• Non ci sono risultati.

I rapporti tra Europa e America

L’identità culturale europea: il rapporto problematico tra unità e differenze

4. L’evoluzione dell’Europa contemporanea e della sua identità

4.3 I rapporti tra Europa e America

Ai fini di quest’analisi è senza dubbio utile esaminare come siano venuti ad evolversi, però, non soltanto i rapporti con l’Oriente e i suoi principali interlocutori, ma anche rispetto allo stesso Occidente, al quale l’identità europea

177 Cfr. Cfr. B. Olivi, R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea: dalla guerra fredda alla

Costituzione dell’Unione, Il Mulino, Bologna 2005. Il termine «cleptocrazia» (che deriva dai

termini greci κλέπτω, rubare, e κράτος, governo, e quindi significherebbe, letteralmente, «governo del furto»), indica, con fini denigratori, una particolare modalità di governo in cui la corruzione politica ha raggiunto il suo culmine e dove l’uso stesso del governo è finalizzato alla rendita personale di coloro che occupano posizioni di potere. In generale tale situazione è propria, come nel caso della Russia contemporanea, di società fortemente gerarchizzate, dove esiste una casta che detiene saldamente il potere. Nel caso specifico della Russia, dai tempi di Eltsin e ancora con Putin, il sistema cleptocratico è organizzato per generare grossi profitti per una élite molto ristretta, per cui una buona parte della ricchezza nazionale è gestita esclusivamente per un ristretto gruppo di oligarchi.

- 140 -

resta indissolubilmente legata. Il rimando, inevitabilmente, è agli Stati Uniti d’America e a come, anche rispetto a questi ultimi, sia venuto ad evolversi un rapporto se non problematico, quantomeno non più idilliaco. Tale evoluzione ha in realtà una data ben precisa, quella degli attacchi terroristici alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, una data che segnò di fatto la fine dell’epoca successiva alla Guerra Fredda, accompagnando l’ingresso non solo dell’America, ma di tutto il mondo, nel nuovo millennio. Con la conseguente campagna militare contro l’Afghanistan, e poi quella in Iraq, ebbe inizio un’agonizzante saga politica che condusse, nella primavera del 2003, all’invasione americana dell’Iraq, portando molti a chiedersi se effettivamente l’«Occidente» potesse ancora dirsi tale, quantomeno nel suo significato più recente, quello contemporaneo e globalizzato. La prima reazione da parte dell’Europa dopo gli attentati di New York si tradusse in una vera e propria ondata di solidarietà nei confronti degli Stati Uniti, che tuttavia finì ben presto per scontrarsi con i duri atteggiamenti messi in mostra da Bush e dai suoi collaboratori, i quali promettevano ogni genere di giustizia contro gli attentatori. A seguito dell’11 settembre, i principali strumenti utilizzati dal governo di Washington per ricomporre l’unità interna in chiave anti-terroristica avevano come scopo quello di insistere sulla diretta connessione tra l’Iraq e il gruppo terroristico di Al Qaeda, e sulla convinzione della minaccia rappresentata da tiranni come Saddam Hussein, i quali avrebbero potuto o utilizzare le famigerate «armi di distruzione di massa» sui propri nemici, o rifornire volontariamente i terroristi e i loro alleati con quelle stesse armi. Tale campagna mediatica, e non solo, funzionò perfettamente negli Stati Uniti.

In Europa gli effetti di questo progetto furono tuttavia opposti. Quando, già nel corso del 2002, divenne chiaro che l’obiettivo del governo Bush era quello di dare vita ad un’invasione totale, con l’obiettivo di determinare la caduta del regime dittatoriale iracheno quale obiettivo centrale della propria «guerra globale al terrore», il supporto e la solidarietà forniti sino a quel momento si trasformarono, almeno in parte, in perplessità e sgomento. Bush e i suoi collaboratori domandavano a gran voce che il mondo si schierasse a fianco dell’America in questa guerra, finendo per innalzare la retorica della militanza e della supremazia nazionale a livelli mai uditi prima, nemmeno nei giorni

