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La Germania e il mito del «Reich Millenario»

6.1 Il tentativo di Guglielmo II: la Prima guerra mondiale

L’unificazione della Germania coincise con un profondo e radicale cambiamento economico e sociale passato alla storia come Seconda rivoluzione industriale66. Un grande balzo tecnologico ebbe come conseguenza un enorme incremento della produzione industriale. Il prezzo dei prodotti industriali diminuì considerevolmente e questo diede l’opportunità alle fasce sociali più basse di accedere ai consumi. Tuttavia la produzione industriale crebbe più di quanto i mercati fossero in grado di assorbire e questa situazione si tradusse in una «crisi di sovrapproduzione»: ben presto i magazzini delle fabbriche si riempirono di prodotti invenduti e, pertanto, finirono per innescarsi una serie di fenomeni tra cui licenziamenti a catena e fallimenti. La situazione che venne determinata in tal modo creò condizioni di aspra tensione sul piano internazionale: ciascuno Stato fu spinto a tentare con ogni mezzo di imporre i propri prodotti sui mercati esteri evitando al contempo che merci straniere entrassero sul proprio mercato interno. La concorrenza commerciale finì per affiancarsi alla crescente diffusione, come si diceva nel paragrafo precedente, dell’ideologia nazionalista e imperialista, per la quale era diritto naturale di ogni potenza di espandersi a danno degli Stati più deboli: una sorta di legge del più forte applicata alla politica internazionale.

In questa situazione di grande tensione l’azione diplomatica europea, condotta essenzialmente, come abbiamo visto, dal cancelliere tedesco von Bismarck, ottenne lo straordinario risultato di mantenere un equilibrio, per quanto

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Cfr. Ivi. La seconda rivoluzione industriale è quel processo di sviluppo industriale il cui inizio viene cronologicamente riportato al periodo compreso tra il congresso di Parigi e quello di Berlino (rispettivamente nel 1856 e nel 1878) e che giunge al proprio apice nel corso dell’ultimo decennio del XIX secolo, sia pure in concomitanza con la grande depressione di fine Ottocento. Fulcro di tale processo fu la capacità dei paesi dell'Europa occidentale di estendere e consolidare la propria presenza nel mondo: il loro prestigio si fondava sulla superiorità nel campo scientifico e tecnologico e sulla potenza industriale e capitalistica, un potere che si era enormemente rafforzato in seguito alla scoperta di nuove fonti di energia, come il petrolio e l'elettricità, all'utilizzo di nuovi sistemi di trasporto e di comunicazione, al dominio incontrastato nell’ambito del commercio mondiale. Le innovazioni non furono certamente della stessa portata in tutti i paesi, bensì più significative in alcuni e meno evidenti in altri, ma in ogni caso essa rappresentò un fondamentale punto di svolta per la storia europea.

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precario, tra le potenze del continente per un certo periodo di tempo. Ma uno dei grandi problemi di fondo, quello della concorrenza commerciale, non venne risolto. Nel quadro europeo la situazione più critica era proprio quella della Germania. Arrivata per ultima all’unità politica e allo sviluppo industriale, essa non aveva partecipato, se non in minima parte, al processo di spartizione coloniale del mondo all’interno del quale l’Inghilterra e la Francia si erano rese massime protagoniste, facendo la parte del leone e arrivando di fatto a dividersi territori e risorse strategiche praticamente in tutti i continenti. E ciò si poteva considerare un fattore fondamentale in contesto di crisi economica come quello in cui venne a trovarsi l’Europa, dove i possessi coloniali consentirono a Francia e Gran Bretagna di dirottarvi merci invendute in patria e di investirvi capitali con alto profitto. Lo stesso discorso non si poteva fare per la Germania che, possedendo una quantità irrilevante di colonie, si ritrovò con un formidabile potenziale industriale chiuso, quasi strangolato, in un territorio troppo limitato e circondato da altre grandi potenze industriali. Lo scoppio della Prima guerra mondiale ebbe sicuramente molte altre concause ma quella economica fu determinante. La Germania con i suoi alleati scatenò una guerra che peraltro tutti volevano e per la quale tutti si stavano preparando da decenni.

