• Non ci sono risultati.

Il tentativo di Napoleone Bonaparte

Quando, intorno alla fine del XVIII secolo, una volta che la situazione sul piano interno aveva cominciato a ritrovare una propria stabilità, la Francia rivoluzionaria intraprese una lunga fase di campagne militari in tutta Europa, lo fece soprattutto allo scopo di difendere le faticose conquiste della rivoluzione stessa. Conquiste che andavano certamente difese dai propri vicini, ovvero dalla coalizione di potenze che miravano ad azzerarle, a cancellarle completamente nel timore che esse potessero costituire un pericoloso esempio per il resto dell’Europa. Queste guerre rappresentarono una novità molto interessante, poiché possedevano una caratteristica nuova: mentre, infatti, gli eserciti avversi alla Francia erano costituiti, sulla base del vecchio modello ancora pienamente diffuso, da elementi di varia estrazione popolare, professionisti che si arruolavano per il salario, quello francese era al contrario un «esercito nazionale», ovvero un esercito formato per la prima volta da «cittadini in armi» che combattevano per la nazione e per gli ideali della rivoluzione. In particolar modo per questi ultimi, poiché gli ideali della rivoluzione francese erano universali, nel senso che non riguardavano solo la Francia ma l’umanità intera, ponendo dunque che lo scopo dell’esercito francese fosse quello di propagare le conquiste della rivoluzione anche agli altri popoli dell’Europa. Questo spiega perché le armate francesi venivano salutate con favore negli altri Stati europei, da quella parte della popolazione, composta in particolare da borghesi e intellettuali, che aspiravano a creare sistemi politici di impronta liberale o democratica. Questo aspetto in particolare rappresenta una profonda novità a livello storico. Mentre in passato le guerre erano state caratterizzate da una contrapposizione dei vari governi senza che dalle masse popolari vi fosse alcun genere di partecipazione a livello ideologico, per la prima volta si assistette a uno schieramento di forze «trasversale», indipendente, cioè, dai confini degli Stati. Da una parte vi erano gli acerrimi nemici della Francia e, soprattutto, della rivoluzione, mentre dall’altra i simpatizzanti della stessa che vedevano nelle conquiste francesi un’importante occasione di progresso politico e sociale. Napoleone, che si affermò nel corso di queste guerre, perseguì in realtà scopi contradditori. Se, da un lato, negli Stati

- 52 -

sconfitti e sottomessi dalle sue armate egli importava il modello della Francia rivoluzionaria, dall’altro vi imponeva pesanti regimi fiscali. Questo comportamento fece sì che Napoleone, con il passare del tempo, finisse per alienarsi il sostegno che, all’inizio della sua ascesa, lo aveva salutato come il «liberatore dei popoli». Altrettanto ambiguo fu il suo percorso politico: la decisione di rivestire il titolo ed il ruolo di imperatore rappresentò agli occhi di molti dei suoi stessi sostenitori un autentico tradimento degli ideali della rivoluzione. Forse proprio in questo, almeno in parte, risiede la causa della sua sconfitta. Ciononostante, il nuovo tentativo egemonico in Europa di cui fu protagonista, che seguiva il fallimento di Luigi XIV, ebbe un riflesso estremamente profondo, contribuendo a gettare le basi per un nuovo ordine in tutto il continente.

Ma andiamo con ordine: l’epopea napoleonica ebbe inizio come sviluppo, forse necessario, della rivoluzione francese, e nello specifico quando venne a formarsi il Direttorio59. Il generale che il Direttorio si scelse era appunto il giovane còrso Napoleone Bonaparte, nato ad Ajaccio il 15 agosto del 1769, originario di una famiglia che aveva militato per l’indipendenza da Genova. Nella guerra civile del 1793 aveva combattuto per il governo giacobino e ideato l’assalto decisivo per la presa di Tolone, città ritenuta colpevole per essersi consegnata ai monarchici e agli inglesi. Nel 1795, un anno dopo il 9 termidoro, il governo repubblicano aveva fatto a Parigi ciò che Luigi XVI non aveva potuto o osato sei anni prima, il giorno della presa della Bastiglia: aveva mandato l’esercito a sparare su un corteo di guardie nazionali. Il generale a cui venne affidato tale compito era appunto Napoleone Bonaparte, che fece una strage di monarchici. Un anno dopo ebbe il comando di un esercito secondario sul terreno operativo della guerra contro la coalizione: la cosiddetta «Armata d’Italia». Ebbe allora l’occasione di dar prova del suo enorme talento militare, organizzativo e politico. Entrò nella penisola dalla costa ligure, sfidando l’artiglieria della flotta inglese, e

