• Non ci sono risultati.

Le regole sul destino di opere, miglioramenti e addizion

Nel documento Manuale di diritto dei beni comuni urbani (pagine 146-151)

LE ATTIVITÀ DEI PATT

5.7. Le regole sul destino di opere, miglioramenti e addizion

Dopo aver analizzato in che termini e con quali margini di autonomia i cittadini attivi possono effettuare interventi su un bene comune, occorre ora verificare quale possa essere, alla scadenza di un patto di collaborazione, il trattamento giuridico riservato a queste opere e, in particolare, la loro appartenenza.

I Regolamenti comunali per lo più non contengono regole circa la sorte cui gli interventi dei cittadini vanno incontro una volta venuto meno un patto. Dal punto di vista del diritto privato, ci si trova dinanzi a un ordine di problemi piuttosto noto, che si presenta ogniqualvolta interventi sul bene avvengano in una situazione di dissociazione tra godimento effettivo e imputazione for- male della proprietà. Rilevano in particolare le previsioni che il codice civile dedica – tra le molte, quelle in materia di enfiteusi (art. 975), usufrutto (artt. 985-986), uso e abitazione (arg. ex art. 1026 c.c.) possesso (art. 1150), locazione

(artt. 1592-1593)13 – alla disciplina di «miglioramenti» e «addizioni». Queste

13 Enfiteusi, usufrutto, uso e abitazione sono diritti reali disciplinati nel codice civile italiano, e tradizionalmente definiti “minori” poiché le prerogative del titolare di questi diritti insistono su beni che ricadono in proprietà di un altro soggetto (il c.d. nudo proprietario). Queste situazioni giuridiche attribuiscono al titolare facoltà più (enfiteusi) o meno (abitazione) estese di uso e fruizione

categorie appartengono al vocabolario più classico del diritto privato e sono molto simili, tanto che la corretta riconduzione di un’opera alla prima o alla seconda delle due nozioni è spesso, ancora oggi, una operazione interpreta- tiva problematica. Tradizionalmente, con un approccio qualitativo-funzionale sono considerati «miglioramenti» quegli interventi – o meglio i risultati degli interventi – suscettibili di “incorporarsi” strutturalmente a un bene principale e così di apportarvi un aumento durevole di utilità e di valore. Da un punto di vista più fisico-descrittivo, sono invece qualificate come «addizioni» quelle opere che, pur impattando positivamente sulla consistenza di un bene princi- pale, sono di regola agevolmente separabili in quanto hanno mantenuto una propria individualità funzionale.

In virtù di questa impostazione complessiva, nel disciplinare gli istituti so- pra menzionati il codice civile contiene alcuni criteri ricorrenti per regolare la sorte di miglioramenti e addizioni. Nel caso di miglioramenti, ossia di in- terventi che sono funzionalmente integrati in maniera permanente a un bene principale, l’autore delle opere gode di tutele riconducibili al generale divieto di ingiustificati arricchimenti: in alcuni casi (enfiteusi; possesso di buona fede) è riconosciuta un’indennità corrispondente all’aumento di valore conseguito dal bene grazie ai miglioramenti; in altre situazioni (usufrutto, uso, abitazione,

possesso di mala fede, locazione con il previo consenso del locatore14) l’inden-

nità sarà corrisposta «nella minor somma tra l’importo della spesa e l’aumento di valore» ottenuto dal bene.

Assai diverse risultano le soluzioni relative alle addizioni, che muovono dal presupposto della agevole separabilità dei prodotti degli interventi migliorativi. In tal senso, di regola l’autore delle addizioni vanta il diritto di rimuovere le opere compiute alla scadenza del rapporto giuridico di cui è parte. È però attribuita alla controparte (il concedente nell’enfiteusi, il nudo proprietario, il locatore) la facoltà potestativa di tenere le addizioni, acquistandone la proprietà: in questo caso torna a operare il divieto di arricchimenti ingiusti, cosicché l’autore delle opere matura il diritto a ricevere indennità quantificate secondo criteri similari

