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PER APPROFONDIRE (9)

Nel documento Manuale di diritto dei beni comuni urbani (pagine 159-162)

LE ATTIVITÀ DEI PATT

PER APPROFONDIRE (9)

Le nozioni di accessorietà e di «prevalenza» nello svolgimento delle attività economiche

Le previsioni dei Regolamenti comunali che consentono lo svolgimento di attività econo- miche ai cittadini attivi firmatari di un patto di collaborazione possono essere rapportate alla complessa normativa che riguarda lo svolgimento di attività commerciali da parte di associazioni e più in generale di enti senza fini di lucro, dato che ne richiamano il carattere accessorio.

Lo svolgimento di tali attività e la questione della c.d. «prevalenza» presentano almeno due principali profili problematici: la compatibilità con le attività di rigenerazione, cura e gestione di un bene comune; gli aspetti di rilevanza fiscale.

Il primo aspetto è già stato chiarito (cfr., retro, il paragrafo 5.3.2). I cittadini attivi possono svolgere attività economiche a condizione: che ne sia mantenuto il carattere accessorio rispetto alle azioni di cura previste dal patto di collaborazione; che i proventi delle stesse siano usati al solo fine di autofinanziare la rigenerazione, cura e gestione del bene co- mune urbano oggetto del patto. Ciò significa che un’associazione firmataria di un patto non potrebbe usare i ricavi di un’iniziativa economica accessoria per finanziare attività istituzionali (magari meritorie) che non riguardano il bene comune urbano. Si pensi all’esempio di un’associazione sportiva dilettantistica che svolga attività economiche nei campetti di quartiere identificati come beni comuni, usando i proventi non per migliorare la fruibilità dei beni oggetto del patto di collaborazione, bensì per finanziare un proprio progetto di divulgazione della cultura dello sport nelle scuole.

Il secondo profilo non può essere adeguatamente trattato in questa sede. Infatti la normativa tributaria è molto complessa e sfaccettata, con previsioni specifiche per le tante formazioni sociali (associazioni e comitati di cui al codice civile, associazioni di promozione sociale, organizzazioni di volontariato, onlus ecc.) che – anche a prescindere dall’introduzione della categoria generale di Ente del Terzo Settore (ETS) con la riforma del 2016/2017 – pos- sono essere cittadini attivi (rinviamo sul punto al capitolo 2, paragrafi 2.2.2 e seguenti). In ogni caso, è molto utile fare menzione di questi problemi perché essi consentono di discutere la nozione di “prevalenza”.

In generale può dirsi che tale concetto serve a operare, a fini tributari, la qualificazione di un ente come «commerciale» o «non commerciale» (a seconda della qualifica cambia ovviamente il regime impositivo, più agevolato per gli enti non commerciali). In merito allo svolgimento di attività di una qualche consistenza economica da parte di formazioni sociali non imprenditoriali, la “prevalenza” può essere interpretata secondo un criterio quantitativo (e maggiormente contabile) oppure secondo un criterio qualitativo (più legato al tipo di attività svolta e alle relative finalità). Va peraltro ricordato che la prevalenza non si determina solo in relazione all’attività effettuata per un singolo progetto o in un solo spazio: è anzi necessario prendere in considerazione il complesso delle attività annualmente svolte da un ente per capire se esso sia effettivamente non commerciale. Volendo fare un esempio, si potrebbe prendere in considerazione il bilancio annuale di un’associazione, facendo una verifica puramente contabile sulle poste attive (e calcolando quanto l’attività economica x ha prodotto attivo in confronto con altre voci, come le risorse provenienti da donazioni o da partecipazioni a bandi pubblici o privati) oppure facendo una stima anche qualitativa (l’attività economica x, con il suo impegno di tempo e i suoi proventi, può davvero definirsi prevalente rispetto al valore sociale generato dalle attività effettuate in adempimento degli scopi associativi?).

A questo proposito i riferimenti normativi di cui tenere maggiormente conto sono gli articoli 148 e 149 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, TUIR (d.p.r. n. 917/1986).

Il primo di questi articoli contiene una disciplina molto ricca. Il comma 1 esordisce con l’affermazione di principio per cui «non è considerata commerciale l’attività svolta nei confronti degli associati o partecipanti, in conformità alle finalità istituzionali, dalle associazioni, dai consorzi e dagli altri enti non commerciali di tipo associativo». Molto rilevante è anche il comma 5, secondo il quale «per le associazioni di promozione sociale ricomprese tra gli enti di cui all’articolo 3, comma 6, lettera e), della legge 25 agosto 1991, n. 287, le cui finalità assistenziali siano riconosciute dal Ministero dell’interno, non si considerano commerciali, anche se effettuate verso pagamento di corrispettivi specifici, la somministrazione di alimenti e bevande effettuata, presso le sedi in cui viene svolta l’attività istituzionale, da bar ed esercizi similari […]», nel caso in cui tali attività siano svolte nei confronti di iscritti, associati o partecipanti e nel rispetto delle condizioni pre- viste dal comma 8 (per esempio il «divieto di distribuire anche in modo indiretto, utili o avanzi di gestione nonché fondi, riserve o capitale durante la vita dell’associazione, salvo che la destinazione o la distribuzione non siano imposte dalla legge»). Si può notare che la disciplina dell’articolo 148 prende in considerazione elementi di natura “qualitativa” per sottrarre l’attività economica di certe formazioni sociali dal regime tributario proprio degli enti commerciali.

