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PER APPROFONDIRE (3)

Nel documento Manuale di diritto dei beni comuni urbani (pagine 45-49)

L’OGGETTO DEI PATTI DI COLLABORAZIONE I beni comuni urbani tra uso pubblico e accesso

PER APPROFONDIRE (3)

Le occupazioni abusive nella prospettiva dei beni comuni

L’occupazione è senz’altro il più antico modo di acquisto della proprietà. Oggi essa è testualmente contemplata dall’articolo 923 del codice civile, secondo cui l’occupazione è un modo di acquisto a titolo originario della proprietà che può riguardare «le cose mo- bili che non sono proprietà di alcuno», tali venendo qualificate «le cose abbandonate e gli animali che formano oggetto di caccia o di pesca». Il codificatore italiano ha dunque optato per restringere ai soli beni mobili la possibilità di acquistare per occupazione la proprietà. Per i beni immobili vige invece l’articolo 827, che nega la possibilità giuridica di immobili privi di proprietario: secondo questa disposizione, infatti, gli «immobili che non sono di proprietà di alcuno spettano al patrimonio dello Stato».

Dunque, l’occupazione di beni immobili non è ammessa dal nostro ordinamento tra i modi di acquisto della proprietà, neppure quando questa dovesse apparire in stato di abbandono. Infatti, dal momento che la proprietà è imprescrittibile (cfr. articolo 948, comma 3 c.c., relativo all’azione di rivendicazione) il non uso di un bene è una facoltà del proprietario e non autorizza violazioni del suo diritto né comporta la sua estinzione. Ciò detto, sono numerosi i beni immobili, di proprietà privata o pubblica, che versano in stato di abbandono o degrado e che sono oggetto di occupazioni abusive perché non autorizzate dal proprietario. Queste azioni risultano illegali e, da un punto di vista civili- stico, sono configurabili come violazione della proprietà, nonché (di regola) come spoglio del possesso. Ma è sul piano del diritto penale che il trattamento giuridico tradizionale di queste forme di occupazione si traduce in fattispecie di reato sanzionate dagli articoli 614 («violazione di domicilio») e 633 («invasione di terreni o edifici») del codice penale. Tuttavia, in molti casi le occupazioni producono servizi accessibili a tutti e riconsegnano un bene alla collettività. Sebbene illegali, esse possono considerarsi “legittime” o perlomeno degne di apprezzamento.

Nonostante gli orientamenti giurisprudenziali maggioritari risultino ancor oggi assestati su impostazioni tradizionali, sempre più si vanno affermando approcci interpretativi che sembrano più sofisticati e pertanto capaci di emanciparsi da scelte di tutela sempre a vantaggio della proprietà assenteista. Tanto in sede penale quanto in sede civile è stato infatti possibile rilevare che le “occupazioni abusive”, intervenendo in situazioni di pro- lungato abbandono e se operanti sulla scorta di apprezzabili motivazioni solidaristiche riconosciute dall’articolo 2 Cost., innescano processi in cui il ritorno all’uso di un bene – sia nella forma dell’uso pubblico di un bene identificato come comune, sia nei casi di uso abitativo esercitato per soddisfare bisogni fondamentali connessi all’abitare – comporta numerosi effetti positivi.

Quanto appena rilevato trova alcuni riscontri piuttosto significativi.

Per quanto riguarda il diritto penale, la recente sentenza di Cass. pen., sez. II, 10 agosto 2018, n. 38483 ha negato la sussistenza dei presupposti per un sequestro preventivo (articolo 321 codice procedura penale) di un immobile di proprietà comunale occupato abusivamente, a riguardo del quale era stato possibile accertare la ventennale acquie- scenza dell’ente proprietario nei confronti dell’occupazione del bene. Sono inoltre degni di nota gli orientamenti che hanno escluso l’integrazione del reato di cui all’articolo 633 c.p. valorizzando sul piano interpretativo sia le finalità altruistiche e non di profitto degli imputati, sia lo stato di abbandono e deperimento a cui i proprietari avevano destinato (con presumibile assenza dell’intenzione di esercitare il proprio diritto in maniera attuale ed esclusiva) gli immobili la cui occupazione veniva contestata. Più in generale, sembra corretto aderire all’opinione di chi – reputando in ottica garantista che il diritto penale debba intervenire solo quando strumenti sanzionatori diversi e meno invasivi si rivelino

inefficaci – ha avanzato un puntuale interrogativo: «se la lesione del bene giuridico tutelato merita una valutazione alla luce del principio di offensività, come può ritenersi aggressiva la condotta degli occupanti di immobili abbandonati?»1.

