LE ATTIVITÀ DEI PATT
5.1. Le previsioni dei regolamenti e le questioni aperte
Il diritto dei beni comuni urbani può essere pensato come una piattaforma giuridica che si basa sulle nozioni di uso pubblico e di accesso, e che ambisce ad accrescere gli spazi di democrazia e inclusione sociale presenti a livello mu- nicipale nel quadro di un ripensamento (in senso cooperativo e solidaristico) delle relazioni tra settore pubblico e soggetti privati.
In questo capitolo occorre analizzare le attività che conferiscono concretezza all’ampio orizzonte che si è ricordato. Quali sono le azioni che, in concreto, i cittadini attivi pongono in essere per dare esecuzione a un patto di collabora- zione? Quali le questioni giuridiche che si possono presentare e quali ipotesi di soluzione è possibile prospettare?
A fronte di un simile scenario, deve dirsi che i Regolamenti sui beni comuni presentano oggi un quadro abbastanza definito. Nonostante alcune differenze talvolta sensibili, in molte città la scelta di seguire le indicazioni del primo Regolamento bolognese ha condotto a una certa uniformità con riguardo alle attività contemplate nella disciplina regolamentare: in tal senso, è frequente leggere che «la collaborazione con i cittadini attivi può prevedere differenti livelli di intensità dell’intervento condiviso sugli spazi pubblici e sugli edifici, e in particolare: la cura occasionale, la cura costante e continuativa, la gestione condivisa e la rigenerazione» (articolo 6, comma 1 del Regolamento di Bologna).
Partendo dunque dai testi dei Regolamenti, i prossimi paragrafi sono de- dicati a descrivere le attività di cura, di gestione e di rigenerazione dei beni comuni urbani. Altre questioni, però, devono essere affrontate per ricostruire in maniera completa il quadro di rapporti giuridici che ruota attorno a un bene comune urbano: le attività economiche; l’assunzione diretta di opere e interventi da parte dei cittadini attivi (mediante affidamento a terzi o tramite auto-costruzione); le regole sul destino di miglioramenti e addizioni effettuati dai cittadini attivi; la materia degli usi temporanei e il suo coordinamento con il diritto dei beni comuni.
5.2. La cura
Il vocabolo «cura» è molto peculiare ed è significativo che esso sia centra- le – tanto da campeggiare nell’intitolazione di molti Regolamenti – nella costru- zione delle relazioni giuridiche che pubbliche amministrazioni, cittadini attivi e terzi (per esempio i fruitori occasionali) possono intrattenere con riguardo a un bene comune urbano.
La ragione di una tale peculiarità è presto spiegata. Il termine «cura», infatti, risulta sostanzialmente ignoto al codice civile italiano; esso, in particolare, non ricopre importanza nella ricostruzione che il libro terzo del codice offre delle forme di uso, godimento, fruizione e disposizione dei beni. Vero è che, in materia di beni, proprietà, diritti reali e possesso, molte delle disposizioni del codice – per lo più ispirate alla tutela dei proprietari e al c.d. produttivismo fascista (non di- mentichiamo, infatti, che il codice civile risale al 1942) – sono volte a proteggere l’integrità dei beni e a riconoscere gli interessi di coloro i quali ne tutelano e promuovono le utilità. Tuttavia l’idea che tra soggetti e beni si possa instaurare una relazione di cura non può certo dirsi propria del codice civile.
In altre parole, una acuta consapevolezza del fatto che l’uso e il godimento dei beni sono interazioni complesse, in cui i soggetti sono tenuti a esercitare diligenza e auto-responsabilità per evitare situazioni pericolose o nocive (per esempio le conseguenze ambientali della eccessiva produzione e dispersione di rifiuti), è una acquisizione piuttosto recente per la cultura giuridica. La crescente rilevanza e drammaticità della questione ecologica può senz’altro considerarsi il fattore che più ha contribuito a dare avvio a un simile cambio di mentalità, che oggi comincia a interessare i principali campi del diritto: dalla proprietà al rischio di impresa;
dalla disciplina generale del contratto all’azione delle imprese multinazionali1.