a quelli menzionati poc’anzi15. A ogni modo, una regola di chiusura rende ap-

plicabili le previsioni in materia di miglioramenti ogniqualvolta le addizioni non

dei beni che ne costituiscono l’oggetto. D’altra parte essi impongono oneri di cura che costitui- scono forme di garanzia per il nudo proprietario che, con l’estinzione del diritto reale minore, si gioverà della ri-espansione del proprio diritto. Il possesso non è invece un diritto, costituendo una situazione di fatto ossia «il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale» (articolo 1140 c.c.). La locazione è un contratto che, nell’ordinamento italiano, può costituire in capo al conduttore solo diritti personali (e non reali) di godimento.

14 Da segnalare che, secondo il primo periodo del comma 1 dell’art. 1592 c.c., in assenza di pre- vio consenso del locatore «salvo disposizioni particolari della legge o degli usi, il conduttore non ha diritto a indennità per i miglioramenti apportati alla cosa locata».

15 Nell’enfiteusi il concedente che voglia ritenere le addizioni «deve pagarne il valore al tempo della riconsegna» (art. 975 comma 3 c.c.). Per usufrutto, uso e abitazione (art. 986 c.c.), nonché per la locazione (art. 1593 c.c.), vale invece la misura “ordinaria” della «minor somma tra l’importo della spesa e il valore delle addizioni al tempo della riconsegna».

risultino separabili senza nocumento del bene principale: il che è comprensibile in una prospettiva funzionale, dal momento che in simili situazioni la differenza tra miglioramenti e addizioni sfuma fino a scomparire.

Verifichiamo adesso quali soluzioni giuridiche è possibile prospettare, quando i miglioramenti e le addizioni siano frutto dell’opera dei cittadini attivi e riguar- dino un bene comune urbano.

Sicuramente, una serie di indicazioni avvicinabili alle disposizioni del codice civile in materia di miglioramenti e addizioni potrebbe essere offerta da una distinzione ascrivibile alla materia edilizia: quella tra opere permanenti e opere provvisorie. Dal momento che le due coppie di categorie – miglioramenti/addi- zioni; opere permanenti/opere provvisorie – presentano significativi parallelismi, non è impossibile immaginare che i Regolamenti in materia di beni comuni urbani contengano in futuro disposizioni sul trattamento giuridico delle opere eseguite dai cittadini attivi (con affidamento a terzi o tramite auto-costruzione), a seconda del carattere permanente (ossia più vicino alla nozione civilistica di «miglioramenti») o provvisorio (e pertanto più riconducibile al concetto di «ad-

dizioni») degli interventi realizzati16.

Sembra in ogni caso opportuno che amministrazioni comunali e cittadini attivi facciano riferimento al codice civile per definire i propri rapporti in merito agli interventi che abbiano interessato in senso migliorativo un bene comune.

Prendendo in considerazione le concrete indicazioni emerse nell’ambito del progetto torinese Co-City, si può segnalare come – al fine di scegliere tra le diverse opzioni di disciplina sopra menzionate – la redazione dei patti di collaborazione abbia anzitutto tenuto conto del carattere cooperativo dei rapporti giuridici che ente locale e cittadini attivi instaurano. Questo aspetto qualificante delle relazio- ni di rigenerazione, cura e gestione dei beni comuni urbani consiglia infatti di demandare in prima battuta alle parti una decisione concordata circa le sorti di ogni intervento e opera che interessino in senso migliorativo il bene oggetto del patto. A tal proposito nei modelli di patto elaborati a Torino si è prevista per le Parti la possibilità di stabilire la rimozione o il mantenimento delle opere, al momento dell’accordo sulla loro realizzazione.