Anche sul terreno civilistico sono emerse in anni recenti alcune indicazioni giurispruden- ziali che sembrano prendere le distanze dagli orientamenti più tradizionali. In materia possessoria possono citarsi due decisioni che cominciano forse a intaccare la ricostruzione consolidata dell’azione di spoglio attribuita dall’articolo 1168 c.c. al possessore per rientrare nel possesso di un bene. Secondo la sentenza n. 16236, resa il 25 luglio 2011 dalla sezione II civile della Cassazione, «al fine della ricorrenza di un atto di spoglio denunciabile con azione di reintegrazione, l’”animus spoliandi” postula la consapevolezza dell’autore di ac- quisire la cosa contro la volontà espressa o tacita del possessore; detto requisito soggettivo, pertanto, deve essere escluso qualora risulti che, al momento della materiale apprensione del bene, l’autore dello spoglio non conosceva e non era in grado di conoscere l’altrui possesso, o di acquisire la cosa contro la volontà espressa o tacita del possessore». Con questa pronuncia la Suprema Corte ha quindi escluso che il c.d. elemento psicologico dello spoglio sia sempre presunto, specie nel caso in cui il bene litigioso si presenti in stato di disuso. Pur non essendo isolata – può citarsi Cass. civ., II, 26 maggio 2000, n. 7004, secondo cui «non sussiste spoglio tutelabile qualora la cosa oggetto di lite si presenti in stato di abbandono ovvero, come nel caso di specie, non esista più “in rerum natura” (sentenze n. 2131/69, n. 6978/86)» –, tale interpretazione è in controtendenza rispetto all’orientamento largamente maggioritario, secondo cui: uno spoglio è sempre violento e sanzionabile se esso può dirsi contrario alla volontà espressa o presunta del possessore spogliato; la presunzione circa l’assenza di consenso del possessore opera in maniera larga, ossia ogni volta che manca una manifestazione espressa e univoca della volontà di consentire la privazione del possesso. Nondimeno essa appare interessante perché è vicina all’idea per cui sembra difficile raffigurarsi un effetto realmente offensivo dello spoglio/ occupazione, quando il bene interessato giaccia in stato di abbandono da lungo tempo. Una tale impostazione è assunta e arricchita da un provvedimento depositato l’8 febbraio 2012 dalla sezione VII civile del Tribunale di Roma. La decisione è di grande importanza per quanto riguarda il diritto dei beni comuni urbani, poiché essa ha preso in conside- razione una situazione in cui una comunità di riferimento aveva individuato un bene comune e così avviato per fatti concludenti (ossia con una iniziale occupazione) attività di cura e gestione del medesimo. In particolare essa si è pronunciata su un ricorso per la reintegrazione nel possesso del cinema Palazzo – stabile nel cuore del quartiere capitolino San Lorenzo e luogo storicamente votato alla cultura, anche se da diversi anni in stato di abbandono – proposto dalla società affittuaria dell’immobile contro alcuni dei soggetti che (anche in reazione alle intenzioni della società, che voleva realizzare nell’edificio un casinò) lo avevano occupato nell’aprile 2011. Appare assai utile riportare gli argomenti che, valorizzando il carattere pubblico, non lucrativo e solidaristico dell’uso “abusivo” del cinema Palazzo, hanno condotto il Tribunale di Roma a respingere il ricorso del possessore: «lo strumento del ricorso per reintegrazione […] non si rivela il più idoneo a risolvere una questione complessa come quella dell’occupazione di un edificio a opera di una moltitudine di persone. Non sono agevolmente identificabili gli autori dello spoglio; se anche qualcuno di essi venisse individuato […], l’ordine dato nei loro confronti non varrebbe nei confronti degli altri e in ogni caso non contro gli attuali occupanti che non

1 A. QUARtA, Il fenomeno delle occupazioni abusive tra tutela penale e tutela civile della proprietà, in “Politica del diritto”, 2013/1-2, p. 196.

hanno partecipato all’azione violenta del 15 aprile 2011 e non basano il dominio di fatto sul bene su un atto di acquisto a titolo particolare (art. 1169 cod. civ.)».

