea. Ciò rispondeva, del resto, a una tendenza plurisecolare della politica inglese, la quale aveva sempre cercato di garantire l’equilibrio tra gli Stati continentali schierandosi contro i vari tentativi di egemonia, nel passato come nel presente.

164 Il Commonwealth, noto per esteso come Commonwealth delle nazioni, è un’organizzazione intergovernativa, arrivata a contare, con il passare del tempo, ben cinquantaquattro paesi membri, precedentemente facenti parte dell’impero britannico, o per meglio dire del suo ex impero coloniale, del quale rappresenta in effetti una sorta di sviluppo su base volontaria. La nascita del Commonwealth ha apportato enormi benefici alla Gran Bretagna, così come a molti dei suoi membri: dando vita a collegamenti storici e culturali significativi tra paesi avanzati e nazioni più povere, con tradizioni sociali e religiose differenti, ha creato unità di lingua, di letteratura, di legge e dei sistemi di amministrazione di origine britannica. Per la storia e l’evoluzione delle relazioni internazionali nel corso del XX secolo si veda J. Ikenberry, V.E. Parsi, Manuale di relazioni

internazionali. Dal sistema bipolare all’età globale, Laterza, Roma-Bari 2009, oppure M.

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Il processo di decolonizzazione ebbe come esito dunque il ripiegamento su se stessa di un’Europa sconvolta dai due conflitti mondiali. Al di là delle divisioni, tutti i paesi europei uscivano dal conflitto con un bilancio negativo. Lo scenario internazionale era dominato da due potenze imperiali, Stati Uniti e Unione Sovietica, dalla loro rivalità ideologica e da una nuova, terribile guerra, per quanto non combattuta apertamente. Nei loro confronti i paesi europei erano militarmente inferiori e completamente impreparati: la fine della guerra comportò d’altra parte una rapida smobilitazione e un cospicuo trasferimento di risorse dalle industrie belliche allo sforzo di ricostruzione. Né i popoli dell’Europa centro- occidentale erano disposti a partecipare a nuovi conflitti, forse neppure per salvaguardare la propria libertà: di fronte alla minaccia sovietica essi dunque decisero di affidare questo compito alla superpotenza americana e al deterrente nucleare di cui essa disponeva. La rinuncia alla guerra e il diffuso pacifismo furono l’ovvia risposta agli orrori e alle rovine che l’Europa, suo malgrado, aveva scatenato su di sé.

La liberazione dell’Europa dal nazismo valse a consolidare la «solidarietà anglosassone», che aveva già avuto un ruolo decisivo nella prima guerra mondiale, solidarietà che si trasformò, anzi si estese tra le due sponde dell’Atlantico. L’Alleanza atlantica165

che nacque lungo questa scia non fu soltanto un’alleanza militare, poiché contribuì anche a rafforzare i legami politici e i rapporti economici tra i paesi che ne facevano parte, cancellando il ricordo dei vecchi conflitti intra-europei. Questi rapporti avevano però, almeno tendenzialmente, un carattere bilaterale: erano rapporti dei diversi paesi europei, singolarmente presi, con gli Stati Uniti, fondati sul riconoscimento della

leadership americana. E all’interno dell’alleanza c’era pur sempre una scala

gerarchica che vedeva al vertice il rapporto privilegiato tra Stati Uniti e Gran Bretagna. La solidarietà atlantica comportava certamente anche difficoltà e

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L'Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord, in inglese North Atlantic Treaty Organization, meglio nota ancora nella sua sigla, la NATO, è un'organizzazione internazionale di numerosi paesi per collaborare nella difesa. Il trattato istitutivo della NATO, nonché il primo passo che portò alla nascita dell’organizzazione, ovvero il Patto Atlantico, fu firmato a Washington D.C. il 4 aprile del 1949 ed entrò in vigore il 24 agosto di quello stesso anno. Attualmente fanno parte della NATO ben ventotto paesi. Per la storia e l’evoluzione delle relazioni internazionali nel corso del XX secolo si veda J. Ikenberry, V.E. Parsi, Manuale di relazioni internazionali. Dal sistema

bipolare all’età globale, Laterza, Roma-Bari 2009, oppure M. Mazower, Governing the world: the history of an idea, Penguin Books, New York 2012.

