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Rischio e uso dei beni comuni: alla ricerca di un quadro di regole

Nel documento Manuale di diritto dei beni comuni urbani (pagine 194-200)

RISCHI, RESPONSABILITÀ, ASSICURAZIONE

7.3. Rischio e uso dei beni comuni: alla ricerca di un quadro di regole

La crescente rilevanza dei beni comuni urbani pone problemi inediti sotto diversi profili, per quanto riguarda la prevenzione dei rischi. Anzitutto, l’iden- tificazione di un bene comune conduce nella grande maggioranza dei casi ad avere a che fare con una scomposizione tra la formale imputazione del diritto di proprietà (che, per esempio, resta in capo all’amministrazione comunale) e la concreta attribuzione di prerogative di uso e di governo del bene (ricondotte ai cittadini attivi e alla comunità di riferimento): vedremo in seguito le ricadute di

una tale articolazione delle forme di appartenenza1. Inoltre, come sappiamo, in

1 Costituiscono eccezioni, rispetto alla differenziazione di situazioni giuridiche menzionata nel testo, le vere e proprie proprietà collettive e, per altri versi, il ricorso a soluzioni sofisticate come le fondazioni e i trust discussi nei capitoli 9, 10 e 11 di questo manuale.

presenza di un bene comune urbano le relazioni giuridiche tra soggetti e bene sono basate sull’uso pubblico e sull’accessibilità aperta: di conseguenza diventa molto problematico – per non dire impossibile – individuare un soggetto a cui attribuire in via esclusiva responsabilità delicate, connesse per esempio alla prevenzione unilaterale dell’insorgenza di fattori di rischio e/o al controllo del rispetto di eventuali prescrizioni in materia di sicurezza.

La difficoltà appena rilevata, a ben vedere, pone in evidenza le principali complicazioni relative alla prevenzione dei rischi connessi alla rigenerazione, cura e gestione dei beni comuni urbani. Il governo di questi beni si traduce in meccanismi giuridici inclusivi e collettivi, pensati per incentivare cooperazione sociale e legami di solidarietà. Non esistono però strumenti specificamente volti a regolare la gestione dei rischi generati da questo tipo di relazioni umane, e ciò per almeno due ragioni. Da un lato, il governo dei rischi della vita associata è sempre più spesso ricostruito attribuendo a soggetti precisamente individuati poteri esclusivi di controllo sui fattori di rischio, con la correlativa imputazione a essi di forme di responsabilità civile oggettiva ossia tale – come vedremo me-

glio in seguito – da prescindere dalla colpevolezza del danneggiante2. Va da sé

che le attività di rigenerazione, cura e gestione dei beni comuni sono ben poco suscettibili di essere inquadrate in questi termini. Dall’altro lato, rileva soprat- tutto la frequente sussistenza di una proprietà pubblica su beni identificati come comuni: come vedremo la proprietà pubblica implica certamente un ruolo delle pubbliche amministrazioni in materia di prevenzione dei rischi, ma purtroppo la posizione giuridica degli enti locali – il che significa, in concreto, di funzionari, dirigenti e amministratori – viene ricostruita in maniera forse non esente da critiche, con il ricorso a strumenti del diritto penale come l’articolo 40, comma 2 c.p., ai sensi del quale «non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo». Se, allora, da un compito di prevenzione dei rischi può agevolmente venire desunta una responsabilità penale omissiva e colposa, è comprensibile che il timore di essere coinvolti in procedimenti penali possa condurre il personale delle amministrazioni comunali a due reazioni uguali e contrarie: regolare in maniera gerarchica e dettagliatissima ciò che i cittadini attivi possono fare e ciò che è a essi vietato, con l’assunzione di una impropria posizione direttiva e la connessa negazione dell’autonomia civica della cittadinan- za; oppure addossare il più possibile ruoli di prevenzione e garanzia agli stessi cittadini attivi, con un atteggiamento che si risolve in un problematico tentativo di deresponsabilizzazione del settore pubblico.