- 141 -

successivi all’attacco di Pearl Harbour. Di fronte a questo tipo di sfida, iniziarono a diffondersi sempre più pareri contrari e forme di dissenso, in maniera più o meno profonda, tra gli alleati dell’America e le loro opinioni pubbliche. Fu soprattutto sul piano etico e morale che molti commentatori europei, tra cui lo stesso Vaticano, scelsero di esprimere le proprie preoccupazioni riguardanti il comportamento del governo americano nei mesi che videro mettere in atto l’invasione irachena, dal momento che Bush aveva proclamato che la sua crociata contro Saddam Hussein era voluta da Dio stesso. In tal senso, di fronte alla sfida posta da Bush e dagli Stati Uniti, per gli europei più scettici cominciò ad emergere un ampio spettro di visioni contrastanti, nonché interpretazioni fondamentalmente differenti, rispetto a quelle classiche, del significato dell’eredità illuministica dell’Occidente e dei suoi valori morali. Alcuni tra i maggiori filosofi e intellettuali europei, come Jacques Derrida e Jürgen Habermas, firmarono un manifesto congiunto chiedendo il rafforzamento del nucleo storico e culturale dell’Europa, definito al di sopra di ogni altra cosa proprio dal suo secolare illuminismo e dalle tradizioni social-democratiche, spingendo verso la formazione di una più autentica identità europea comune proprio sulla base di quelle tradizioni178.

Nel corso del 2004 l’invasione dell’Iraq si era ormai risolta in un disastro strategico e politico. Allo stesso tempo emergevano, sempre più di frequente, rivelazioni e notizie relative alle torture inflitte dai soldati americani ai detenuti iracheni, ma anche riguardo al funzionamento del centro di detenzione di Guantanamo, a Cuba. Sostenitori e contrari alla guerra dibattevano ovunque sul peso e sulla vastità o meno del danno provocato al prestigio e all’influenza dell’America sul resto del mondo, e sull’Europa in particolare: non era forse stato lo stesso governo americano, come già era successo in Vietnam, colpevole di aver violato gli ideali per cui proclamava di combattere? In realtà, sino alla grande crisi finanziaria di fine decennio, le tradizionali, nonché straordinariamente efficaci, risorse dell’espansione americana, soprattutto quali fonti di ispirazione culturale ed economica all’estero, continuarono ad esercitare la propria influenza nonostante gli sconvolgimenti causati in Medio Oriente. In tal senso nemmeno la

178 Cfr. D.W. Ellwood, The shock of America: Europe and the challenge of the century, Oxford University Press, Oxford 2012.

- 142 -

presenza del nuovo presidente e simbolo degli Stati Uniti, Obama, poté nulla di fronte al crollo economico. Il neo-presidente, in effetti, sembrava dover rappresentare una svolta: emergevano sempre più numerose riflessioni, tra le élite del mondo occidentale, relative alla «caduta di stile» che, durante gli anni intercorsi tra il 2001 ed il 2008, aveva colpito il volto dell’America, ma anche il modo in cui percepiva se stessa, la sua autorità rispetto al resto del mondo e il suo status quale prima e principale fonte di modelli di modernità per il resto dell’Occidente. Per questo motivo colui che sarebbe divenuto il nuovo presidente americano sembrava in grado di segnare un superamento di queste problematiche, dal momento che si presentava come una figura radicalmente innovativa sulla scena politica mondiale, un’autentica spaccatura con il passato, che solo la gravità del tempo poteva spiegare: Obama parlava di giustizia e di diritti umani, ma soprattutto del bisogno per le democrazie di compiere sacrifici per poter affrontare le varie minacce nella maniera più adeguata. Tuttavia, come detto poc’anzi, nemmeno le promesse o l’abilità retorica del neo-presidente potevano nascondere l’effetto devastante della crisi finanziaria sul potere ed il prestigio dell’America a livello internazionale.

La fine del cosiddetto «Consenso di Washington»179 implicò un autentico disastro per la versione, inaugurata con la fine della Guerra Fredda, dei modelli economici americani di produzione e di consumo e, seguendo l’impatto della debacle irachena sulla credibilità militare degli Stati Uniti, fu un duro colpo per un altro dei pilastri dell’egemonia americana: il suo potere finanziario. In tutto il mondo occidentale, e non solo, numerosi osservatori tracciarono un collegamento in questa serie di disastri, cominciando a domandarsi se l’Occidente non stesse perdendo la propria capacità di creare forme e modelli di leadership efficaci per il nuovo ordine globalizzato. In realtà, per quel che riguarda l’Europa, i problemi di carattere etico e culturale sollevati dal conflitto del 2003 non erano ancora giunti

179

Cfr. Ivi. Il Consenso di Washington (Washington Consensus) è un concetto espresso dall’economista britannico John Williamson al fine di descrivere un elenco di dieci direttive (stabilizzare, privatizzare, liberalizzare, globalizzare, ecc.) di politica economica da destinare, eventualmente, a quei paesi in via di sviluppo che si fossero trovati in una situazione di crisi dal punto di vista economico. Con il tempo, tuttavia, tale espressione ha assunto un significato più ampio, un riferimento più generico verso un orientamento ed un approccio economico fortemente orientato al libero mercato, a volte descritto come neoliberismo.

