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Un modello mediterraneo di politica migratoria?

3.2 Le politiche migratorie

3.2.1 Un modello mediterraneo di politica migratoria?

Come afferma Guarneri (2005), la proposta di un modello “mediterraneo” dell’immigrazione nasce dalla constatazione di una serie di somiglianze e punti in comune fra gli Stati europei che si affacciano sul Mediterraneo per quanto riguarda il tema della migrazione. L’elaborazione di questo schema teorico inizia nel corso degli ultimi decenni proprio in seguito all’inversione dei flussi migratori che interessano gli Stati della sponda europea del Mediterraneo:

infatti, fattori di ordine demografico, politico, sociale ed economico, nonché geografico, hanno contribuito alla trasformazione dell’Europa mediterranea da area caratteristica di emigrazione ad area di recente immigrazione. È come se, nell’arco di questi ultimi trent’anni, la linea di confine tra queste due realtà si fosse spostata verso Sud, andandosi a collocare tra Europa Mediterranea e sponda sud del Mediterraneo (Guarneri, 2005: 7).

Questa inversione delle tendenze migratorie ha determinato profondi cambiamenti in merito alla regolamentazione dei flussi migratori e alle politiche di immigrazione, riscontrabili nelle singole legislazioni nazionali sin dagli anni Ottanta del secolo scorso: in altre parole, alcuni Stati della sponda mediterranea hanno iniziato a adattare e ampliare la propria normativa con il fine di regolare i flussi in entrata. Nonostante questo, non sono state delineate politiche basate su tradizioni consolidate e prospettive a lungo termine, in considerazione del fatto che si trattava di Stati tradizionalmente di emigrazione, dunque con una limitata storia di immigrazione (a differenza, ad esempio, di un altro Stato mediterraneo come può essere la Francia). Le linee guida europee hanno poi in parte armonizzato determinati settori riguardo la gestione dei richiedenti asilo, specialmente le procedure di carattere giuridico-amministrativo.

Ritornando sul concetto di modello mediterraneo dell’immigrazione, è dunque possibile riscontrare una serie di caratteristiche comuni che gli Stati mediterranei, Spagna ed Italia in

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particolare, presentano per quanto riguarda la gestione dei flussi migratori, e che concorrono a delineare il suddetto modello.

Secondo Guarneri (2005), e come già anticipato nei precedenti capitoli, tra questi fattori troviamo in primis una carenza normativa in termini di regolamentazione dei flussi migratori regolari in entrata per motivi diversi dall’asilo o dalla richiesta di protezione: questo fattore, sommato al sistema Dublino37, ha determinato un massiccio ricorso all’istituto della protezione

internazionale da parte di quanti tentino di entrare nei territori italiano e spagnolo mediante la richiesta d’asilo. Si tratta, infatti, dell’unica via percorribile per essere ammessi in territorio europeo nella fase di superamento della frontiera.

La proliferazione di frontiere fisiche, tecnologiche e mentali dentro e fuori l’UE ha reso le migrazioni una “crisi”. Il primo confine potrebbe ricrearsi in un ufficio per il rilascio di visti da qualche parte in Africa o nel Medio Oriente, in cui alle persone si nega il visto per l’entrata nell’UE o si impedisce loro di imbarcarsi su un volo per le sanzioni nei confronti dei trasportatori. Il blocco di tali vie “legali” obbliga le persone a intraprendere percorsi di gran lunga più pericolosi e costosi via mare. La mancanza di canali regolari per raggiungere l’UE costituisce un fattore chiave dietro la “crisi”. Allo stesso modo, l’esistenza di insediamenti informali come la “giungla” di Calais non è rappresentativa di un’inarrestabile massa di persone in movimento, bensì della loro impossibilità di attraversare il confine, in questo caso verso il Regno Unito38 (traduzione della scrivente, Ansems de Vries, Carrera &

Guild, 2016: 2).

In questo senso, considerare il migrante come un protagonista attivo del proprio progetto migratorio, e non una minaccia alla sicurezza e all’ordine, è un punto cruciale da tener di conto e un cambio di mentalità necessario da effettuare. Narrazioni quali, ad esempio, quella che rappresenta il migrante come potenziale rischio alla sicurezza, o l’immagine di una “crisi migratoria” da trattare con misure emergenziali ed urgenti, contribuiscono a distorcere il fenomeno e dovrebbero essere riformulate in termini umanitari: in altre parole, modificare e

37 In particolare, si fa riferimento al fatto che, in virtù del sistema Dublino III, lo Stato membro dell’Unione

europea di prima entrata costituisce anche il Paese in cui deve essere presentata la eventuale richiesta d’asilo da parte del migrante che oltrepassa le frontiere esterne europee.