59 Cfr. A.M. Banti, L’età contemporanea, vol. I, Dalle rivoluzioni settecentesche all’imperialismo, Laterza, Roma-Bari 2009. Il Direttorio, istituito nel 1795, fu l'organo posto al vertice delle istituzioni francesi nell'ultima parte della Rivoluzione francese, ossia nel periodo cosiddetto del Termidoro, che pose fine al Terrore. In definitiva la forma di governo del Direttorio si rivelò fallimentare sotto molti aspetti, poiché condusse ad un governo disarmato ed estremamente instabile, lasciando in tal modo a Napoleone la strada spianata.

- 53 -

attraversò gli Appennini anziché le Alpi, sorprendendo le forze sarde. Prese in poco tempo le città di Torino e Milano, trasformando di fatto un esercito mal equipaggiato e giù di morale in una macchina militare perfetta con la quale sbaragliò gli austriaci, che inseguì fino quasi a Vienna, e a cui impose la Pace di Campoformio del 1797.

Praticamente tutta l’Italia cadeva sotto il dominio francese, con tre repubbliche «sorelle»: la repubblica «Cisalpina», la repubblica «Romana» e la repubblica «Partenopea», in cambio di Venezia che perdeva così la sua millenaria libertà e veniva ceduta all’Austria. La rivoluzione italiana era in realtà suscitata e tenuta a freno proprio come in Belgio e in Olanda, ma in un teatro ben più vasto e complesso. Dopo le vittorie ottenute nella penisola, il papa fu portato in esilio in Francia, mentre i re di Sardegna e di Sicilia abbandonarono le capitali, Torino e Napoli, e decisero di rifugiarsi nelle rispettive isole, posti sotto protezione britannica. In Italia furono compiute le prove generali del «Bonapartismo» che stava per prevalere anche in Francia. Il ceto politico d’antico regime cominciava infatti a sottomettersi in cambio della propria protezione, mentre i «giacobini», o «patrioti», accettavano il dominio militare in cambio dell’enunciazione dei valori di libertà e uguaglianza. Il popolo restava purtroppo fuori da questi processi: non aveva saputo trasformarsi automaticamente e autonomamente in «nazione», cioè in una comunità di cittadini capaci di difendere la propria libertà. Insorse debolmente qua e là per salvaguardare i propri equilibri e valori tradizionali, e per le gerarchie in cui si riconosceva. Il vincitore, che riusciva a governare contemporaneamente ceto politico, patrioti e popolo, era una figura nuova, per certi aspetti strana ed estremamente affascinante: era un militare e al tempo stesso un provinciale, un rivoluzionario ma non un aristocratico. Aveva fondato un sistema di potere che era estraneo ai tradizionali meccanismi di dominazione e di controllo e poteva essere apprezzato come uomo nuovo, un despota illuminato, un soldato della rivoluzione, ma anche un argine contro la rivoluzione stessa.

Napoleone fu successivamente impegnato in un’effimera conquista dell’Egitto, un territorio che considerava un’importante base per la Francia nella lotta contro l’Inghilterra. La spedizione in Egitto rappresentava tuttavia anche l’occasione di misurarsi con la vera gloria militare e addirittura col modello di un

- 54 -

imperatore o di un grande conquistatore dell’antichità: da Alessandro Magno a Giulio Cesare. Il Direttorio aveva a propria volta appoggiato quell’impresa, anche perché non era un cattivo modo di allontanare un militare troppo ambizioso, sia che avesse vinto sia che avesse perso. Quella d’Egitto fu una delle spedizioni più spericolate e innovative di Napoleone, in cui ancora una volta diede dimostrazione di eccellenza insieme militare, organizzativa e politica, e in più di notevole sensibilità culturale. Attraversò il Mediterraneo con una flotta che incredibilmente sfuggì al controllo britannico, conquistò rapidamente il paese e intraprese la sua modernizzazione, anche attraverso l’esplorazione dello stesso e lo studio sistematico delle sue antichità. In quest’occasione mise la sua nuova politica, quella del «Bonapartismo», alla prova in una società lontana ed estranea, che fu necessario vincere con la forza, enunciando anche lì i valori universali di libertà e di uguaglianza, ma negoziando al tempo stesso il sostegno delle élite. Nel frattempo gli inglesi avevano trovato e distrutto la flotta nemica nella rada di Abukir, presso Alessandria, e lì avevano intrappolato i francesi. Ma Napoleone fu nuovamente in grado di passare indenne e riuscì a tornare da solo in una Francia che era nuovamente in pericolo, lasciando ai suoi generali l’improbabile gloria di cavarsela o la verosimile vergogna di perdere la sua conquista. La fortuna di cui godeva amplificava il suo talento, premiava ogni suo tentativo e contribuiva alla crescita del suo carisma, e quindi della sua leggenda.