Non è quindi un caso se l’unica disposizione del codice che, trattando delle relazioni tra soggetti e beni, impiega esplicitamente il verbo «curare» nel senso ora chiarito sia l’articolo 989, relativo all’usufrutto di «boschi, filari e alberi sparsi di alto fusto»: secondo il primo comma di questo articolo, «se nell’usufrutto sono compresi boschi o filari cedui ovvero boschi o filari di alto fusto destinati alla produzione di legna, l’usufruttuario può procedere ai tagli ordinari, curando il mantenimento dell’originaria consistenza dei boschi o dei filari e provvedendo, se occorre, alla loro ricostituzione». È bene sottolineare che alla base di questa formulazione normativa può ravvisarsi la consapevolezza per certi versi “ecolo- gica” del legislatore, attento all’importanza di avere boschi in salute a garanzia del più complessivo assetto del territorio.
Questa premessa aiuta a comprendere la potenziale rilevanza della scelta di imperniare il diritto dei beni comuni urbani sulla dimensione della cura e con- sente una migliore analisi dei contenuti dei Regolamenti comunali.
Sulla scorta del primo modello bolognese del 2014, moltissimi Regolamenti annoverano nell’articolo dedicato alle definizioni la nozione di «interventi di cura»: tali sono gli «interventi volti alla protezione, conservazione e alla manutenzione
1 È opportuno segnalare, a questo proposito, le riflessioni contenute in U. MAttei, A. QUARtA,
dei beni comuni urbani per garantire e migliorare la loro fruibilità e qualità» (in questi termini, tra gli altri, l’articolo 2, comma 1 lett. f) dei Regolamenti di Bolo- gna, Trento, Reggio Calabria). Dal momento che altri Regolamenti presentano varianti non significative della formulazione riportata, si può dire che la scelta definitoria bolognese si è sostanzialmente generalizzata.
La cura dei beni comuni urbani ha quindi a che fare con ogni attività di protezione, conservazione e manutenzione dei medesimi. In seno al più com- plessivo fraseggio dei Regolamenti, sembra possibile affermare che la sfera della cura abbia a che fare con quelle attività meno complesse, che i cittadini attivi possono effettuare in maniera periodica o anche solo occasionale: per esempio la manutenzione periodica di un’area giochi; l’apertura e chiusura di un giardino pubblico; la cura mensile di un’aiuola.
Occorre però precisare ulteriormente il significato delle attività di cura per distinguerle dalla nozione di «collaborazione ordinaria» e dalle attività di gestione.
5.2.1. Cura occasionale e collaborazioni ordinarie
Molti Regolamenti conferiscono una specifica rilevanza agli interventi di cura occasionale, ma a ben vedere risulta piuttosto complicato capire quali siano gli elementi caratterizzanti questo tipo di cura.
Il Regolamento di Verona, per esempio, all’articolo 2, comma 1 lett. g) com- prende nella cura occasionale gli «interventi realizzati da singoli cittadini attivi per la manutenzione del patrimonio pubblico comunale». Da questa disposizione si desumerebbe una relazione molto stretta tra occasionalità della cura e carattere individuale dell’attivazione civica. La conferma di ciò si rinviene nell’articolo 7 del Regolamento scaligero, specificamente dedicato alla cura occasionale: il primo comma, nel presentare un elenco esemplificativo di tali interventi, ribadisce che essi sono «condotti gratuitamente da singoli cittadini attivi»; il secondo comma, in maniera piuttosto problematica, statuisce che dette attività «devono necessaria- mente avvenire secondo le direttive e le istruzioni impartite dai competenti uffici comunali, che ne garantiscono il coordinamento, il controllo e la supervisione».
Una concezione così netta della cura occasionale ha il pregio della chiarezza, ma per l’asimmetria che prospetta nei rapporti tra singolo cittadino attivo e amministrazione comunale sembra problematica rispetto a principi quali l’au- tonomia civica (non presente nel Regolamento veronese) e la fiducia reciproca (che appare poco coerente con il ruolo gerarchicamente sovraordinato della parte pubblica). Un altro aspetto problematico riguarda la prevenzione dei rischi: le previsioni veronesi, infatti, portano ad assimilare la pubblica amministrazione alle figure del datore di lavoro o del committente, con implicazioni che vedremo bene nel capitolo 7.
Un altro inquadramento degli interventi di cura occasionale è presente nell’ar- ticolo 12 del Regolamento bolognese del 2014 e, sulla scorta di questo, è stato adottato da differenti amministrazioni comunali (per esempio Chieri, Trento, Reggio Calabria). Ai sensi di tale impostazione «la realizzazione degli interventi di cura occasionale non richiede, di norma, la sottoscrizione del patto di colla- borazione ma ricade all’interno dei moduli di collaborazione predefinita […]» (così statuisce il comma 1 del citato articolo 12).