Già durante la Prima guerra mondiale si può assistere ad un importante tentativo di riorganizzazione e gestione del territorio sotto una sola autorità: un primo tentativo, insomma, di mettere in piedi un Nuovo Ordine Europeo67, sebbene non con le stesse prospettive che avrebbero caratterizzato il secondo conflitto mondiale (lo stesso concetto di Nuovo Ordine si sarebbe effettivamente diffuso a partire dagli anni Venti, dopo la conclusione della Grande guerra). Le

67 Cfr. G. Corni, Il sogno del “grande spazio”. Le politiche d’occupazione nell’Europa nazista, Laterza, Bari 2005. Il Nuovo Ordine, in tedesco Neue Ordnung, le cui premesse ideologiche vennero esposte da Hitler nel Mein Kampf, fu una teoria ed insieme una prospettiva geopolitica elaborata dal regime, dalle gerarchie politiche nazionalsocialiste e dagli intellettuali tedeschi tra gli anni venti e quaranta, che prevedeva appunto l'imposizione di un nuovo ordine internazionale che la Germania avrebbe dovuto imporre in tutto il continente europeo, posto sotto la propria guida. L'espressione nacque prima dell'inizio della guerra, ma venne pubblicamente annunciata nel 1941. Secondo tale visione, i tedeschi, avrebbero avuto il primo posto all’interno di questo ordine, ma a ciascuna delle nazioni privilegiate sarebbe stato riservato un Grossraum, un «grande spazio», nel quale esse avrebbero imposto la propria autorità. Il Nuovo Ordine, infatti, prevedeva la creazione di uno Stato pangermanista strutturato secondo l'ideologia nazionalsocialista e con una precisa ottica espansionista verso l'Europa Orientale, ricorrendo a pratiche ben precise, quali l'eliminazione fisica, l'espulsione o la riduzione a semplice manodopera di coloro che venivano considerati inferiori.

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truppe tedesche e austro-ungariche avevano occupato ampie porzioni del continente europeo. Gli imperi centrali si ritrovarono a dover gestire ampi territori sia ad est che ad ovest, in diverse fasi della guerra: gran parte del Belgio, tutta la Francia nord-orientale, parti rilevanti dell’impero zarista (dalla Polonia centrale alla Lituania), la Serbia e la Romania, nonché, dopo l’autunno del 1917, il Friuli e il Veneto orientale fino al Piave. Sono almeno due gli aspetti più caratteristici delle politiche d’occupazione nel periodo 1914-1918: l’assoluta preponderanza dei militari nella gestione di quei territori e una precisa strategia di «uso politico» di essi. Nella maggior parte dei casi Berlino cercò di privilegiare una particolare forma di governo, quella del cosiddetto «Governatorato Generale», che si ritroverà anche nel 1939. Si trattava di una forma d’occupazione ai cui vertici stavano i militari, i quali detenevano dunque la responsabilità politica verso il governo berlinese o viennese. Ai vertici militari era affiancato un apparato burocratico e civile articolato, anche se fra gli obiettivi prioritari di questa forma di occupazione vi era quello di dedicarvi quanto meno risorse possibili. Governatorati vennero dunque istituiti nel Belgio occupato e nei confinanti dipartimenti francesi, mentre nella Polonia zarista furono istituiti due Governatorati: quello di Varsavia sotto il controllo tedesco e quello di Kielce, successivamente trasferito a Lublino, sotto il controllo austro-ungarico. Vienna istituì a sua volta analoghe forme di occupazione in Serbia e Montenegro nel corso del 1916, e nel Veneto e Friuli a partire nell’ottobre del 1917. “In tutti i territori occupati, alle autorità tedesche e austro-ungariche premeva realizzare una politica che coniugasse l’ordine interno con lo sfruttamento delle risorse disponibili per favorire il proprio sforzo bellico. Era un obiettivo in sé contraddittorio che in molti casi sfociò in uno sfruttamento indiscriminato: decine di migliaia di belgi e di francesi deportati a lavorare nel Reich e la spoliazione delle popolazioni civili inermi delle base di sussistenza alimentare. Le idee sul destino di questi territori erano vaghe; chi progettava di affidare i territori occupati ai rampolli di qualche dinastia germanica, per costituire Stati-cuscinetto, e chi prefigurava un grande spazio economico dominato dagli interessi dei tedeschi”68