D’altra parte risulta necessario predisporre regole di default, ossia applicabili anche nel caso in cui i cittadini attivi trovino con l’amministrazione un accordo

16 Una disciplina specifica e articolata in materia di «manufatti provvisori» è contenuta, per esempio, nell’articolo 116 del Regolamento edilizio del comune di Milano. Se ne riporta di seguito il comma 1: «i manufatti provvisori sono fabbricati in struttura leggera e facilmente amovibili, destinati ad assolvere a esigenze meramente temporanee e come tali non sono considerati nuove costruzioni e la loro permanenza non può superare i ventiquattro mesi, fatta salva la possibilità di proroga ai sensi del comma 3. Essi devono comunque concorrere alla valorizzazione dell’ambiente urbano attra- verso l’uso di materiali di qualità e l’attenzione alla fruibilità degli spazi circostanti da parte di tutti i cittadini. I relativi progetti devono indicare il periodo di permanenza, descrivere il manufatto in tutte le sue parti nonché l’intorno nel quale esso si inserisce, con particolare attenzione ai percorsi, alla vegetazione da mantenere e agli eventuali accorgimenti volti a mitigarne l’impatto sull’ambiente circostante. La loro installazione è subordinata alla costituzione di un deposito cauzionale, a garanzia della rimozione, pari alla metà del valore del manufatto, valutato secondo i vigenti bollettini per l’esecuzione di opere edilizie».

(in via generale o in maniera puntuale) soltanto sulla realizzazione di interventi e opere, senza nulla statuire in merito alla sorte degli stessi alla scadenza del patto. A questo riguardo è bene chiarire che ogni soluzione prospettabile in astratto – la previsione che privilegia il mantenimento, o l’opposta regola che obbliga alla rimozione – appare in linea di massima ragionevole. Da un lato è infatti possibile ipotizzare che i cittadini attivi tendano a realizzare interventi migliorativi non improvvisati e dunque capaci di un positivo impatto sul bene comune urbano, in quanto funzionali a una migliore generazione di utilità comuni e a una più agevole fruizione pubblica del bene stesso anche al termine della durata del patto. Dall’altro lato, a tutela dell’integrità del bene è consigliabile non “ecce- dere” nell’incentivazione di interventi dei cittadini attivi: per esempio, sembra di regola opportuno evitare che modificazioni irreversibili di un bene comune pregiudichino la possibilità che esso offra utilità ulteriori e diverse rispetto a quanto previsto da uno specifico patto di collaborazione.

A quanto consta, l’unico Regolamento comunale che contiene esplicite previ- sioni sul destino di interventi e opere realizzati dai cittadini attivi è quello vero- nese. In particolare occorre prendere in considerazione l’articolo 9, relativo agli «interventi di cura e valorizzazione di spazi pubblici e privati a uso pubblico». Le scelte regolamentari effettuate nell’esperienza scaligera appaiono ponderate e ragionevoli, come attestato dai commi 2 e 3 dell’articolo in commento: «2. Le proposte di collaborazione di cui al comma 1 indicheranno nel patto di sussi- diarietà se sia attribuita in via diretta ai cittadini attivi o al Comune l’esecuzione degli interventi previsti. 3. Eventuali opere e miglioramenti e/o addizioni agli spazi oggetto degli interventi di cui all’art. 8 del presente regolamento dovranno essere realizzati senza oneri per l’Amministrazione e saranno dalla stessa ritenuti, entrando nel patrimonio comune della collettività». La città di Verona ha dunque optato per l’acquisto a titolo gratuito della proprietà di miglioramenti e addizio- ni apportati dai cittadini attivi nell’esecuzione di un patto di collaborazione. La regola appare vieppiù significativa per due ragioni. Da un lato, fa riferimento a una nozione come «patrimonio comune della collettività», distante da concezioni individualistiche della proprietà. Dall’altro lato, è astrattamente applicabile an- che agli spazi di proprietà privata che siano in uso pubblico, così confermando quanto già evidenziato nel capitolo 2: il valore d’uso dei beni comuni urbani può trascendere la formale imputazione pubblica o privata del titolo di proprietà.