Nel ritenere addirittura “superflua” la conclusione di patti di collaborazione, la disposizione appena riportata attesta in maniera evidente che, secondo questo approccio, il carattere di «occasionalità» degli interventi di cura è fortemente av- vicinato alla semplicità e replicabilità degli stessi. In altri termini, come abbiamo verificato nel capitolo 3 la cura occasionale secondo il Regolamento bolognese ha anche una rilevanza procedurale, dovendosi ricondurre alle ipotesi di collabora- zione che l’articolo 29, comma 1 qualifica come «[…] tipiche, da individuarsi in ragione della loro presumibile maggior frequenza, della possibilità di predefinire con precisione presupposti, condizioni e iter istruttorio per la loro attivazione […]».
Anche questa seconda ricostruzione presenta profili problematici, in quanto essa tende a instaurare una dubbia connessione di senso tra la categoria da de- finire e il contenuto della definizione stessa. A ben vedere, infatti, dire che una attività è «occasionale» non significa che essa sia anche ordinaria, frequente e tipica. Altro è l’occasionalità, altro sono l’ordinarietà e la replicabilità. Alla luce di questi chiarimenti, sembra opportuno ridimensionare la specificità della cura occasionale come categoria. In questa direzione sembrano andare quei Regola- menti che da un lato affievoliscono o tralasciano la distinzione degli interventi dei cittadini attivi a seconda del carattere occasionale o continuativo della cura, dall’altro lato ricostruiscono le relazioni giuridiche tra cittadini attivi e ammini- strazioni in base alla coppia «ordinario / complesso». È questo l’approccio fatto proprio, in vario modo, dal Regolamento torinese, da quello di Livorno e infine dal prototipo Labsus 2018. Secondo l’articolo 8 del Regolamento di Torino, la Giunta o gli organi circoscrizionali possono adottare deliberazioni in materia di collaborazioni ordinarie: una tale delibera, ai sensi del comma 2, «individua le categorie di beni comuni urbani che possono essere oggetto di patti di collabo- razione, approva le linee di indirizzo per la loro cura, gestione condivisa o rige- nerazione e l’eventuale attribuzione di vantaggi economici a favore dei cittadini attivi, individua gli Uffici competenti e i Dirigenti delegati alla conclusione dei
patti di collaborazione»2. Questo articolo prevede un procedimento semplificato
per la conclusione del patto di collaborazione ordinaria. Tuttavia esso non mette a disposizione dei cittadini attivi moduli debitamente predisposti, e forse anche per questa ragione il concreto sviluppo delle collaborazioni ordinarie a Torino appare più lento che altrove.
Più avanzate, rispetto alle disposizioni torinesi appena commentate, appaiono le previsioni dell’articolo 7 del Regolamento livornese. Anche questo articolo, come l’omologo di Torino, richiede alla Giunta l’adozione di una delibera quadro sulle collaborazioni ordinarie. Tuttavia nel modello toscano la disciplina risulta poten- zialmente più efficace. Secondo i commi 4 e 5 dell’articolo in commento, «4. I cittadini attivi possono richiedere e proporre di aderire al patto di collaborazione ordinaria avvalendosi di specifica modulistica di orientamento disponibile sul sito del Comune di Livorno. 5. Il dirigente cui compete la gestione del bene oggetto della proposta di amministrazione condivisa, ricevuta l’istanza […], verificatane la fattibilità tecnica, in accordo e collaborazione con il settore Contratti predispone
2 Ai sensi dell’articolo in commento, la Giunta della Città di Torino ha adottato il 27 giugno 2017 la deliberazione n. 02341/070, con cui si definisce un quadro in materia di collaborazioni ordinarie.
il patto di collaborazione, ne approva la stipula con proprio provvedimento e lo sottoscrive unitamente al responsabile-referente dei cittadini attivi come definiti all’art 2. Il patto di collaborazione è quindi successivamente partecipato al Settore Contratti». Come si vede, il Comune di Livorno pare intenzionato a facilitare il più possibile, nei casi non complessi, l’attivazione della cittadinanza nei confronti dei beni identificati come comuni privilegiando procedure informali. Conferma questa impostazione anche il comma 7 dell’articolo, che pur nel rispetto di alcune condizioni considera «[…] collaborazioni ordinarie di amministrazione condivisa su beni comuni le iniziative di collaborazione in ambito scolastico, attivate sulle rispettive strutture direttamente dal dirigente scolastico responsabile della strut- tura medesima […]».
