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I cittadini att

Nel documento Manuale di diritto dei beni comuni urbani (pagine 53-62)

L’OGGETTO DEI PATTI DI COLLABORAZIONE I beni comuni urbani tra uso pubblico e accesso

PER APPROFONDIRE (4)

2.2. I cittadini att

Sono cittadini attivi coloro i quali, identificando un bene comune urbano spontaneamente o in risposta a sollecitazioni dell’amministrazione comunale, assumono iniziative per la cura di esso. Per indicare questi soggetti quasi tutti i Regolamenti oggi in vigore nei comuni italiani si ispirano al primo Regolamento bolognese del 2014, per l’appunto usando la locuzione «cittadini attivi». In par- ticolare ai sensi dell’articolo 2, comma 1 lettera c) del Regolamento di Bologna, importante perché trapiantato in molti altri contesti, sono cittadini attivi «tutti i soggetti, singoli, associati o comunque riuniti in formazioni sociali, anche di natura imprenditoriale o a vocazione sociale, che si attivano per la cura e rigenerazione dei beni comuni urbani ai sensi del presente regolamento».

È forse possibile, peraltro, adottare una terminologia differente per definire i soggetti dei beni comuni urbani: si pensi alle locuzioni «soggettività autonome o collettività civiche», adoperate nell’articolo 3, comma 1 lett. c) del Regolamento di Chieri; o ancora ai «soggetti civici» cui fa riferimento il nuovo Regolamento della Città di Torino (per la quale si rinvia all’appendice di questo manuale).

I prossimi paragrafi sono dedicati a presentare nello specifico tre sotto- categorie di cittadini attivi: le singole persone fisiche; gli enti e le formazioni sociali stabilmente organizzati; le comunità informali. Prima di prendere in considerazione le peculiarità delle tre sotto-categorie, però, è bene chiarire quali sono gli elementi qualificanti della nozione di cui ci si sta occupando.

Anzitutto si deve ribadire quel che si è già visto nel capitolo precedente: l’uso pubblico è il “ponte” che collega la nozione di bene comune urbano con quella di cittadini attivi, determinando il senso di entrambi questi concetti. In altri termini, nel diritto dei beni comuni urbani si può parlare di cittadini attivi solo con riferimento a un bene a cui la collettività può accedere. Allo stesso modo, occorre ammettere che non esistono beni “comuni per natura” e a prescinde- re dall’uso che se ne faccia: al contrario, un bene comune urbano può essere identificato e curato quando l’uso pubblico che ne viene fatto sia generativo di utilità «funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali della persona, al benessere individuale e collettivo, all’interesse delle generazioni future» (così, tra i tanti, l’articolo 2, comma 1 lett. a) del Regolamento di Torino).

Nel diritto dei beni comuni urbani, dunque, a essere centrale è la relazione di uso pubblico che si instaura tra tutti i soggetti che vi accedono per goderne e certe utilità offerte da un bene. L’accessibilità aperta serve, in questa ottica, a rendere effettive le possibilità di uso pubblico di un bene comune, evitando che la fruizione dello stesso sia riservata solo a certi soggetti e così sottoposta a logiche basate sull’esclusione. I Regolamenti sui beni comuni urbani sembrano tenere conto di tali importantissimi profili con una previsione piuttosto ricorrente, a mente della quale «l’intervento di cura, gestione condivisa e rigenerazione dei beni comuni urbani, inteso quale concreta manifestazione della partecipazione alla vita della comunità e strumento per il pieno sviluppo della persona umana, è aperto a tutti, senza necessità di ulteriore titolo di legittimazione» (in questi termini l’articolo 4, comma 1 del Regolamento torinese; ma disposizioni simili si rinvengono in ogni città).