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resistenze, ma resse alle sfide che le venivano sia dalla politica di De Gaulle, sia dall’anti-americanismo dei partiti e degli intellettuali di sinistra. In realtà ci vollero la guerra del Vietnam e lo spettro dell’imperialismo statunitense perché essa cominciasse a subire un’incrinatura consistente, incrinatura che è andata sotto molti aspetti approfondendosi a partire dai primi anni del nuovo millennio, anche a causa di una serie di eventi, come gli attentati dell’11 settembre, che hanno destabilizzato l’intero mondo occidentale166

. Ma intanto, con gli anni Settanta, anche la minaccia dell’invasione sovietica diventava meno credibile, e perfino il Partito comunista italiano cominciò a mettere in questione il modello dello Stato- guida e a cercare una propria via al socialismo.

Non l’Europa, ma l’Occidente, rimase per decenni il punto di riferimento della solidarietà atlantica. Anche coloro che assunsero un atteggiamento critico nei confronti dell’egemonia degli Stati Uniti erano pur sempre consapevoli che senza la loro protezione l’Europa intera sarebbe probabilmente caduta vittima di un regime politico altrettanto tirannico di quello nazista, sorretto da un nuovo esercito di occupazione. E se vi fu chi, come Raymond Aron, riteneva che i due modelli di società, sia quello capitalistico che quello comunista, avrebbero potuto convergere in virtù della loro comune appartenenza alla società e allo sviluppo industriale167, la realtà si presentava piuttosto diversa: la realtà era infatti quella di due sistemi politici che potevano sì convivere, ma soltanto in una permanente contrapposizione, con la conseguenza di un’Europa irrimediabilmente spaccata in due. Sotto questo punto di vista, dunque, elementi come il Muro di Berlino e il confine naturale segnato dalla linea del fiume Elba apparivano confini insormontabili, ben più difficili da superare dell’oceano stesso.

166 Cfr. D.W. Ellwood, The shock of America: Europe and the challenge of the century, Oxford University Press, Oxford 2012, oppure V. De Grazia, Irresistible empire. America’s advance

through twentieth-century Europe, Harvard University Press, Cambridge 2005.

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Cfr. R. Aron, Démocratie et totalitarisme, Gallimard, Parigi 1965. In tal senso Aron (Parigi, 14 marzo 1905 – Parigi, 17 ottobre 1983) finì per scontarsi con buona parte della cultura filosofica francese, fortemente sedotta dal pensiero e dalla prassi marxista, andando a condurre un raffronto tra il regime sovietico e comunista da una parte e quello occidentale e capitalista dall’altro lato.

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4.2 Un’evoluzione ambigua

Questa complessa situazione spiega perché il processo di integrazione europea sia sorto e si sia sviluppato inizialmente, nonché quasi esclusivamente, sul terreno economico. Alla sua base vi era la necessità, come già detto, di ricostruire fabbriche e abitazioni, di accompagnare e promuovere la trasformazione di una società ancora largamente contadina in una società industriale, di accrescere la produzione, di regolare il processo di urbanizzazione e lo spostamento di masse di lavoratori dalle regioni del Sud a quelle più progredite del Nord, di favorire nuovi consumi e quindi nuovi stili di vita. La dimensione nazionale risultò, fin dall’inizio, insufficiente per far fronte a queste esigenze: i sogni autarchici appartenevano al passato. Già nel 1948, quando la spaccatura dell’Europa si era ormai consumata, sorse l’Organizzazione per la cooperazione economica europea168, con il compito di coordinare la politica economica dei paesi che avevano aderito al Piano Marshall. Ad essa fece seguito, l’anno successivo, il Consiglio d’Europa169, primo nucleo di un progetto d’integrazione

anche politica. La nascita di un’organizzazione economica trovò una spinta decisiva nel bisogno comune di materie prime indispensabili per il processo di ricostruzione, nello specifico il carbone e l’acciaio, dal momento che all’indomani del conflitto costituivano la fonte di energia più diffusa. Come sappiamo, ciò spinse alla nascita della Ceca nel 1951, comprendente all’inizio un numero piuttosto esiguo di paesi. Da quel momento, tuttavia, una serie di nuovi organismi, come la Comunità economica europea e l’Euratom, e di fusioni tra questi in nuove

168 Cfr. B. Eichengreen, La nascita dell’economia europea. Dalla svolta del 1945 alla sfida

dell’innovazione, Il Saggiatore, Milano 2009. L'Organizzazione per la cooperazione economica

europea, meglio nota come Oece, fu un'organizzazione internazionale attiva in Europa dal 1948 al 1961. Venne ufficialmente istituita il 16 aprile 1948 per sovraintendere la distribuzione degli aiuti americani del Piano Marshall per la ricostruzione dell'Europa dopo la Seconda guerra mondiale e favorire la cooperazione e la collaborazione fra i suoi membri. La sua importanza risiede anche nel fatto che fu la prima organizzazione sovranazionale a svilupparsi in Europa nel dopoguerra, dando il via alle successive. Nel 1961 fu poi riorganizzata e trasformata nell'Ocse, cioè l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.