38 Testo originale: The proliferation of physical, technological and mental borders within and outside the

EU has made the movement of migrants into a ‘crisis’. The first border might take place in a visa office somewhere in Africa or the Middle East, where people are denied a visa to enter the EU or prevented from boarding a flight due to carrier sanctions. The blockage of these ‘legal’ routes forces people to take much more dangerous and expensive routes across the sea. The lack of regular channels to reach the EU constitutes therefore a key driving factor behind the ‘crisis’. Similarly, the reason for the existence of informal settlements such as the ‘jungle’ in Calais is not the overwhelming number of people on the move, but rather people’s inability to cross the border, in this case to the UK.

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potenziare le differenti tipologie di canali d’entrata sicuramente contribuirebbe ad una rimodulazione dei flussi in entrata, contribuendo anche all’empowerment del migrante nella società d’accoglienza ed alla sua autonomia e indipendenza economica. Inoltre, in questo discorso è necessario considerare la questione dell’economia formale, come conseguenza delle entrate irregolari della maggior parte dei flussi migratori e della non regolarizzazione del loro status giuridico in un secondo momento (Campomori, 2010).

Una seconda caratteristica del modello mediterraneo, direttamente correlata alla prima, consiste secondo Guarneri (2005) nell’inserimento del migrante in determinati settori del mercato lavorativo, generalmente rifiutati dai lavoratori autoctoni per motivazioni relative all’insufficienza salariale e alle condizioni di lavoro. Si tratta, nello specifico, di impieghi poco o mal remunerati e precari, quando non completamente deregolamentati, che si concentrano nel settore agricolo o nell’ambito dei servizi alla persona (in questo settore è particolarmente evidente la componente femminile delle migrazioni): questo avviene in virtù della lenta crescita economica degli Stati mediterranei, per cui la manodopera immigrata non viene completamente assorbita nel mercato e si concentra nelle fasce inferiori dell’economia (Fondazione Leone Moressa, 2017). Di conseguenza, dunque, si verifica anche l’ingrossamento delle fila dei lavoratori nell’economia informale, per cui rimangono completamente sprovvisti di qualsiasi garanzia a livello lavorativo e sanitario, finendo nelle maglie dell’illegalità.

Questa marginalità economica determina l’impossibilità di regolarizzare la loro presenza mediante, per esempio, la presentazione di un contratto di lavoro con il fine di ottenere il relativo permesso di soggiorno: si crea così un’”economia dell’alterità” (Calavita, 2007: 102), ovvero una convergenza concettuale fra l’Altro, in quanto portatore di una sua specifica diversità culturale, e l’immagine del suo impiego in settori economici tipicamente svantaggiati e precari.

Gli immigrati sono utili in quanto «Altri» intenzionati a lavorare, o costretti a farlo, a condizioni e per salari che gli autoctoni evitano ampiamente. Il vantaggio degli immigrati per queste economie risiede precisamente nella loro Alterità o differenza. Allo stesso tempo, l’Alterità è il perno intorno a cui ruotano le proteste anti-immigrato. Questo perché, se i lavori immigrati marginalizzati sono in parte utili in quanto segnati dall’illegalità, dalla povertà, dallo stigma razziale e dall’esclusione, questa etichettatura, questo sottolineare la loro differenza, contribuisce alla loro distinzione in quanto popolazione sospetta, e rinforza le proteste39 (Calavita, 2007: 97).

39 Testo originale: Immigrants are useful as «Others» who are willing to work, or are compelled to work,

under conditions and for wages that locals largely shun. The advantage of immigrants for these economies resides precisely in their Otherness or difference. At the same time, Otherness is the pivot on which anti-

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Questa narrazione costruita attorno alla figura del migrante ne rinforza dunque la segregazione socioeconomica, poiché finisce per riflettersi nella società e nella sua mentalità, diventando parte dell’opinione e dell’immaginario comune.

La marginalità economica si diffonde anche sul piano sociale. Si rinforza, dunque, il confine tra Noi e gli Altri, dove l’Altro non viene più inquadrato e definito sulla base di una questione “razziale” (come, per esempio, un dettaglio visivo come il colore della pelle), bensì in relazione a fattori di ordine politico-economico: la provenienza da Paesi in via di sviluppo, per esempio, oppure le condizioni materiali di vita nello Stato di accoglienza.

Il migrante viene, dunque, identificato con l’immagine della povertà e, per questo, stigmatizzato.