Questi sono senz’altro alcuni tra i più importanti motivi alla base della così forte attenzione dedicata da alcune pubbliche amministrazioni alla materia della sicurezza e della prevenzione dei rischi. Del resto, si è visto che i Regolamenti comunali emanati sulla scia del modello bolognese contengono previsioni che suscitano incertezze e non risultano molto di aiuto. Nella ricerca di un quadro di regole capace di razionalizzare il rapporto tra uso dei beni comuni e gestione

2 Tale è il caso della responsabilità del custode prevista dall’articolo 2051 c.c., della quale ci occu- peremo nei prossimi paragrafi. Ma non molto differente, in termini di allocazione di responsabilità, è la posizione di un datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti.

dei relativi rischi, le fonti regolamentari hanno adottato un linguaggio e delle soluzioni che, riconducibili come sono alla disciplina del Testo Unico per la sicurezza sul lavoro, sembrano sia aggravare in maniera irragionevole la posi- zione delle amministrazioni comunali, sia restringere eccessivamente gli spazi di attivazione dei cittadini.

Una prospettiva, questa, che pur risultando coerente con quanto abbiamo visto poc’anzi – con riguardo alle reazioni dei dipendenti pubblici a fronte del ruolo di garanzia attribuito alle pubbliche amministrazioni – non può certo incentivare processi di rigenerazione, cura e gestione dei beni comuni urbani.

7.3.1. Il Testo Unico per la sicurezza sul lavoro e la cura dei beni comuni urbani

All’esito della riflessione condotta fino a ora diventa necessario un chiarimento di fondo: i cittadini attivi non possono considerarsi «lavoratori» alle dipendenze delle amministrazioni comunali; parimenti, i beni comuni urbani non sono con- figurabili come «luoghi di lavoro».

Queste affermazioni non possono sorprenderci, alla luce delle analisi contenute nei capitoli 1, 2 e 5 di questo manuale: esse diventano però cruciali nell’ambito della prevenzione dei rischi. Infatti, ribadire che i cittadini che si attivano nei confronti di un bene comune non sono equiparabili a dei lavoratori ha come corollario la necessità di riconoscere che non c’è alcuna ragione per applicare, sempre e comunque, il Testo Unico per la sicurezza sul lavoro nei rapporti giu- ridici costituiti tra amministrazioni comunali, cittadini attivi e soggetti terzi (per esempio i fruitori occasionali dei beni comuni urbani).

Un tale passaggio è molto importante per diversi motivi. In primo luogo con esso pare potersi definire un più corretto ambito di applicazione del d.lgs. 81/2008. Il Testo Unico postula infatti l’esistenza di rapporti giuridici e di potere asim- metrici, con la conseguente esigenza di tutelare quei soggetti che, a prescindere dal formale inquadramento contrattuale e perfino dalla retribuzione, operano al servizio di una parte datoriale che punta a ottenere per sé vantaggi e profitti dalle prestazioni lavorative altrui. Questa ratio fondamentale può cogliersi in maniera evidente nella definizione molto larga che di «lavoratore» offre l’articolo 2, com- ma 1 lett. a) del Testo Unico: «persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari. Al lavoratore così definito è equiparato: il socio lavoratore di cooperativa o di società, anche di fatto, che presta la sua attività per conto delle società e dell’ente stesso; l’associato in partecipazione di cui all’articolo 2549, e seguenti del codice civile; il soggetto beneficiario delle iniziative di tirocini for- mativi e di orientamento di cui all’articolo 18 della l. 24 giugno 1997, n. 196, e di cui a specifiche disposizioni delle leggi regionali promosse al fine di realizzare momenti di alternanza tra studio e lavoro o di agevolare le scelte professionali mediante la conoscenza diretta del mondo del lavoro; l’allievo degli istituti di istruzione e universitari e il partecipante ai corsi di formazione professionale nei quali si faccia uso di laboratori, attrezzature di lavoro in genere, agenti chimici, fisici e biologici, ivi comprese le apparecchiature fornite di videoterminali limita-

tamente ai periodi in cui l’allievo sia effettivamente applicato alle strumentazioni o ai laboratori in questione; i volontari del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e della protezione civile; il lavoratore di cui al d.lgs. 1° dicembre 1997, n. 468, e successive modificazioni».

Ebbene, anche una definizione così ampia non consente, di regola, di ricondurre alla qualifica di lavoratore le espressioni di autonomia civica poste in essere dai cittadini che si attivano per la rigenerazione, cura e gestione dei beni comuni urbani. Una conferma di ciò si desume indirettamente da due elementi. In pri- mo luogo occorre evidenziare che la versione originaria dell’articolo 2, comma 1 lett. a) del d.lgs. 81/2008 contemplava nella nozione di lavoratore anche «il volontario, come definito dalla legge 11 agosto 1991, n. 266». La soppressione di questo inciso a opera del d.lgs. 3 agosto 2009, n. 106 è più che un indizio circa la chiara intenzione del legislatore di escludere le attività umane effettivamente volontarie e spontanee dall’applicazione integrale della disciplina in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro. Inoltre rileva l’articolo 4 del medesimo Testo Unico, relativo al calcolo del numero dei lavoratori nei casi in cui una certa quantità di lavoratori faccia scattare peculiari obblighi: ai sensi del comma 1 lett. g) di questo articolo non sono computati tra i lavoratori «i volontari, come definiti dalla l. 11 agosto 1991, n. 266, i volontari del Corpo nazionale dei vigili del fuoco e della protezione civile e i volontari che effettuano il servizio civile».