Occorre da ultimo fare un cenno a quanto previsto dall’associazione Labsus, per i patti di collaborazione ordinari, nell’articolo 7 del prototipo Labsus 2018. Questa disposizione prova a porre rimedio all’incompletezza riscontrata in mate- ria di cura occasionale e di collaborazioni ordinarie nei Regolamenti varati negli ultimi anni. In tal senso essa risulta particolarmente avanzata per due ordini di ragioni. Da un lato abbandona la distinzione fondata sul carattere occasionale o continuativo delle azioni di cura dei cittadini attivi, puntando a regolare «in- terventi di cura di modesta entità, anche ripetuti nel tempo sui medesimi spazi e beni comuni» e consentendo ai cittadini di ricorrere a modelli di proposta appositamente predisposti. Dall’altro lato, e soprattutto, vengono delineate delle tempistiche molto scandite per le procedure che conducono alla conclusione del patto di collaborazione: i commi 4 e 5 identificano di fatto un procedimento accelerato, della durata di circa trenta giorni; ai sensi del comma 7, addirittura, «nel caso in cui il Dirigente responsabile resti inerte, il Dirigente dell’Ufficio, anche su istanza dei cittadini attivi interessati, diffida il Dirigente responsabile a concludere il procedimento entro ulteriori 7 giorni, scaduti i quali il Dirigente dell’Ufficio avvia una procedura di consultazione e confronto obbligatorio tra dirigente responsabile e cittadini attivi per raggiungere un’intesa che preveda anche l’adeguamento del patto ordinario».
5.3. La gestione
I Regolamenti sui beni comuni urbani si occupano della gestione in una maniera piuttosto peculiare. Infatti, essi generalmente non recano una definizione delle attività di gestione che i cittadini attivi potrebbero porre in essere in relazione a un bene comune. La nozione che viene invece presa in considerazione è quella di «gestione condivisa», con un riferimento immancabile alla condivisione di programmi e obiettivi tra cittadini attivi e amministrazioni comunali.
La ragione di questa scelta è da ricondurre all’impostazione culturale che promuove il ripensamento della pubblica amministrazione in senso condiviso e collaborativo. Tale approccio ha il merito di facilitare i processi di c.d. “innovazione sociale” e di rendere maggiormente cooperativi i rapporti tra persone pubbliche e cittadinanza. Allo stesso tempo, però, esso non valorizza la piena autonomia civica dei soggetti che possono attivarsi nei confronti dei beni comuni urbani
delineando forme di gestione che vanno anche nella direzione di una maggiore
separazione dalla pubblica amministrazione3.
Dunque i Regolamenti, con le solite variazioni secondarie riscontrabili tra di- versi comuni, recano una definizione della gestione condivisa che può ritenersi “standard”: secondo l’articolo 2, comma 1 lett. g) del Regolamento di Bologna, si ha tale attività in presenza di «interventi di cura dei beni comuni urbani svolta congiuntamente dai cittadini e dall’amministrazione con carattere di continuità e di inclusività» (sostanzialmente identiche le formulazioni adottate a Chieri, Verona, Trento; a Torino e Firenze si fa invece riferimento a un «programma di fruizione collettiva dei beni comuni urbani, con caratteri di inclusività e integrazione»).
A fronte delle indicazioni rinvenibili nei testi regolamentari, non è facile individuare il carattere specifico della gestione e i suoi tratti originali. Nel defi- nirla, infatti, i Regolamenti richiamano comunque la cura e la fruizione: questa sovrapposizione di vocaboli rende quindi difficili le operazioni di distinzione tra le differenti attività. In ogni caso, per dare una interpretazione specifica delle attività di gestione sembra doversi valorizzare come elemento distintivo la «continuità» delle azioni concretamente poste in essere. In questi termini, la gestione (condivisa) sarebbe una forma di cura dei beni comuni urbani connotata da maggiore intensità, sia sul piano dei tempi di svolgimento sia con riguardo al grado di attivazione dei cittadini nei confronti dei beni.
Per fare un esempio concreto si può provare a immaginare un giardino urbano che venga identificato come bene comune da una comunità di quartiere. In una tale situazione si potrebbe ritenere: che sarebbe «cura» una attività settimanale di manutenzione delle piante e aree verdi del giardino; che configurerebbe una «gestione condivisa» la presenza quasi quotidiana della comunità di riferimento nel bene comune, con lo sviluppo di orti didattici per le scuole del quartiere e l’organizzazione di momenti pubblici di formazione su temi di ecologia.