Offrì la sua fama ed il suo prestigio di vincitore alla risoluzione degli equilibri di potere in Francia, nel momento in cui l’eredità stessa della rivoluzione agonizzava a causa del corrotto regime direttoriale. Sieyès60, il profeta del terzo Stato dell’89, aveva attraversato indenne il Terrore e osteggiato il Direttorio. Aveva dunque accettato egli stesso la nomina a «Direttore», consapevole che quel sistema politico andava chiuso, e che si doveva passare attraverso un regime forte, di tipo militare, che preservasse almeno il posto conquistato dalla Francia rivoluzionaria in Europa fino a quel momento. Sieyès e molti altri politici misero quindi gli occhi su Bonaparte, vedendo in lui colui che poteva salvare ciò che

60 Cfr. Ivi. Emmanuel Joseph Sieyès (Fréjus, 3 maggio 1748 – Parigi, 20 giugno 1836) fu un abate e politico francese, personaggio che svolse un ruolo fondamentale negli eventi rivoluzionari che cambiarono la storia della Francia e dell’Europa alla fine del XVIII secolo. Abile politico, sopravvisse indenne ai vari soprassalti della rivoluzione e produsse anzi una serie di sorprendenti sviluppi, incluso quello che avrebbe contribuito a dare inizio all’Età Napoleonica.

- 55 -

poteva e che andava salvato, e al tempo stesso concludere ciò che doveva essere concluso: di riconciliare l’antico ceto politico con le nuove regole ormai fissate, i monarchici con gli acquirenti di beni nazionali e garantire al paese il ritorno dell’ordine. Così il 18 Brumaio dell’anno VIII (ovvero il novembre del 1799) un colpo di stato militare pose fine al Direttorio e segnò simbolicamente la fine stessa della Rivoluzione francese. Fu istituito un Consolato che contava tre membri, incluso Sieyès, e dei quali Napoleone era riconosciuto quale «Primo Console». A partire da quel momento non ci furono più libere elezioni, e si procedette dall’alto alla riforma dello Stato, alla riconciliazione del paese e alla sistemazione di quanto restava delle acquisizioni della rivoluzione: non la libertà, a differenza di quanto pensavano molti, né il diritto dei poveri alla sussistenza, ma almeno aspetti ugualmente importanti, come l’uguaglianza giuridica, la nuova percezione dello Stato laico, la tutela dell’individuo, la promozione del merito in ogni campo. Il capolavoro politico fu tuttavia nella riconciliazione: nel 1801 vi fu il concordato con la Santa Sede, con cui si ricuciva lo strappo avvenuto più di dieci anni prima, poi l’amnistia per i nobili emigrati durante la rivoluzione. La grande opera giuridica fu il Codice civile del 1804, che faceva della Francia un vero e proprio modello di modernità e di civiltà giuridica. La donna veniva nuovamente, e in parte, subordinata all’uomo, così come il dipendente al datore di lavoro. Ma i figli, sia maschi che femmine, venivano ad essere considerati tutti uguali in rapporto all’eredità. Cessavano così le primogeniture che da sempre nell’Europa aristocratica avevano fatto prevalere la famiglia sui diritti dell’individuo.

Napoleone era l’eroe, il soldato della rivoluzione, per la sua proiezione esterna e per il consolidamento dei suoi principali risultati in campo politico e militare, ma al tempo stesso era anche colui che aveva posto idealmente fine alla rivoluzione, in virtù ad esempio del silenzio che imponeva alle sue dinamiche politiche e conflittuali interne. Fu soprattutto l’eroe del nazionalismo rivoluzionario e imperialista, il fautore del «Grande Impero» che nel 1811, all’apice della sua crescita, avrebbe annesso alla Francia il Belgio, l’Olanda, la Germania del Nord e la Croazia, oltre al Piemonte, alla Liguria, alla Toscana e a Roma nella penisola italiana, arrivando così a dominare gran parte dell’Europa. Era il generale che portava libertà e uguaglianza con il potere delle armi, e allo