Deve infine darsi atto della sentenza n. 13071, con cui il 25 maggio 2018 la sezione III civile della Cassazione ha assunto una importante decisione in materia di risarcimen- to dei danni derivanti da occupazione senza titolo di beni in proprietà altrui. Se per insegnamento tradizionale il danno da occupazione è considerato in re ipsa (si verifica automaticamente per il solo fatto dell’occupazione), a prescindere dalla condizione di fatto del bene occupato, con questa pronuncia la Suprema Corte ha evidenziato che «nel caso di occupazione illegittima di un immobile il danno subito dal proprietario non può ritenersi sussistente “in re ipsa”, atteso che tale concetto giunge a identificare il danno con l’evento dannoso […]; ne consegue che il danno da occupazione “sine titulo”, in quanto particolarmente evidente, può essere agevolmente dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ma un alleggerimento dell’onere probatorio di tale natura non può includere anche l’esonero dalla allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto».

Le indicazioni giurisprudenziali riassunte sino a ora meritano la massima attenzione, e sembra auspicabile che esse trovino maggiore spazio sia a livello di produzione legisla- tiva e regolamentare, sia sul piano interpretativo. Del resto, esse non appaiono in alcun modo eversive dei fondamenti dell’ordinamento italiano in materia di proprietà e uso. È anzi individuabile, nella Costituzione e anche nel codice civile, una serie di disposizioni che attestano non solo il disfavore nei confronti di forme irresponsabili di non uso della proprietà, ma anche la possibilità di effettuare giudizi comparativi tra la protezione della proprietà e il riconoscimento di altri interessi.

A livello nazionale, tuttavia, le recenti linee di tendenza di politica del diritto non sem- brano andare nella direzione di un approccio problematico al complesso fenomeno delle occupazioni abusive, che peraltro è profondamente legato al trattamento giuridico delle proprietà assenteiste e dei beni in stato di abbandono. In tal senso, nel 2014 il d.l. 27 maggio, n. 47 (convertito con modificazioni dalla legge 23 maggio 2014, n. 80) ha intro- dotto con l’articolo 5 un trattamento particolarmente severo dei soggetti responsabili di occupazioni senza titolo, specie a scopo abitativo. Si è previsto (comma 1) che «chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l’allac- ciamento a pubblici servizi in relazione all’immobile medesimo […]», specificando (comma 1-bis) che «i soggetti che occupano abusivamente alloggi di edilizia residenziale pubblica non possono partecipare alle procedure di assegnazione di alloggi della medesima natura per i cinque anni successivi alla data di accertamento dell’occupazione abusiva». Solo nel 2017 questo articolo è stato dotato di una eccezione, con l’aggiunta (operata dal d.l. 20 febbraio 2017, n. 14, convertito con modificazioni dalla legge 18 aprile 2017, n. 48) di un comma 1 quater a mente del quale «il sindaco, in presenza di persone minorenni o meritevoli di tutela, può dare disposizioni in deroga a quanto previsto ai commi 1 e 1 bis, a tutela delle condizioni igienico-sanitarie».