Questo chiarimento non elimina tuttavia alcune incertezze, legate al fatto che diversi Regolamenti impiegano la distinzione basata sul carattere occasionale o continuativo anche con riguardo agli interventi di gestione condivisa. Un simile elemento di contraddizione sembra riscontrabile in quegli articoli generali dei Regolamenti che, in materia di «interventi sugli spazi pubblici e sugli edifici», presentano una previsione secondo cui «i cittadini attivi possono realizzare inter- venti, a carattere occasionale o continuativo, di cura o di gestione condivisa degli spazi pubblici e degli edifici periodicamente individuati dall’amministrazione o proposti dai cittadini attivi» (articolo 6, comma 2 Regolamenti di Bologna e Trento; articolo 7, comma 2 Regolamenti di Chieri e Reggio Calabria). Perfino più espli- cito risulta, sul punto, il Regolamento di Torino, che al comma 1 dell’articolo 6 («azioni e interventi previsti nei patti di collaborazione») distingue espressamente la gestione condivisa occasionale dalla gestione condivisa costante e continuativa.
In ogni caso, avvenga in condivisione con l’amministrazione pubblica oppure con un maggiore tasso di autonomia dei cittadini attivi, la gestione di un bene
3 La seconda parte di questo manuale è dedicata all’analisi di queste forme più avanzate di autonomia civica – definibili come usi collettivi o usi civici urbani –, nonché del ruolo che nell’auto- governo dei beni comuni possono esercitare istituti come la fondazione di partecipazione e il trust.
comune urbano deve promuovere e tutelare l’uso pubblico e la fruibilità diffusa del bene. Diversamente, un patto di collaborazione non sarebbe altro che una concessione in uso esclusivo mascherata. Appare quindi opportuna, a questo proposito, la precisazione che l’articolo 2, comma 1 lett. g) del Regolamento di Reggio Calabria offre nel dare la definizione di «gestione condivisa»: «non co- stituiscono interventi di gestione condivisa e non sono disciplinate dal presente regolamento tutte le forme di utilizzo e di gestione che riducano in maniera significativa le possibilità di fruizione collettiva del bene comune e che risultino dirette alla mera realizzazione degli interessi, bisogni e scopi, ancorché privi di lucro, dei gruppi di cittadini, delle associazioni o degli altri soggetti collettivi titolari dell’uso o della gestione».
5.3.1. Beni comuni urbani e attività economiche
La materia della gestione dei beni comuni urbani risulta profondamente con- nessa con il tema della sostenibilità delle azioni della cittadinanza, intesa dal punto di vista sociale, ecologico e anche economico. Essa pertanto si collega a un tema molto delicato, quello dello svolgimento di attività economiche all’interno o per il tramite di un bene comune urbano (per esempio un bene comune potrebbe essere la sede di un’attività economica, oppure potrebbe essere rappresentato su spille, borse ecc. per finalità di c.d. merchandising). Dobbiamo domandarci se ed entro quali limiti il diritto dei beni comuni urbani consente che i cittadini, nello svolgimento di azioni di cura, effettuino anche attività economiche che interes- sano i beni oggetto dei patti di collaborazione e che risultano diverse e ulteriori rispetto alle forme di auto-finanziamento che troveremo esaminate nel capitolo 6.
A ben vedere i Regolamenti comunali non sembrano occuparsi in modo esplicito di questi problemi. Per lo più, infatti, è possibile imbattersi in previsioni piuttosto generali e non del tutto pertinenti rispetto alle vere e proprie attività economiche, poiché dettate in materia di «promozione dell’innovazione sociale e dei servizi collaborativi». Secondo tali disposizioni, che seguono il modello del Regolamento bolognese del 2014, la pubblica amministrazione agisce «[…] in- centivando la nascita di cooperative, imprese sociali, start-up a vocazione sociale e lo sviluppo di attività e progetti a carattere economico, culturale e sociale» (articolo 7, comma 3 Regolamento di Bologna).
Vi sono però alcuni Regolamenti che assumono in maniera più manifesta una opzione di politica del diritto tesa a consentire ai cittadini attivi la realizzazione di determinate attività strettamente connesse ai patti di collaborazione. Per esem- pio, il Regolamento torinese tratta delle attività economiche al secondo comma dell’articolo 17, rubricato «autofinanziamento». Ferme restando la riconduzione di tali attività alla logica dell’autofinanziamento e la necessità di trasparenza su destinazione e impiego delle risorse raccolte, questa disposizione statuisce che «[…] il patto di collaborazione può prevedere la realizzazione di attività economiche, di carattere temporaneo o permanente, comunque accessorie nell’ambito del pro-