169 Cfr. B. Olivi, R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea: dalla guerra fredda alla

Costituzione dell’Unione, Il Mulino, Bologna 2005. Il Consiglio d'Europa è un'organizzazione

internazionale, con sede a Strasburgo, in Francia, con lo scopo di promuovere la democrazia, i diritti e l’identità culturale europea. Esso venne ufficialmente istituito il 5 maggio 1949 attraverso il trattato di Londra e vanta oggi l’adesione di ben quarantasette paesi membri. Occorre comunque precisare che il Consiglio d'Europa non fa parte dell'Unione europea ma è indipendente da essa.

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forme organizzative accompagnarono il graduale allargamento della Comunità. Nel 1973 aderirono ad essa la Gran Bretagna, l’Irlanda e la Danimarca, nel 1981 la Grecia, nel 1986 la Spagna e il Portogallo. Nel 1991 il trattato di Maastricht, entrato in vigore due anni dopo con la ratifica dei parlamenti nazionali, trasformò la Comunità economica europea nell’Unione europea, con un parlamento eletto a suffragio universale e con l’intento dichiarato di estendere il processo di integrazione ai paesi dell’Europa orientale rimasti esclusi. Non si trattava, però, soltanto di un mutamento nel nome e nella struttura: in realtà il trattato rifletteva la situazione che si era venuta determinando in seguito al crollo dell’Unione Sovietica e alla trasformazione in atto in quei territori.

Nel corso di oltre quarant’anni l’integrazione economica aveva fatto progressi straordinari, totalmente imprevedibili alla fine del conflitto: dal processo di ricostruzione dell’industria si era esteso a nuovi settori, come la politica agricola, quella dei trasporti, l’uso pacifico dell’energia atomica e più tardi il sistema monetario. Alla fine degli anni Ottanta l’Europa centro-occidentale era ormai diventata un solo, grande mercato, privo di barriere doganali, al cui interno capitali e manodopera potevano circolare liberamente: anche se il tasso di sviluppo dell’economia nordamericana restava superiore, e continuava ad attirare investimenti oltre Atlantico, le dimensioni di questo mercato cominciavano sempre più a reggere il confronto con gli Stati Uniti170. Naturalmente le decisioni prese a livello comunitario erano il più delle volte decisioni di compromesso tra i diversi interessi economici delle diverse nazioni, raggiunte attraverso trattative, pressioni e rinvii. E la Comunità europea diede vita ad una vasta organizzazione burocratica, la cosiddetta «tecnocrazia» di Bruxelles, non diversamente da quanto era avvenuto e continuava ad avvenire nei singoli Stati. Ma il processo di integrazione aveva una sua logica interna, più forte della volontà dei soggetti che vi erano coinvolti. Meno significativi, tuttavia, furono i risultati ottenuti sul terreno politico. Particolarmente grave fu il fallimento, risalente al 1954, di dare vita ad un esercito comune, che sancì la rinuncia definitiva a tutt’oggi dell’Europa ad una forza militare autonoma nei confronti dell’«ombrello nucleare» americano,

170 Cfr. B. Eichengreen, La nascita dell’economia europea. Dalla svolta del 1945 alla sfida

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con conseguenze di lungo periodo anche sulla sua politica estera171. All’interno della Comunità restavano presenti, infatti, forze centrifughe non facili da controllare e di notevole consistenza. Se la Gran Bretagna rimase quasi del tutto estranea al processo di integrazione fino all’inizio degli anni Settanta e, anzi, riprese in seguito una nuova politica isolazionistica, la stessa Francia esercitò spesso un’azione frenante, se non di vero e proprio sabotaggio nei confronti dell’unità europea: al timore di un eventuale riarmo tedesco si aggiunse, ad esempio, l’ostilità di De Gaulle verso l’ingresso della potenza britannica. L’asse franco-tedesco, che fu il nucleo portante dell’integrazione economica, non diventò, come avrebbe potuto e dovuto essere, il motore di un processo di unificazione politica, per cui anche gli atti che potevano essere politicamente rilevanti in direzione di un’unità in senso stretto rimasero, in definitiva, pure e semplici dichiarazioni, come quella sui diritti dell’uomo172

, o trovarono un ostacolo insormontabile per risultare praticamente utili. Priva di una politica estera comune, non solo nei confronti dell’Europa orientale ma soprattutto verso i