Occorre da ultimo menzionare una circolare del Ministero degli Affari Interni del primo settembre 2018, adottata al fine di evitare l’affermazione di orientamenti giurisprudenziali che cominciano a condannare gli enti pubblici a risarcire i proprietari che hanno titolo a ottenere lo sgombero dei locali occupati. Essa ha messo a fuoco la «necessità di attendere agli sgomberi con la dovuta tempestività, rinviando alla fase successiva ogni valutazione in merito alla tutela delle altre istanze, nella consapevolezza che il consolidamento di situazioni d’illegalità possa recare un grave pregiudizio ad alcuni dei principali valori di riferimento nel nostro ordinamento». Tale impostazione risulta condivisa dal d.l. 4 ottobre 2018, n. 113 (convertito con modificazioni dalla legge 1 dicembre 2018, n. 132). Gli articoli 30 e 31 di questo decreto intervengono «in materia di occupazioni arbitrarie di immobili» con

previsioni di matrice penalistica: da un lato, si riscrive l’articolo 633 c.p. con un secondo comma a mente del quale «si applica la pena della reclusione da due a quattro anni e della multa da euro 206 a euro 2064 e si procede d’ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone o se il fatto è commesso da persona palesemente armata»; dall’altro lato, si modifica l’articolo 266 del codice di procedura penale, estendendo lo strumento di indagine delle intercettazioni al reato di cui all’articolo 633 c.p. Occorre poi menzionare l’articolo 31 ter, che riscrive l’articolo 11 del decreto legge 20 febbraio 2017, n. 14 (c.d. decreto Minniti) con una disciplina assai articolata delle procedure relative al rilascio di immobili abusivamente occupati. In tal senso, un ruolo decisivo è conferito all’autorità prefettizia (e quindi al Governo). Infine, allo scopo di evitare che le autorità pubbliche siano chiamate dai proprietari a rispondere dei danni conseguenti alla mancata esecuzio- ne dei provvedimenti di condanna al rilascio del bene si introduce (al nuovo comma 3.2 dell’articolo 11 del d.l. n. 14) un peculiare meccanismo di compensazione: «ferma restando la responsabilità anche sotto il profilo risarcitorio degli autori del reato di occupazione abusiva, al proprietario o al titolare di altro diritto reale di godimento sull’immobile è liquidata dal prefetto un’indennità onnicomprensiva per il mancato godimento del bene, secondo criteri equitativi che tengono conto dello stato dell’immobile, della sua destina- zione, della durata dell’occupazione, dell’eventuale fatto colposo del proprietario nel non avere impedito l’occupazione».

Nonostante simili indicazioni di politica del diritto, nella prospettiva dei Regolamenti sui beni comuni urbani non sembra impossibile che una amministrazione comunale faccia la scelta di immaginare una differente veste giuridica per le occupazioni abusive, con un duplice obiettivo: individuare criteri per verificare se queste pratiche sociali, spesso con- notate da profili di complessità e conflittualità, siano meritevoli di riconoscimento e tutela; evitare che esse siano trattate indiscriminatamente come problemi di ordine pubblico e di esclusiva rilevanza penale.

Una ipotesi di lavoro che appare plausibile – e che può intravedersi per esempio nel ri- ferimento operato dal Regolamento di Chieri al fatto che le soggettività autonome (ossia i cittadini attivi) possano avanzare proposte di patto di collaborazione «in modo esplicito o implicito» – è quella che tende a valorizzare la nozione di proposta implicita o tacita, ossia avanzata per fatti concludenti da parte della cittadinanza. Secondo questa imposta- zione per alcune occupazioni abusive, soprattutto quando insistono su beni appartenenti al Comune e si traducono in un processo di cura e di uso pubblico, si potrebbe ipotizzare una alternativa alla mera repressione mediante lo sgombero degli occupanti. Al contra- rio, sulla base di indici riconducibili al diritto dei beni comuni – sussistenza di uno stato di abbandono del bene occupato, finalità in vista delle quali è avvenuta l’occupazione, reazione del tessuto sociale di quartiere a seguito dell’avvio dell’uso pubblico, carattere inclusivo e accessibile ai terzi delle attività condotte nel bene occupato – esse potrebbero essere considerate quali concrete «manifestazioni di interesse» dei cittadini attivi, suscet- tibili di attivare il corpus normativo dei Regolamenti e di condurre al “riconoscimento” del valore sociale e giuridico dell’occupazione con la conseguente stipula di un patto di collaborazione.

Nel documento Manuale di diritto dei beni comuni urbani (pagine 45-49)

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