Se quanto si è appena visto è vero, risulta allora facile ammettere che per diventare cittadini attivi non è necessario che più individui siano stabilmente organizzati in un ente: di conseguenza, l’identificazione e la cura di un bene comune possono avvenire anche da parte di una comunità informale. Su tali aspetti di informalità ci soffermeremo più avanti. Ma già ora si può notare che, sul punto, esistono scelte restrittive: si pensi al caso di Livorno, che considera

cittadini attivi soltanto «tutti i soggetti costituiti in forme associative»1; oppure

all’impostazione veronese, secondo cui «ove il soggetto proponente sia costituito

1 Ai sensi dell’articolo 2, comma 1 lettera d) del Regolamento livornese sono cittadini attivi «tutti i soggetti costituiti in forme associative, quali le associazioni, comitati, fondazioni, cooperative, organi di partecipazione democratica, organizzazioni e realtà di volontariato riconducibili all’area del “Terzo Settore” (o settore No profit), anche di natura imprenditoriale e/o a vocazione sociale nonché istituti scolastici di ogni ordine e grado». Oltre che dalla negazione del possibile carattere informale della comunità che identifica un bene comune urbano, l’orientamento restrittivo del comune toscano sembra attestato dall’esplicito richiamo al “terzo settore” (si rammenta che il Codice del terzo settore prevede un registro nazionale unico degli enti).

da una pluralità di cittadini attivi e/o associazioni, di cui all’art. 4, comma 2, del presente regolamento, per la stipula del patto di sussidiarietà dovrà costituirsi, ai sensi di legge, una associazione temporanea di scopo, mediante una scrittura

privata, anche non registrata»2.

Il carattere aperto della rigenerazione, cura e gestione dei beni comuni può riscontrarsi in un ulteriore elemento qualificante della nozione di cittadini attivi. Infatti, se il diritto dei beni comuni è fondato sull’uso pubblico e sull’inclusione, e se gli interventi di cura e gestione sono in linea di principio aperti a tutti, ne discende che non occorre, come già detto, avere la cittadinanza italiana per poter esercitare tali prerogative e attività. Quando si ha a che fare con la cura dei beni comuni in un tessuto urbano, né lo status di cittadino italiano né elementi come la formale residenza in un certo territorio comunale possono diventare requisiti tali da ostacolare o riservare le espressioni di partecipa- zione e autonomia civica. Concezioni identitarie delle forme di appartenenza collettiva, con le connesse visioni chiuse delle comunità di riferimento, sono rigettate dal diritto dei beni comuni: pertanto i non cittadini, così come i non residenti possono senz’altro essere utenti di un bene comune e assumere la qualità di cittadini attivi.

Alla luce delle considerazioni generali svolte, vale la pena di notare che la nuova definizione di «cittadini attivi» proposta dall’associazione Labsus (all’ar- ticolo 2, comma 1 lettera c) del prototipo Labsus 2018 tiene opportunamente conto degli elementi che si sono discussi: sono infatti cittadini attivi «tutti i soggetti, compresi i bambini, singoli, associati o comunque riuniti in formazioni sociali, anche informali o di natura imprenditoriale, che indipendentemente dai

requisiti riguardanti la residenza o la cittadinanza si attivano per periodi di tempo anche limitati per la cura, la rigenerazione e la gestione condivisa dei beni comuni urbani» (corsivi aggiunti).

2.2.1. I singoli

La prima sotto-categoria di cittadini attivi di cui occorre occuparsi è quella dei singoli: con questo vocabolo ci si riferisce agli individui, ossia alle singole perso-

ne fisiche3. Sebbene il diritto dei beni comuni urbani riguardi in prima battuta

l’attivazione di una comunità nei confronti di un bene, si può verificare anche la situazione in cui un singolo individuo diventa cittadino attivo, assumendo in solitaria una iniziativa di rigenerazione, cura e gestione di un bene comune al fine

2 In questi termini l’ultimo periodo dell’articolo 14, comma 2 lettera a) del Regolamento di Vero- na. Con una simile previsione il comune scaligero non nega che un gruppo informale possa attivarsi per la cura di un bene comune, ma obbligando alla costituzione di una associazione temporanea di scopo vieta che un gruppo informale possa concludere un patto di collaborazione.

3 Su un piano rigorosamente formale si dovrebbe qualificare come «singolo» anche l’associazio- ne che – dotata di soggettività giuridica individuabile e di un legale rappresentante a prescindere dall’acquisizione della personalità giuridica – avanzi in solitaria una proposta di collaborazione in merito a un bene comune. Ma per evitare confusioni in questo paragrafo ci si occupa solo delle singole persone fisiche che si attivano per la cura di un bene comune urbano.

di promuovere, a beneficio proprio e di una più ampia comunità di riferimento, accessibilità e uso pubblico del medesimo.

