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Beni comuni urbani di proprietà privata

Nel documento Manuale di diritto dei beni comuni urbani (pagine 36-39)

L’OGGETTO DEI PATTI DI COLLABORAZIONE I beni comuni urbani tra uso pubblico e accesso

1.3. Beni comuni urbani di proprietà privata

Si è chiarito che, secondo le più coerenti ricostruzioni della categoria dei beni comuni, un bene comune può appartenere a persone giuridiche pubbliche o a soggetti privati. In altri termini, dal punto di vista teorico la centralità dell’uso pubblico e dell’accesso comporta che ai fini dell’identificazione, della cura e della gestione di un bene comune sia quasi del tutto indifferente se un bene sia formalmente attribuito in proprietà pubblica o privata.

Un bene privato può diventare comune per iniziativa assunta dal soggetto proprietario. È sempre possibile, infatti, che i proprietari privati decidano di disporre del proprio bene a vantaggio dell’uso pubblico della collettività. A tal riguardo occorre dare conto di come i Regolamenti comunali in materia di beni comuni urbani contengano previsioni esplicitamente dedicate ai beni di proprietà privata da destinare all’uso pubblico. Alcuni Regolamenti provvedono soltanto a includere i beni «assoggettati a uso pubblico» nella definizione generale di «spazi pubblici», con l’effetto di estendere l’applicazione delle disposizioni regolamentari

anche ai beni in proprietà privata che ricadano nella definizione: in questo senso

dispongono i Regolamenti di Torino e Livorno14, nonché il prototipo di Regola-

mento che è stato diffuso nel 2018 dall’associazione Labsus (in questo manuale

ci riferiremo a questo articolato con la locuzione “prototipo Labsus 2018”)15. Un

numero più consistente di Regolamenti comunali, invece, ha seguito il “modello” rappresentato dal Regolamento bolognese del 2014, da un lato, confermando le scelte definitorie appena menzionate (in tal senso, secondo previsioni ricorrenti nei Regolamenti, i patti di collaborazione possono riguardare «interventi di rigenerazione degli spazi pubblici o privati a uso pubblico»), dall’altro, introdu- cendo articoli specificamente dedicati alla «gestione condivisa di spazi privati a uso pubblico». In altri termini, i Regolamenti comunali confermano che anche a beni di proprietà privata può essere riconosciuta qualità comune, motivo per cui «il patto di collaborazione può avere a oggetto la gestione condivisa di uno spazio privato a uso pubblico» (in questi termini l’articolo 14, comma 1 del Re- golamento bolognese; ma previsioni simili sono molto diffuse, per esempio nei Regolamenti di Chieri, di Reggio Calabria e di Verona).

In generale, poi, i privati possono realizzare una destinazione a uso pubblico in altri modi, anche ricorrendo a istituti contemplati nel codice civile e capaci di conferire all’autonomia privata dei proprietari una coloritura sociale: alcuni tra questi strumenti giuridici saranno oggetto di più approfondita considerazione nel capitolo 5 e nella seconda sezione di questo manuale, mentre qui è sufficiente richiamare l’articolo 2645 ter del codice civile («trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche»). Secondo questa disposizione, introdotta nel 2005 nel codice civile, «gli atti in forma pubblica con cui beni immobili o beni mobili iscritti in pubblici registri sono destinati, per un periodo non superiore a novanta anni o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria, alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche ai sensi dell’articolo 1322, secondo comma, possono essere trascritti al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione; per la realizzazione di tali interessi può agire, oltre al conferente, qualsiasi interessato anche durante la vita del conferente stesso […]». In ogni caso la destinazione all’uso pubblico di beni privati non era infrequente in passato e, secondo insegnamenti tradiziona- li, in questi casi l’avvio del concreto esercizio dell’uso pubblico comportava che la destinazione decisa per i beni dai proprietari privati si consolidasse a tempo tendenzialmente indeterminato.

14 L’articolo 2, comma 1 lett. i) del Regolamento di Torino e l’articolo 2, comma 1 lett. l) del Re- golamento livornese definiscono come «spazi pubblici» le «aree verdi, piazze, strade, marciapiedi e altri spazi pubblici o aperti al pubblico, di proprietà pubblica o assoggettati ad uso pubblico».