- 56 -

stesso modo garantiva ordine e gerarchia. Fu poi anche il modello, già pienamente romantico e, per certi versi, figlio del suo tempo, dell’uomo artefice della propria grandezza e della propria fortuna, il quale, partito dal nulla, conquista il mondo. Fu inoltre l’esempio tipicamente rivoluzionario e borghese dell’annullamento del privilegio di nascita, la dimostrazione vivente che gli uomini possono davvero nascere uguali, e che è il talento a fare la differenza. Infine veniva considerato il prototipo perfetto del provinciale che conquista un impero per sé e per la propria famiglia, sistemando i suoi parenti e ottenendo attraverso grandi matrimoni la ratifica della propria ascesa sociale. Nel 1804 volle per sé il titolo di imperatore, e si fece incoronare come tale dal papa. In pochi anni arrivò a conquistare buona parte della vecchia Europa, poi divorziò dalla prima moglie per sposare Maria Luisa d’Austria61, figlia dell’imperatore Francesco II e nipote della defunta Maria

Antonietta, la regina ghigliottinata. Il suo era un tentativo di almeno parziale riconciliazione con l’antico regime, e quindi di far accettare pienamente il nuovo conquistatore della Francia e dell’Europa dalle antiche aristocrazie e dalle corti europee sconfitte. Ma per ottenere tutto questo avrebbe avuto bisogno di tempo e di stabilità, elementi che in fondo non ebbe mai perché troppo spinto dal ruolo in cui si trovava e in cui si riconosceva, e dall’uso esclusivo dello strumento che sapeva dominare in maniera impareggiabile: la guerra.

Nel 1799, nello stesso periodo in cui Napoleone era impegnato in Egitto, era sorta in Europa una seconda coalizione, priva della Prussia ma con la partecipazione della Russia, in grado di minacciare nuovamente la Francia. I francesi avevano dovuto ritirarsi dall’Italia, e così era finito il «Triennio Giacobino», che era andato dal 1796 al 1799, un periodo che si sarebbe poi dimostrato importante nel risveglio dell’idea nazionale italiana. Tornato in Francia, dopo aver preso il potere, il primo console attraversò le Alpi e con forze nettamente inferiori riuscì a sconfiggere i coalizzati nella Battaglia di Marengo,

61

Cfr. Ivi. Maria Luisa d'Austria (Vienna, 12 dicembre 1791 – Parma, 17 dicembre 1847), fu imperatrice consorte dei francesi dal 1810 al 1814 in quanto moglie di Napoleone I, e duchessa regnante di Parma, Piacenza e Guastalla dal 1814 al 1847 per decisione del congresso di Vienna. Maria Luisa, infatti, in seguito alla sconfitta di Napoleone patita per mano della sesta coalizione, decise di non seguirlo nel suo esilio all’Isola d’Elba ma fece ritorno con il figlio alla corte di Vienna. Anche dopo i Cento Giorni e la sconfitta definitiva di Napoleone non seguì il proprio consorte, venendo così ricompensata al congresso di Vienna con la concessione del Ducato di Parma e Piacenza.

- 57 -

nel 1800. Seguirono dunque pochi anni di pace, anche se minacciata da continue tensioni, fino a quando non si formò una terza coalizione che si scontrò nuovamente con le armate napoleoniche, stavolta nella Battaglia di Austerlitz, che si concluse con una nuova, straordinaria vittoria da parte di Napoleone. La vittoria di Austerlitz, ottenuta nuovamente con forze di molto inferiori, aprì ai francesi l’intera Germania. Vi fu poi una quarta coalizione, a conclusione della quale l’imperatore dei francesi entrò a Berlino, e anche una quinta coalizione, che gli permise stavolta la presa di Vienna. Ogni volta le coalizioni che si formavano contro Napoleone erano sconfitte attraverso azioni militari fulminee e decisive: Bonaparte aveva completamente reinventato la strategia e la tattica, in quanto puntava sulla rapidità di manovra e sulla potenza di fuoco per sorprendere e sfondare le antiquate disposizioni in campo degli eserciti alleati. L’Austria e la Prussia furono completamente piegate, mentre la Russia indotta nel 1807 ad un’alleanza temporanea con i francesi e a un accordo di spartizione delle zone di influenza. Solo l’Inghilterra risultava imbattibile poiché protetta dalla sua indiscutibile supremazia navale. Nel 1805, poche settimane prima della battaglia di Austerlitz, gli inglesi avevano distrutto la flotta franco-spagnola al capo Trafalgar, al largo di Gibilterra. In seguito a quella sconfitta Napoleone decise di abbandonare la strategia navale, e le due potenze rimasero così per diversi anni reciprocamente invulnerabili e non in grado di danneggiarsi: i francesi erano imbattibili in terra, mentre gli inglesi erano incontrastati sui mari.