Questa ipotesi è espressamente contemplata dai Regolamenti sui beni comuni urbani, che senza eccezioni prevedono – nel dare la definizione di «cittadini attivi», «soggettività autonome o collettività civiche», «soggetti civici» – che an- che i singoli possano attivarsi per la rigenerazione, cura e gestione di un bene comune. La posizione dei singoli individui che assumano la qualità di cittadini attivi è per certi versi peculiare. Da un lato, essendosi attivati in solitaria, essi effettuano gli interventi di cura di un bene comune assumendo in via esclu- siva gli oneri che per i cittadini attivi derivano dalla conclusione di un patto. Dall’altro lato, ci si è chiesti se le attività compiute dal singolo possono essere assicurate tramite polizze attivate a spese delle pubbliche amministrazioni: come si vedrà nel capitolo 7, una risposta positiva a tale quesito è stata fornita nel 2017 dalla Deliberazione n. 26 dell’Adunanza Plenaria della Sezione delle Autonomie della Corte dei Conti.

L’ipotesi di un patto di collaborazione che sia concluso tra un ente pubblico e un singolo cittadino attivo è sicuramente la meno complessa con riguardo all’e- secuzione dell’accordo negoziale nonché ai rapporti tra le parti (e tra le parti e i terzi). Eppure proprio in questi casi occorre fare molta attenzione per valutare che il programma negoziale concordato riguardi azioni di rigenerazione, cura e gestione di un bene identificato come comune e che effettivamente sia corretto inquadrare l’accordo raggiunto dalle parti come un patto di collaborazione. In altri termini, il ricorso a uno strumento come il patto di collaborazione non è consentito per dissimulare ciò che in concreto è una concessione di un bene in proprietà pubblica a uso esclusivo di un soggetto privato.

2.2.2. Gli enti e le formazioni sociali stabilmente organizzati

La seconda sotto-categoria di cittadini attivi che viene in evidenza è composta dalle formazioni sociali collettive dotate di una stabile organizzazione.

Tra questi enti occorre in primo luogo considerare le associazioni e i comitati, che trovano la propria disciplina anzitutto nel codice civile. Le associazioni ri- conosciute, in particolare, sono regolate dagli articoli da 15 a 35 del codice. Le associazioni non riconosciute e i comitati sono invece disciplinati dagli articoli da 36 a 42 del codice.

Le associazioni riconosciute sono formazioni sociali dotate di personalità giuridica, e ciò significa che il patrimonio delle stesse è autonomo e separato rispetto a quello degli associati e degli amministratori. In concreto e salve ec- cezioni (per esempio, quando l’operato doloso o colposo di un amministratore causa all’associazione l’assunzione di un debito non giustificato o eccessivo), per la soddisfazione del proprio credito un creditore dell’associazione potrà agire solo nei confronti della persona giuridica e solo nei limiti del patrimonio da essa detenuto. Questa peculiare struttura giuridica giustifica la disciplina piuttosto articolata dettata dal codice civile. Le associazioni riconosciute, per esempio, «devono essere costituite con atto pubblico» (articolo 14, comma 1). Esse sono poi dotate, per espresse previsioni di legge, della figura degli amministratori i

quali, ai sensi dell’articolo 18, «sono responsabili verso l’ente secondo le norme

del mandato»4.

Sulla questione cruciale del riconoscimento, ossia dell’acquisizione di personalità giuridica, è sufficiente ricordare che il codice civile italiano è andato incontro a una trasformazione sistematica non più tardi di venti anni fa. Fino alla legge 15 maggio 1997, n. 127, che ha abrogato l’articolo 17 del codice civile, le associa- zioni riconosciute non potevano infatti «acquistare beni immobili, né accettare donazioni o eredità, né conseguire legati senza l’autorizzazione governativa». Solo con il d.p.r. 10 febbraio 2000, n. 361, sono state poi introdotte nell’ordinamento semplificazioni nelle procedure per il riconoscimento della personalità giuridica (oggi rette dalla regola generale per cui il riconoscimento consegue all’iscrizione al registro delle persone giuridiche tenuto dalle prefetture). Grazie a tale inno- vazione normativa è stato abrogato l’articolo 12 del codice civile, che al comma 1 prevedeva che «le associazioni, le fondazioni e le altre istituzioni di carattere privato acquistano la personalità giuridica mediante il riconoscimento concesso con decreto del presidente della Repubblica».