15 Il prototipo Labsus 2018 è consultabile all’indirizzo http://www.labsus.org/wp-content/uplo- ads/2017/04/PROTOTIPO-2018-LABSUS.pdf (ultimo accesso il 21.02.2019).

ilCASodi VillA boRgheSeA RoMA

Con una sentenza del 1887 resa in una lite tra la famiglia Borghese e il Comune di Roma, la Cassazione romana dava torto alla famiglia nobiliare, proprietaria della Villa monumentale, che avrebbe voluto chiudere l’acces- so all’annesso parco revocando la destinazione a uso pubblico sussistente (già allora) da lunghissimo tempo. Nella celebre decisione i giudici davano ragione al Comune capitolino all’esito di una approfondita disanima dell’i- stituto dei diritti di uso pubblico su beni privati, mostrando come essi – e nello specifico il c.d. jus deambulandi nel parco – siano qualificabili come vere e proprie situazioni reali tendenzialmente perpetue, di cui sono titolari i componenti della comunità degli abitanti di Roma (e non il Comune in quanto persona giuridica pubblica ed ente esponenziale della comunità).

1.3.1. Trasformazioni urbane: le più recenti prospettive

A fronte delle considerazioni che si sono svolte fino a ora, è importante ricono- scere che oggi amministratori e cittadini attivi, impegnati nel governo inclusivo del territorio urbano e nella rigenerazione, cura e gestione di beni comuni, si confrontano con scenari molto mutati rispetto al passato. In particolare, le grandi trasformazioni demografiche e produttive degli ultimi decenni – a partire dagli ingenti processi di deindustrializzazione – hanno determinato in molte città (specie in quelle più grandi e nelle metropoli) la trasformazione in estesi vuoti urbani di singoli beni o di complessi immobiliari di proprietà privata. Spesso queste por- zioni private di tessuto urbano sono in uno stato di completo abbandono, magari perché divenute delle «proprietà negative» (il proprietario non affronta le spese di manutenzione, o di bonifica, che ritiene troppo ingenti e dunque disecono- miche). In altri casi, esse versano in quella che può definirsi una condizione di abbandono «di attesa speculativa»: ciò significa che il proprietario privato lascia i propri beni in disuso scommettendo su processi di trasformazione urbana, o magari su una variante urbanistica, tali da creare nuove occasioni di uso redditizio dei beni (l’esempio tipico è l’area già sede di uno stabilimento produttivo, e così classificata negli strumenti urbanistici comunali, che previa variante urbanistica può essere riconvertita a complesso residenziale e così rimessa sul mercato dal

proprietario privato)16.

Insomma, negli odierni tessuti urbani è molto più frequente, rispetto al passato, che anche beni formalmente in proprietà privata versino in stato di abbando- no. Il progressivo deperimento di questi beni, oltre a provocare una obiettiva diminuzione del valore degli stessi con pregiudizio dei proprietari, scarica sulla collettività esternalità negative di non poco conto (dalla perdita di valore econo- mico delle proprietà circostanti ai possibili danni estetici; da eventuali pericoli di tipo ambientale fino al rischio che nei beni abbandonati si svolgano attività illecite). In tali casi progetti di riuso temporaneo o strumenti giuridici più arti-

colati come i patti di collaborazione – conclusi su iniziativa dei cittadini attivi, o grazie alla virtuosa intermediazione delle amministrazioni comunali – possono avere effetti assai benefici per i tessuti urbani in cui sono siti beni privati in disuso. La trasformazione di un bene privato abbandonato e “senza futuro” in un bene comune urbano può avere numerose conseguenze positive per tutti i soggetti coinvolti: il proprietario privato si giova delle attività di cura effettuate dalla cittadinanza, che arrestano la perdita di valore del bene; l’uso pubblico del bene diventa un elemento di contrasto delle esternalità negative sopra menzionate; la generazione di utilità comuni può attivare rinnovati processi di inclusione sociale e di riproduzione di comunità a livello di quartiere.

Nel documento Manuale di diritto dei beni comuni urbani (pagine 36-39)

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