Per le ragioni che abbiamo discusso nel capitolo 2 di questo manuale, è evi- dente che la nozione di cittadino attivo è più facilmente avvicinabile a quella di volontario che non alla definizione di lavoratore data dal Testo Unico 81/2008. Ciò significa, quindi, che gli enti locali non hanno alcun obbligo di applicare, nella sua interezza, la disciplina in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro nei confronti dei cittadini attivi con cui si relazionano.

Una simile conclusione è assai importante perché conferma il carattere inap- propriato delle previsioni contenute nei Regolamenti adottati sulla scorta del modello bolognese, potendo così avere positive ricadute sulla ricostruzione del- la posizione delle amministrazioni pubbliche e della cittadinanza in materia di prevenzione dei rischi. A tal proposito, è in primo luogo corretto ritenere che al formale proprietario (sia esso la pubblica amministrazione o un soggetto privato) di un bene identificato come bene comune urbano sia da imputare – anche in costanza di forme di governo condiviso o di auto-governo – un ruolo di controllo e garanzia per quanto riguarda gli aspetti di tenuta strutturale del bene stesso. Per spiegare questo riparto degli obblighi di prevenzione, così come della even- tuale correlativa allocazione di responsabilità, è agevole ricorrere all’esempio degli spazi al chiuso (edifici o porzioni di edifici), su cui torneremo a breve: è chiaro, infatti, che in queste situazioni il fatto che cittadini attivi svolgano atti- vità di rigenerazione, cura e gestione non elimina l’obbligo del proprietario di controllare e prevenire i fattori di rischio connessi a muri portanti o impianti. All’infuori di tale precisazione, diventa assai arduo pensare di poter attribuire a soggetti specificamente individuati – tanto le amministrazioni comunali, quanto i cittadini attivi – obblighi di prevenzione da adempiere adottando in maniera unilaterale misure di sicurezza.

7.3.2. Segue: questioni problematiche e possibili inquadramenti concreti

Quanto osservato fino a ora ci consente di affermare che istanze (legittime e anzi meritorie) volte a garantire tanto la posizione delle pubbliche amministrazio- ni, quanto la sicurezza delle attività della cittadinanza devono essere perseguite con attenta consapevolezza delle specificità presentate dai beni comuni urbani. Diversamente si corre il rischio di dare corpo a scenari paradossali, escogitando soluzioni operative che tendono a produrre esiti opposti a quelle che sono le intenzioni proclamate: tale è il caso di quei Regolamenti sui beni comuni che vengono attuati collocando le amministrazioni comunali in una posizione diret- tiva e gerarchicamente sovraordinata nei confronti dei cittadini attivi. Una simile ricostruzione dei rapporti tra i soggetti del diritto dei beni comuni urbani non è soltanto poco compatibile con i principi dei Regolamenti e la rilevanza giuridica dei beni comuni, ma può anche costringere gli interpreti a ravvisare posizioni di garanzia analoghe a quelle di un datore di lavoro.

Sembra lampante, in tal senso, l’esempio offerto dalla previsione di documenti o verbali variamente denominati, ma comunque riconducibili alle figure dei documenti di valutazione dei rischi la cui redazione è richiesta dal Testo Unico per la sicurezza sul lavoro. Si pensi al documento di cui agli articoli 17, comma 1 lett. a) e 28 del d.lgs. 81/2008, che deve essere redatto a cura del datore di

lavoro nel rispetto di un contenuto dettagliatissimo3. Oppure si pensi al DUVRI

(Documento Unico per la Valutazione dei Rischi Interferenti) previsto dall’ar- ticolo 26 del Testo Unico «in caso di affidamento di lavori, servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all’interno della propria azienda, […] sempre che [il committente] abbia la disponibilità giuridica dei luoghi in cui si svolge l’appalto o la prestazione di lavoro autonomo». Ai sensi del comma 3 di questo articolo, «il datore di lavoro committente promuove la cooperazione e il coordinamento […] elaborando un unico documento di valutazione dei rischi che indichi le misure adottate per eliminare o, ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze ovvero individuando, limitatamente ai settori di attività a basso rischio […], con riferimento sia all’attività del datore di lavoro committente sia alle attività dell’impresa appaltatrice e dei lavoratori autonomi, un

proprio incaricato […] per sovrintendere a tali cooperazione e coordinamento»4.