Restava la guerra economica che veniva praticata da ormai vent’anni ma con scarsa efficacia, in particolare attraverso il divieto di commerciare con il nemico, che in teoria avrebbe potuto e dovuto danneggiare maggiormente l’Inghilterra in quanto potenza capitalista e quindi più dipendente dagli interessi finanziari, che la Francia. Nel 1806, da una Berlino occupata a seguito della vittoriosa campagna contro la quarta coalizione, Napoleone ordinò il «Blocco Continentale»: il divieto di operare qualunque scambio commerciale, finanziario o personale tra la Francia e i suoi alleati da un lato, e l’Inghilterra dall’altro. Far rispettare il blocco significava però dover controllare tutti i porti, tutti gli uffici, tutte le banche, tutti i funzionari, e quindi sottomettere tutti i paesi europei ed esercitare un controllo diretto. Questa decisione costrinse la Francia ad annettere

- 58 -

direttamente tutta la costa del Mare del Nord e i tratti più strategici e importanti delle coste mediterranee, lanciandola così nelle due avventure che si sarebbero rivelate fatali all’Impero napoleonico: l’aggressione alla Spagna del 1808 e alla Russia nel 1812, entrambi alleati inaffidabili nell’applicazione del blocco continentale.

In Spagna si sviluppò un fenomeno molto particolare ed estremamente originale al tempo stesso: l’antirivoluzione popolare spontanea si legò alla controrivoluzione aristocratica e clericale dei vecchi ceti dirigenti, ma anche, importante novità, con il liberalismo nazionalista, in uno schieramento politico e militare naturalmente sostenuto e rifornito dagli inglesi. Questa originale alleanza politica per la prima volta fece vacillare, ed eventualmente fallire, il modello bonapartista. Le gerarchie tradizionali non si sentirono tutelate dall’invasore, i liberali non si accontentarono affatto della mera enunciazione dei principi di libertà e di uguaglianza, il popolo non si lasciò schiacciare. All’invasore fu opposta non una guerra tradizionale, come quelle in cui la Francia fino a quel momento aveva conseguito trionfi su trionfi, bensì un’estenuante guerra di popolo che ricevette per questo motivo il nome di «piccola guerra», o ancor meglio nota con un nome che si è poi ampiamente diffuso, guerrilla. Trecentomila francesi rimasero invischiati così nella penisola iberica, in una conquista sempre precaria. Cadice, che non venne mai occupata dai francesi, diventò sede dell’assemblea costituente spagnola che nel 1812 approvò una costituzione liberale, sintesi della tradizione britannica e del testo francese del 1791. A partire da quel momento dunque a combattere contro Napoleone non erano più solo i suoi tradizionali antagonisti, i nostalgici dell’Antico Regime, ma anche il prodotto più vitale e naturale della rivoluzione stessa: il nazionalismo liberale. La Russia, dall’altro lato, fu attaccata perché continuava a commerciare con gli inglesi. La «Grande

Armée» imperiale, forte all’epoca di ben mezzo milione di soldati, che la rendeva

il più grande esercito mai visto fino a quel momento, si mosse dai confini polacchi e prese Mosca dopo una battaglia dall’esito incerto, che non si tradusse in una vera e propria sconfitta per i russi dato che non furono annientati definitivamente. D’altra parte avevano immense retrovie e non si sarebbero arresi tanto facilmente. Distruggevano tutto durante il percorso di ritirata, arrivando persino a bruciare la

- 59 -

città di Mosca mentre era già occupata dai francesi. Arrivò l’inverno e ben presto la Grande Armata fu costretta a ritirarsi, continuamente attaccata e tallonata dai russi, oltreché sterminata dal freddo. Al passaggio del fiume Beresina subì perdite spaventose. Dalla ritirata si salvarono soltanto poche decine di migliaia di uomini, che in Germania furono costrette ad affrontare le forze di una sesta coalizione, e