- 143 -

ad una chiara conclusione. Vaclav Havel, in un discorso di fine 2005, lamentava che l’Europa dell’Ue era ancora eccessivamente legata e devota all’idea di crescita imposta dall’America e che quest’ultima rappresentava: crescita per il bene della crescita stessa, sviluppo e prosperità, creazione di profitto a qualunque prezzo, sebbene, sfortunatamente, in maniera totalmente mono-dimensionale. L’Europa, diceva Havel, aveva dato vita alla tecnologia moderna e alla civiltà consumatrice per poi esportarli forzatamente, finendo così per mostrare tutte le ambiguità dell’idea stessa di globalizzazione. L’Europa delle comunità e delle istituzioni europee aveva tuttavia finito per perdere il controllo su questo trend, e finire per venire risucchiata da esso. Il bisogno maggiore, secondo Havel, era legato alla rinascita di quella tradizione, successiva ai conflitti mondiali, di responsabilità verso il resto del mondo che la stessa cultura europea aveva contribuito a creare e ad articolare, di quella dimensione spirituale che significava rispetto e protezione per la cultura civica, per i diritti umani, per la giustizia economica, per le risorse non rinnovabili e per la salvaguardia dell’ambiente.

Il punto di vista degli europei, dunque, venne a modificarsi sensibilmente durante gli anni del «secolo americano»: essi, d’altra parte, assistettero a ondate e ondate di innovazione, le quali andavano a spazzare via in parte le componenti delle loro stesse società, in un’esperienza che era profondamente intrecciata con la sfida modernizzante americana in tutte le sue varie forme. L’Europa, in fondo, era fortunata, perché era abituata ad osservare e a contemplare, e forse anche a invidiare sotto certi aspetti, la parte più fine, creativa, dinamica e generosa delle energie americane messe all’opera, e alla fine sempre l’Europa, quella occidentale almeno, ebbe un piano Marshall, e fu puntualmente grata di questa temporanea e condizionata inclusione dell’espansione americana. In questo contesto il successo del modello americano di cittadinanza economica appariva come il migliore possibile. Le sua vittoria era stata segnata dalla pacifica ma completa sconfitta dell’avversario sovietico. Come i pianificatori del Piano Marshall avevano promesso, la loro versione del capitalismo competitivo aveva certamente avuto successo nel portare i frutti della scienza e della tecnologia moderna verso il pubblico del mondo industrializzato. Dopo la Seconda guerra mondiale essi ottennero gradualmente accesso alle auto a motore e all’elettricità, dopo la Guerra

- 144 -

Fredda ai viaggi aerei a basso costo, a internet e all’intera rivoluzione digitale, autentici simboli di questo trionfo. Nell’Europa, dunque, un nuovo stile di vita privato, individualista ed edonistico aveva preso piede. Ciò che non forniva era un soddisfacente codice di valori morali forte abbastanza da compensare la fase discendente. Per questo motivo il capitalismo a libero mercato non avrebbe mai ottenuto in Europa lo status ideologico che aveva conquistato in America, nemmeno tra i maggiori sostenitori del capitalismo stesso. Fu l’estrema flessibilità delle proprie risorse culturali ciò che fornì agli americani la capacità di sviluppare di volta in volta nuovi modi per proiettare il loro potere verso gli altri paesi, secondo le varie circostanze. La prima Guerra del Golfo ne è un classico esempio: in sé l’intervento rappresentava la più antica forma di proiezione di potere verso l’esterno, ovvero la spedizione militare punitiva, ma combinando ciò con la creazione di una nuova realtà della guerra, quasi un mito di quest’ultima, tramite le rappresentazioni della stessa che venivano mandate in onda dal canale televisivo CNN quotidianamente, e in presa diretta dal fronte, gli americani mostrarono non soltanto la propria superiorità rispetto al nemico, ma anche a tutti i loro alleati nel corso della missione. Se, dunque, le maggiori aspirazioni degli europei sembravano essere di carattere più conservativo, ovvero volte a recuperare determinati livelli di crescita a partire dalla fine dei conflitti mondiali, così da poter garantire più elevati standard sociali e di vita, gli americani mostrarono più determinazione al fine di recuperare il proprio prestigio internazionale, in particolare attraverso la messa in mostra del proprio potere politico e militare, ma anche attraverso l’estensione globale della propria influenza culturale180

.