Obbligando i cittadini attivi a redigere (o ad accettare) questi documenti, nonché perfino a individuare un singolo supervisore responsabile di garantire il rispetto degli obblighi di sicurezza e di condotta indicati nei documenti (e, di fatto, spesso

3 Tra i contenuti che questo documento deve obbligatoriamente recare, possono segnalarsi per lo meno le lettere b) e d) del comma 2 dell’articolo 28: «l’indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate e dei dispositivi di protezione individuali adottati a seguito della valutazione […]»; «l’individuazione delle procedure per l’attuazione delle misure da realizzare, nonché dei ruoli dell’organizzazione aziendale che vi debbono provvedere, a cui devono essere assegnati unicamente soggetti in possesso di adeguate competenze e poteri».

4 Al DUVRI sembra quasi completamente equiparabile il c.d. “verbale di coordinamento e coo- perazione”, escogitato dall’amministrazione comunale torinese nell’ambito del progetto Co-City. Nel testo manifestiamo significative riserve nei riguardi dell’adozione di simili documenti: non è dunque necessario svolgere ulteriori rilievi sul punto.

prescritti dai comuni), le pubbliche amministrazioni non fanno che attivare un meccanismo giuridico largamente controproducente. Invece di ridimensionare e ben gestire i problemi effettivamente connessi alla prevenzione dei rischi e all’allocazione delle eventuali responsabilità, esse finiscono con il determinare una situazione che può agevolmente ricadere nell’ambito di applicazione dell’articolo 299 del d.lgs. 81/2008, rubricato «esercizio di fatto di poteri direttivi», a mente del quale «le posizioni di garanzia relative ai soggetti di cui all’articolo 2, comma 1, lettere b), d) ed e) [del datore di lavoro, del dirigente e del preposto], gravano altresì su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura, eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti a ciascuno dei soggetti ivi definiti».

Nella maggior parte delle situazioni che possono concretamente verificarsi, evitare questo irragionevole esito è possibile. Ma occorre emanciparsi da due tendenze connesse: da un lato quella che concepisce sempre e comunque gli enti locali come datori di lavoro committenti; dall’altro lato quella che configura i cittadini attivi alternativamente come soggetti privi di autonomia decisionale (da dirigere con precise istruzioni) o come appaltatori cui sono affidati lavori e/o servizi pubblici (da responsabilizzare trasferendo parte degli obblighi di prevenzione). In concreto, sarebbe senz’altro preferibile che la valutazione dei rischi potenzialmente connessi alle attività di rigenerazione, cura e gestione dei beni comuni urbani sia effettuata senza adottare documenti che – a prescindere dalla denominazione utilizzata – conducono a definire le posizioni delle am- ministrazioni comunali e dei cittadini attivi alla stregua del Testo Unico per la sicurezza sul lavoro.

Una possibilità in questa direzione, peraltro, è offerta dallo stesso d.lgs. 81/2008. L’articolo 3 di questo decreto, relativo al «campo di applicazione» della disciplina ivi contenuta, precisa al comma 12 bis che l’applicazione del Testo Unico per la sicurezza sul lavoro è quasi integralmente esclusa «nei confronti dei volontari di cui alla legge 11 agosto 1991, n. 266, dei volontari che effettuano servizio civile, dei soggetti che svolgono attività di volontariato in favore delle associazioni di promozione sociale di cui alla legge 7 dicembre 2000, n. 383, delle associazioni sportive dilettantistiche di cui alla legge 16 dicembre 1991, n. 398, e all’articolo

90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 […]»5. Ferma restando la necessità di

coordinare tali riferimenti normativi con le abrogazioni disposte dalla riforma del terzo settore (in merito alla quale rinviamo al capitolo 2 di questo manuale), e pur tenendo presente che la previsione ora riportata sembra applicabile an- zitutto nei rapporti tra i singoli volontari e le formazioni sociali cui tali soggetti partecipano, in questa sede è importante evidenziare che la nozione di cittadini