Alle associazioni non riconosciute il codice civile riserva una disciplina più strin- gata. In particolare l’articolo 36, comma 1 del codice appare come una evidente valorizzazione dell’autonomia dei privati, in quanto stabilisce semplicemente che «l’ordinamento interno e l’amministrazione delle associazioni non riconosciute come persone giuridiche sono regolati dagli accordi degli associati». Nonostante questa disposizione, generalmente le associazioni non riconosciute si organizzano secondo il modello delle riconosciute e, quindi, dotandosi almeno di un’assemblea degli associati e di un organo esecutivo. Sotto altro profilo, occorre segnalare il regime che l’articolo 38 c.c. descrive con riguardo alle obbligazioni contratte verso terzi dalle associazioni non riconosciute: «per le obbligazioni assunte dalle persone che rappresentano l’associazione, i terzi possono far valere i loro diritti sul fondo comune. Delle obbligazioni stesse rispondono anche personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione».

I comitati sono formazioni sociali caratterizzate dal fatto, desumibile dagli articoli 39 e 42 del codice, di essere costituiti in vista di uno scopo specifico: l’organizzazione collettiva è pertanto stabile, ma orientata verso un fine ben delimitato anche nel tempo (per esempio, la realizzazione di una statua in un luogo pubblico; oppure la realizzazione di un festival).

Dai comitati appena menzionati devono distinguersi i c.d. «comitati di quartiere». Questi sono formazioni sociali spesso informali, che raggruppano gli abitanti di un quartiere con l’obiettivo di concorrere positivamente al governo del territo- rio. Le origini degli comitati di quartiere possono rintracciarsi nella diffusione dei c.d. consigli di zona, emersi spontaneamente verso la fine degli anni ’60 del secolo scorso. I comitati di quartiere possono potenzialmente rappresentare una felice attuazione dell’articolo 8, comma 1 del d.lgs. n. 267/2000 (T.U.E.L.), a

4 La disposizione dell’articolo 18 è completata dalla previsione secondo cui «è però esente da responsabilità quello degli amministratori il quale non abbia partecipato all’atto che ha causato il danno, salvo il caso in cui, essendo a cognizione che l’atto si stava per compiere, egli non abbia fatto constare del proprio dissenso».

mente del quale «i comuni, anche su base di quartiere o di frazione, valorizzano le libere forme associative e promuovono organismi di partecipazione popolare all’amministrazione locale. I rapporti di tali forme associative sono disciplinati dallo statuto». In tal senso può ben darsi che un comitato di quartiere (se co- stituito in formazione sociale stabilmente organizzata) e/o i singoli componenti dello stesso (ove il comitato resti a un livello di informalità) decidano di attivarsi nei confronti di un bene comune urbano.

La disciplina delle associazioni non si trova solo nel codice civile ma è contenuta anche in diverse leggi speciali. Con l’obiettivo di semplificare un quadro norma- tivo talora disordinato e di coordinarne le regole, il legislatore ha introdotto il d.lgs. 3 luglio 2017, n. 107, recante il Codice del terzo settore.

2.2.2.1 Le formazioni sociali tra terzo settore e beni comuni urbani

Il Codice del terzo settore è ispirato a un orizzonte solidaristico, come risulta nel riferimento alla «autonoma iniziativa dei cittadini» (articolo 1) e nella formu- lazione di principi generali (articolo 2) a mente dei quali «è riconosciuto il valore e la funzione sociale degli enti del Terzo settore (ETS), dell’associazionismo, dell’attività di volontariato e della cultura e pratica del dono quali espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo, ne è promosso lo sviluppo salva- guardandone la spontaneità e autonomia, e ne è favorito l’apporto originale per il perseguimento di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, anche mediante forme di collaborazione con lo Stato, le Regioni, le Province autonome e gli enti locali».

Per capire l’impatto che la riforma produce (o produrrà quando compiutamen- te operativa) sugli enti che intendono prendersi cura dei beni comuni urbani, occorre evidenziare alcune categorie e disposizioni del nuovo codice.