. Tali basi non si ritrovano nelle politiche di occupazione e di riorganizzazione del

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territorio di quello che poi sarà il Reich hitleriano, anche se non mancano determinate analogie. Per esempio nel periodo della Prima guerra mondiale uno degli argomenti maggiormente usati per giustificare le occupazioni era quello della «missione culturale» che presupponeva una superiorità del popolo tedesco su quelli dei paesi occupati. Ma era una superiorità che non si configurava come di valore razziale, né poteva sfociare in forme di discriminazione e sfruttamento. Tali aspetti sarebbero poi cambiati radicalmente fin dall’inizio del successivo conflitto mondiale.

Dopo quattro anni di guerra e circa tredici milioni di morti, un’Europa falcidiata, esausta ed estremamente impoverita si sedette al tavolo delle trattative. Il presidente statunitense Woodrow Wilson69 si pose in veste di mediatore per trovare un assetto stabile, tale da scongiurare altre tragedie come quella appena verificatasi. Il suo tentativo, tuttavia, fallì per vari motivi, in particolar modo a causa della volontà francese, in virtù della quale si riteneva che soltanto annientando totalmente la potenza tedesca si potesse ripristinare l’equilibrio europeo. La Francia volle fortemente e, di fatto, ottenne un trattato di pace estremamente punitivo per la Germania. Quest’ultima non aveva subito in realtà alcuna sconfitta militare ma era stata costretta alla resa per effetto della sua condizione di Stato assediato: erano venute a mancare ben presto le risorse fondamentali non solo per proseguire il conflitto, ma per garantire la sopravvivenza stessa del paese, dato che non vi era più cibo né materiale per le industrie belliche. La Germania fu così costretta a firmare, nell’ambito del trattato di Versailles del 1919, una durissima pace in base alla quale si sottoponeva ad una serie di condizioni dettate dai paesi vincitori, e dalla Francia in particolar modo: si impegnava ad accollarsi l’intero costo della guerra sostenuto dalla Francia (132 miliardi di marchi oro), a concederle lo sfruttamento delle proprie risorse minerarie, a ridurre drasticamente il proprio esercito, a consegnare tutta la sua flotta mercantile e la maggior parte del bestiame, a rinunciare a tutte le sue

69 Cfr. S. Paoli, F. Petrini, M. Trentin, Politica di potenza e cooperazione: l’organizzazione

internazionale dal Congresso di Vienna alla globalizzazione, CEDAM, Padova 2013. Thomas

Woodrow Wilson (Staunton, 28 dicembre 1856 – Washington, 3 febbraio 1924) fu un politico statunitense e il ventottesimo presidente degli Stati Uniti (in carica dal 1913 al 1921), oltre ad essere stato un importante uomo accademico, avendo ricoperto la carica di presidente dell'Università di Princeton. Nel 1919 fu insignito del Premio Nobel per la pace.

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colonie, a mantenere a proprie spese un contingente francese di occupazione nella regione del Reno e a dichiarare la propria esclusiva responsabilità per aver causato lo scoppio della guerra. La Germania firmò con la conseguenza che tra la popolazione tedesca si diffuse un pericoloso sentimento di rivalsa. Il trattato di pace, in realtà, aveva preparato il terreno di coltura per una nuova guerra.