La povertà è sempre stata male accolta. Motivo di repulsione e di esclusione. Al limite si accetta la differenza a condizione che sia ricca, a condizione che ci siano i mezzi per truccarla e farla passare inosservata. Siate diversi, ma ricchi! Coloro che non hanno altra ricchezza che la loro differenza etnica e culturale sono votati all’umiliazione e ad ogni forma di razzismo. Danno anche fastidio. La loro presenza è di troppo (Jelloun, 1997: XIV).

Tenendo in considerazione i fattori appena esposti, è evidente con quanta facilità si possa fomentare, all’interno di una società di accoglienza, il processo di “integrazione subalterna” (Ambrosini, 2006: 17), ovvero una situazione che determina “l’ingresso dei membri nel mercato del lavoro, ma all’interno delle nicchie debolmente qualificate in cui sono in grado di controllare, o almeno facilitare, il collocamento occupazionale” (Ambrosini, 2006: 17). Questo processo avviene soprattutto in conseguenza dell’assenza di politiche migratorie lungimiranti e ben strutturate che evitino l’accumulo di lavoratori nei settori informali dell’economia.

Una terza ed ultima caratteristica che accomuna gli Stati mediterranei, in particolar modo Spagna e Italia, riguarda l’apporto della popolazione immigrata alla demografia e all’economia della società d’accoglienza. Ad oggi, infatti, si assiste ad un generale invecchiamento della popolazione europea, dovuto sia a tassi di natalità molto bassi40, sia all’aumento dell’aspettativa

di vita, e negli Stati oggetto del presente lavoro questo risulta ben evidente. In conseguenza di ciò, il numero delle persone in età lavorativa sta diminuendo, mentre è in crescita il numero dei

immigrant backlashes turn. Because, if marginalized immigrant workers are useful in part because they are marked by illegality, poverty, racialization and exclusion, this very marking, this highlighting of their difference, contributes to their distinction as a suspect population, and fuels backlash.

40 La pagina del sito Eurostat dedicata al tasso di fertilità presenta dati aggiornati al 2016: in quell’anno,

Spagna e Italia presentavano lo stesso valore del suddetto tasso, ovvero 1,34 figli per donna (https://ec.europa.eu/eurostat/tgm/table.do?tab=table&init=1&language=en&pcode=tps00199&plugin =1)

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cittadini che usufruiscono del sistema delle pensioni, le cui spese sociali, unitamente ad altre tipologie di servizi ad esso collegati e forniti dallo Stato, costituiscono oneri sempre maggiori per i contribuenti. In questo contesto, che risulterà ben visibile solo con il passare degli anni, “la popolazione immigrata, mediamente più giovane di quella autoctona, ha dunque allo stato attuale un minore impatto sul welfare assistenziale e un apporto positivo in termini di imposte e contributi previdenziali versati” (Fondazione Leone Moressa, 2017: 3).

È errata la narrazione costruita attorno al migrante come figura povera, indigente e incapace di mantenere al sostentamento di sé stesso. In Italia, ad esempio, studi realizzati dalla Fondazione Leone Moressa (2015) dimostrano che le entrate provenienti dai lavoratori immigrati (nelle forme di contributi previdenziali, IRPEF e altre imposte) superano la spesa pubblica per l’immigrazione (dunque la spesa relativa al sistema di accoglienza, al contrasto all’immigrazione irregolare…): “considerando che il sistema di previdenza sociale italiano è basato sul principio per il quale la popolazione attiva sostiene quella inattiva, è evidente come la popolazione straniera, mediamente più giovane di quella italiana, svolga una funzione di mantenimento del sistema pensionistico” (Fondazione Leone Moressa, 2015: 11).

Per concludere questa breve panoramica sul concetto di modello mediterraneo, è opportuno tornare a sottolineare che quanto scritto finora costituisce una semplice cornice sociopolitica della suddetta area geografica: le problematiche, i punti deboli e le carenze strutturali del modello mediterraneo appena messe in luce, sebbene in modo sommario, possono poi risultare più o meno accentuate nel momento in cui la prospettiva di analisi si sposta da questa area al singolo Stato.

Considerando, dunque, che il presente lavoro si focalizza sullo studio dei sistemi di accoglienza della categoria di migranti definiti come richiedenti asilo e beneficiari di protezione, non è necessario approfondire ulteriormente il tema delle politiche migratorie statali: quanto scritto finora, e le questioni affrontate nei prossimi paragrafi, fungono solo da cornice dell’analisi effettuata nei prossimi capitoli.

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