È bene dare atto della vastissima nozione di «attività di interesse generale», che potrebbe ricomprendere anche le attività di rigenerazione, cura e gestione dei beni comuni. I criteri che hanno sorretto le scelte del legislatore delegato all’articolo 5 non sembrano però chiari, dal momento che l’articolo si limita a statuire che gli Enti del Terzo settore (ETS) diversi dalle imprese sociali eserci- tano «in via esclusiva o principale una o più attività di interesse generale per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale». Nondimeno questa disposizione presenta una elencazione molto lunga ed eterogenea di tali attività; tra di esse è possibile menzionare: «interventi e servizi finalizzati alla salvaguardia e al miglioramento delle condizioni dell’ambiente e all’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali» (lett. e); «interventi di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e del paesaggio» (lett. f); «or- ganizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale» (lett. i); «riqualificazione di beni pubblici inutilizzati o di beni confiscati alla criminalità organizzata» (lett. z).

Ai sensi dell’articolo 17, commi 2 e 3 del Codice rileva poi la definizione nor- mativa di volontario. Per la riforma del terzo settore, dunque, «2. Il volontario è una persona che, per sua libera scelta, svolge attività in favore della comunità e del bene comune, anche per il tramite di un ente del Terzo settore, mettendo a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere risposte

ai bisogni delle persone e delle comunità beneficiarie della sua azione, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ed esclu- sivamente per fini di solidarietà. 3. L’attività del volontario non può essere re- tribuita in alcun modo nemmeno dal beneficiario. Al volontario possono essere rimborsate dall’ente del Terzo settore tramite il quale svolge l’attività soltanto le spese effettivamente sostenute e documentate per l’attività prestata, entro limiti massimi e alle condizioni preventivamente stabilite dall’ente medesimo. Sono in ogni caso vietati rimborsi spese di tipo forfetario».

Nel complesso, le associazioni sembrano tenute a misurarsi con una serie di indicazioni normative piuttosto farraginose in materia di doverosità dell’iscri- zione al registro unico nazionale del terzo settore, nonché in merito al tipo di attività esercitabili. Più in generale, esse appaiono assoggettate a una disciplina articolatissima e a tutt’oggi in parte inoperante, in assenza di numerosi decreti ministeriali attuativi.

A questo punto è possibile domandarsi se tutte le formazioni sociali stabilmen- te organizzate siano in grado di intraprendere azioni di rigenerazione, cura e gestione di beni comuni, a prescindere dal loro fine sociale.

Un altro aspetto da ribadire consiste in ciò, che, nonostante il loro carattere collettivo (capace talvolta di raggruppare moltissimi componenti), le formazioni sociali stabilmente organizzate non possono instaurare relazioni giuridiche esclu- sive con i beni comuni urbani, che sono governati in vista dell’uso pubblico e dell’accesso. In altri termini, sembra necessario riconoscere che fare parte, per esempio, di una associazione non può essere in alcun modo un requisito che un singolo deve soddisfare per accedere a un bene comune urbano, o magari per assumere la qualità di cittadino attivo aderendo a un patto di collaborazione già in fase di esecuzione.

2.2.3. Le comunità informali

La sotto-categoria di cittadini attivi che sembra meritare più attenzione si presenta nell’ipotesi in cui ad assumere iniziative di cura di un bene comune sia un gruppo informale di soggetti. Pur in assenza di formazioni sociali stabilmente organizzate e strutturate – quali associazioni, comitati o più in generale quelli che sono qualificabili come enti del terzo settore –, in questi casi si può infatti registrare una dinamica di emersione di un gruppo che si definisce attorno alle utilità che un bene offre nonché alla stregua di comuni obiettivi di rigenerazione, cura e gestione.

Tra le comunità informali e le associazioni sussistono differenze. Le prime sono comunità allo stato fluido, che per ragioni contingenti (possono emergere attorno a uno specifico bene comune, in assenza di un preesistente legame sociale strutturato) o per scelta non sono stabilmente organizzate. Le associazioni sono invece formazioni sociali che presentano questo carattere e sono dotate di una soggettività giuridica chiaramente isolabile dalle posizioni delle persone fisiche associate. Tali differenze di fondo implicano che l’appartenenza di una singola persona fisica a una comunità informale è molto poco strutturata, mentre le associazioni (anche quelle non riconosciute) sono dotate di meccanismi di accet- tazione di nuovi associati e di censimento degli stessi.

Significative le diversità anche in materia di rappresentanza. Se le associa- zioni non riconosciute generalmente presentano un legale rappresentante, con ricadute rilevanti in materia di responsabilità patrimoniale nei confronti

Nel documento Manuale di diritto dei beni comuni urbani (pagine 53-62)

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