L’articolo 149 prevede invece, in via generale, che «indipendentemente dalle previsioni statutarie, l’ente perde la qualifica di ente non commerciale qualora eserciti prevalen- temente attività commerciale per un intero periodo d’imposta». La disciplina di questo articolo enuclea alcuni parametri che consentono di qualificare un ente come commerciale: è proprio a questo proposito che il canone della prevalenza viene in evidenza. I criteri previsti, in particolare, fanno riferimento ad aspetti di natura “quantitativa” e contabile. In tal senso rilevano, per esempio: la «prevalenza dei ricavi derivanti da attività commerciali rispetto al valore normale delle cessioni o prestazioni afferenti le attività istituzionali»; la «prevalenza dei redditi derivanti da attività commerciali rispetto alle entrate istituzionali, intendendo per queste ultime i contributi, le sovvenzioni, le liberalità e le quote associa- tive» (lettere b) e c) del comma 2 dell’articolo 149 TUIR).

Tutte queste indicazioni sono applicabili alle associazioni che, operando come cittadini attivi, conducono attività economiche per autofinanziare le azioni di rigenerazione, cura e gestione di un bene comune. Parimenti, esse potrebbero venire opportunamente adattate per ricostruire in maniera puntuale, caso per caso, il trattamento normativo e tributario delle attività economiche condotte intorno a un bene comune dai cittadini attivi non riuniti in una formazione sociale stabilmente organizzata. È ragionevole concludere, peraltro, che l’uso pubblico dei beni comuni urbani oggetto di un patto di collaborazione implica che non è possibile imporre ai fruitori occasionali del bene comune urbano di associarsi a una formazione sociale per poter accedere alle attività economiche prestate dai cittadini attivi. In ogni caso, sulle questioni qui trattate è intervenuta da ultimo la riforma del terzo settore, della quale si è trattato nel capitolo 2. In proposito deve rammentarsi quanto disposto, in via generale per tutte le formazioni sociali qualificabili come Enti del Terzo Settore, dall’articolo 6 del d.lgs. n. 117/2017. Secondo questo articolo gli ETS possono esercitare attività ulteriori rispetto a quelle di interesse generale «a condizione che l’atto costitutivo o lo statuto lo consentano e siano secondarie e strumentali». Criteri e limiti per verificare il rispetto di tali condizioni dovrebbero essere dettati con un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, emanato di concerto con il Ministro dell’e- conomia e delle finanze e «tenendo conto dell’insieme delle risorse, anche volontarie e gratuite, impiegate in tali attività in rapporto all’insieme delle risorse, anche volontarie e gratuite, impiegate nelle attività di interesse generale». Questa previsione sembra offrire indicazioni interessanti, facendo riferimento non tanto all’accessorietà o alla prevalenza quanto al carattere «secondario e strumentale» dell’attività economica esercitata. Tuttavia

la mancata adozione del decreto ministeriale attuativo lascia la disciplina delle «attività diverse» priva di concretezza e di effettività.

Il Codice del terzo settore contiene anche un titolo (il X) relativo al regime fiscale degli ETS. In proposito rileva una previsione contenuta nel comma 5 dell’articolo 79: «[…] Indipendentemente dalle previsioni statutarie gli enti del Terzo settore assumono fiscal- mente la qualifica di enti commerciali qualora i proventi delle attività di cui all’articolo 5 [attività di interesse generale], svolte in forma d’impresa non in conformità ai criteri indicati nei commi 2 e 3 del presente articolo [anzitutto lo svolgimento a titolo gratuito o dietro versamento di corrispettivi che non superano i costi effettivi], nonché le attività di cui all’articolo 6 [attività diverse], fatta eccezione per le attività di sponsorizzazione svolte nel rispetto dei criteri di cui al decreto previsto all’articolo 6, superano, nel medesimo periodo d’imposta, le entrate derivanti da attività non commerciali». Una tale disposizione è significativa perché, per lo meno in materia fiscale, definisce la nozione di prevalenza sulla base di un criterio schiettamente contabile: una scelta, questa, che ha il pregio della precisione ma che rischia di ridimensionare i margini di azione (anche economica) degli ETS. In conclusione, è importante evidenziare che certe attività economiche effettuate dai cittadini attivi potrebbero anche essere ricondotte alla categoria della «raccolta fondi», disciplinata per gli ETS dall’articolo 7 del Codice del terzo settore e certamente suscettibile di ampia interpretazione. Ai sensi dei due commi di questo articolo, «1. Per raccolta fondi si intende il complesso delle attività e iniziative poste in essere da un ente del Terzo settore al fine di finanziare le proprie attività di interesse generale, anche attraverso la richiesta a terzi di lasciti, donazioni e contributi di natura non corrispettiva. 2. Gli enti del Terzo settore, possono realizzare attività di raccolta fondi anche in forma organizzata e continuativa, anche mediante

sollecitazione al pubblico o attraverso la cessione o erogazione di beni o servizi di modico valore, impiegando risorse proprie e di terzi, inclusi volontari e dipendenti, nel rispetto dei principi di verità, trasparenza e correttezza nei rapporti con i sostenitori e il pubblico, in conformità a linee guida adottate con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentiti la Cabina di regia di cui all’articolo 97 e il Consiglio nazionale del Terzo settore» (corsivi aggiunti). Nei casi di “raccolta fondi continuativa” l’attività economica dei cittadini attivi sarebbe quindi remunerata da «contributi di natura non corrispettiva», di regola estranei a una dinamica imprenditoriale e alle questioni di matrice tributaria sopra accennate. Anche con riguardo a questo articolo del Codice del terzo settore, tuttavia, manca a oggi il decreto ministeriale attuativo.

Nel documento Manuale di diritto dei beni comuni urbani (pagine 159-162)

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