Una soluzione differente è quella elaborata nell’ambito del progetto Co-City. In questo caso, con l’obiettivo di avere ex ante la maggiore chiarezza possibile nei rapporti tra le parti – in mancanza di una specifica pattuizione negoziale tra le stesse – si è previsto che i cittadini siano tenuti, alla scadenza del Patto, alla rimozione delle opere realizzate sul bene comune urbano. Una simile previsio- ne, opposta a quella contenuta nel Regolamento di Verona, è riconducibile a considerazioni di ordine pragmatico. Infatti, il principio dell’acquisto gratuito in capo al proprietario di ogni opera migliorativa realizzata dai cittadini attivi comporta senz’altro un vantaggio nell’immediato. Ma esso implica anche un onere di medio e lungo termine, nella misura in cui il nuovo proprietario sarà chiamato a effettuare maggiori investimenti (sostenendo i relativi costi) per la corretta manutenzione di miglioramenti e addizioni apportati nella cornice

di un patto di collaborazione. In tal senso, le attuali e ben note condizioni di ristrettezza dei bilanci degli enti locali hanno consigliato “cautela”, portando la Città di Torino a scartare il principio dell’acquisto. A ogni modo la rigidità di una tale regola residuale è temperata da due possibili eccezioni. Da un lato, al comune è attribuita la facoltà di decidere in maniera discrezionale di tenere fermi gli interventi migliorativi dei cittadini attivi, evitandone così la rimozione. Dall’altro lato la rimozione non può in ogni caso avere luogo, laddove «essa arrechi nocumento al bene comune urbano»: un tale criterio di ragionevolezza, applicabile per le opere non facilmente asportabili e opportunamente ripreso dal codice civile, pone in primo piano le esigenze di tutela della integrità e delle funzionalità del bene. Da ultimo, anche nell’esperienza torinese del progetto Co- City si è disposto che la Città acquisti sempre a titolo gratuito la proprietà delle opere e degli interventi realizzati.

Un chiarimento conclusivo è opportuno per spiegare le ragioni per cui l’ac- quisto delle opere migliorative avviene, a favore dell’amministrazione pubblica (o anche del proprietario privato, nel caso in cui un patto abbia a oggetto un bene comune urbano formalmente privato), a titolo gratuito e senza compensazioni per i cittadini attivi che le hanno realizzate. Questa previsione, riscontrabile tanto nel Regolamento veronese quanto nell’esperienza torinese, potrebbe infatti sembrare contraria alle regole applicate (tra proprietario ed enfiteuta; tra proprietario e usufruttuario; tra proprietario e possessore; tra proprietario e conduttore) in materia di miglioramenti e addizioni. Tale disciplina trova fondamento nel gene- rale divieto di arricchimenti senza giusta causa (argomento desunto dall’articolo 2041 c.c.) e prevede che, nei rapporti patrimoniali successivi alla realizzazione di miglioramenti e addizioni, il diritto offra tutela al soggetto c.d. “impoverito” riconoscendo in suo favore forme di indennizzo.

A ben vedere, però, la mancata previsione di un diritto all’indennità in capo ai cittadini attivi, nemmeno «nella minor somma tra l’importo della spesa e l’aumento di valore» del bene (così l’art. 1150 c.c. in merito ai miglioramenti apportati dal possessore di mala fede), può essere giustificata dal tipo di attività che i cittadini pongono in essere nei riguardi di un bene comune urbano. Gli interventi di rigenerazione, cura e gestione sono infatti svolti per ragioni pro- fondamente solidaristiche, in vista di un uso pubblico effettivo e della più ampia accessibilità del bene di cui sia riconosciuta la qualità comune, nonché con atten- zione di lungo periodo agli interessi delle generazioni future. Appare pertanto corretto affermare che, salve possibili eccezioni, rispetto alla materia del governo cooperativo dei beni comuni non risulta pertinente impiegare il criterio appena menzionato: gli interventi migliorativi posti in essere dai cittadini attivi, sebbene valutabili in termini monetari, non sembrano, di regola, qualificabili come apporti che danno luogo a impoverimenti suscettibili di essere indennizzati; al contrario essi assumono i caratteri di prestazioni solidaristiche e gratuite, effettuate con una logica differente da quella che giustificherebbe un indennizzo.

Nel documento Manuale di diritto dei beni comuni urbani (pagine 146-151)

Documenti correlati