5 La disposizione citata nel testo è completata dalla previsione secondo cui «ove uno dei soggetti di cui al primo periodo svolga la sua prestazione nell’ambito di un’organizzazione di un datore di lavoro, questi è tenuto a fornire al soggetto dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti negli ambienti nei quali è chiamato a operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza adottate in relazione alla sua attività. Egli è altresì tenuto ad adottare le misure utili a eliminare o, ove ciò non sia possibile, a ridurre al minimo i rischi da interferenze tra la prestazione del soggetto e altre atti- vità che si svolgano nell’ambito della medesima organizzazione». La specificazione legislativa risulta ragionevole, ma non appare applicabile ai cittadini attivi in quanto i beni comuni urbani non possono considerarsi “organizzazione di un datore di lavoro”.

attivi può essere facilmente avvicinata a quelli che sono i soggetti e le formazioni sociali contemplati da questa disposizione. Tale affinità pare consentire, nel di- ritto dei beni comuni urbani e nei confronti dei cittadini attivi, una applicazione analogica degli articoli 3, comma 12 bis e 21 (richiamato dalla prima norma) del decreto 81/2008. In concreto, ai sensi dell’articolo 21, comma 1 del Testo Unico ciò significherebbe prospettare in capo ai cittadini attivi obblighi di sicurezza dav- vero minimali: «a) utilizzare attrezzature di lavoro in conformità alle disposizioni di cui al titolo III; b) munirsi di dispositivi di protezione individuale e utilizzarli

conformemente alle disposizioni di cui al titolo III»6.

Un simile assetto sarebbe senz’altro ragionevole e consentirebbe ai cittadini attivi di avere – in via di principio – margini di azione autonoma, prudente e adeguata agli obiettivi di rigenerazione, cura e gestione dei beni comuni urbani, senza tuttavia che ciò si traduca in una deresponsabilizzazione diffusa o, peggio ancora, in una tendenza a moltiplicare i fattori di rischio connessi all’uso pubblico e all’accesso ai beni comuni.

Dobbiamo da ultimo precisare che il quadro così prospettato potrebbe, natu- ralmente, subire eccezioni: una tra queste sembra individuabile nel caso, a dire il vero remoto, in cui un’amministrazione comunale decida di disporre, come forma di sostegno in favore dei cittadini attivi, un affiancamento di dipendenti pubblici che si concretizzi nella presenza (frequente o continuativa) di tali soggetti presso un bene comune urbano. In queste situazioni la presenza di lavoratori che operino alle dipendenze e sotto la direzione dell’amministrazione comunale sarebbe suscettibile di integrare la qualificazione giuridica del bene, che oltre che come “bene comune urbano” rileverebbe come vero e proprio “luogo di lavoro” (per questo orientamento cfr. Cass. pen. sez. IV, 22 marzo 2016, n. 12223; e Cass. pen. sez. IV, 20 gennaio 2014, n. 2343). Ciò comporterebbe significative complicazioni, in quanto il Testo Unico per la sicurezza sul lavoro dovrebbe applicarsi nella sua interezza non solo nel rapporto tra parte datoriale (ente lo- cale) e lavoratori (dipendenti pubblici che effettuano l’affiancamento), ma anche a tutela di tutti i soggetti legittimamente presenti in un ambiente qualificabile come luogo di lavoro (ossia i cittadini attivi e i fruitori occasionali presso il bene comune urbano).

6 La disposizione riportata prosegue con una lettera c) che impone di «munirsi di apposita tes- sera di riconoscimento corredata di fotografia, contenente le proprie generalità, qualora [i volontari] effettuino la loro prestazione in un luogo di lavoro nel quale si svolgano attività in regime di appalto o subappalto»: ma come si è visto non è questa la situazione giuridica in cui si trovano i cittadini attivi. L’articolo 21 del Testo Unico per la sicurezza sul lavoro è completato da un comma secondo che, per ragioni di completezza, riportiamo di seguito: «i soggetti di cui al comma 1, relativamente ai rischi propri delle attività svolte e con oneri a proprio carico hanno facoltà di: a) beneficiare della sorveglianza sanitaria secondo le previsioni di cui all’articolo 41, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali; b) partecipare a corsi di formazione specifici in materia di salute e sicurezza sul lavoro, incentrati sui rischi propri delle attività svolte, secondo le previsioni di cui all’articolo 37, fermi restando gli obblighi previsti da norme speciali».

Nel documento Manuale di diritto dei beni comuni urbani (pagine 194-200)

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