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PER APPROFONDIRE (1)

Nel documento Manuale di diritto dei beni comuni urbani (pagine 42-44)

L’OGGETTO DEI PATTI DI COLLABORAZIONE I beni comuni urbani tra uso pubblico e accesso

PER APPROFONDIRE (1)

I beni comuni nelle sentenze della Cassazione

e nel diritto vivente della giurisprudenza (italiana ed europea)

Le sentenze rese nel febbraio 2011 dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sullo statuto giuridico delle valli da pesca veneziane, note tra gli studiosi come la «giurispru- denza di San Valentino», hanno deciso una serie di liti omogenee, che vedeva opposti soggetti privati – in particolare imprese del settore ittico – e pubbliche amministrazioni (il Ministero dell’Economia e delle Finanze; il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti; l’Agenzia del Demanio; la Regione Veneto). Oggetto del contendere era, per l’appunto, la proprietà delle valli da pesca, porzioni della Laguna che, per la loro specificità (un relativo isolamento dal complesso ecosistema lagunare, che non ne pregiudica comunque la permeabilità ai flussi delle maree), si prestano bene ad accogliere iniziative di piscicol- tura. I soggetti privati avevano fatto delle valli un uso prolungato anche per decenni, e ritenevano di vantare su di esse veri e propri diritti di proprietà (acquistati a titolo deri- vativo con atti negoziali, o a titolo originario per usucapione). Di contro, a dispetto di un disinteresse talvolta durato per molto tempo, le pubbliche amministrazioni opponevano la demanialità delle valli da pesca, e dunque affermavano ex articolo 823 c.c. che i beni litigiosi fossero inalienabili e inusucapibili.

I gradi di merito dei giudizi sulle valli da pesca si concludevano con l’accertamento della qualità demaniale dei beni litigiosi: di conseguenza i privati erano condannati al rilascio delle aree e al pagamento di indennità per occupazione senza titolo in favore delle pub- bliche amministrazioni. In particolare, la demanialità e l’applicazione del relativo regi- me previsto dal codice civile erano affermate ricostruendo la successione di riferimenti normativi riguardanti lo statuto complessivo della laguna veneziana: l’intervento meno risalente, ossia la legge 5 marzo 1963, n. 366, era stato preceduto dal r.d.l. 18 giugno 1936, n. 1853; questo decreto, a sua volta, era sopravvenuto a un regolamento imperiale databile addirittura al 1841.

Nel confermare le decisioni di merito, le sentenze della Suprema Corte hanno operato un ampliamento di motivazione e qualificato le valli da pesca della laguna di Venezia come beni comuni (si veda il paragrafo 1.1). Questo esito interpretativo è stato ottenuto dissipando, nella ricostruzione dello statuto dei beni litigiosi, una certa confusione tra il profilo degli assetti proprietari e il differente problema degli aspetti funzionali. Le argomentazioni delle Sezioni Unite si sono basate, da un lato, sulla diretta applicazione di norme costituzionali (in primis gli articoli 2, 9, 42) collocate in un sistema pluralistico di fonti; dall’altro lato su un recupero della nozione di Stato-collettività, opposta e preferita a una troppo pervasiva visione dello Stato come mero apparato burocratico/persona giuridica.

La qualificazione delle valli da pesca come beni comuni – così come i principi di diritto delineati dalle sentenze di San Valentino, rilevanti al di là del caso concreto delle val- li – sono, insomma, il precipitato di una interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni codicistiche (e non solo) in materia di demanio. Nella lettura offerta dalla Cassazione non l’astrattezza della titolarità formale, ma la concretezza di una gestione orientata a garantire l’uso pubblico è il cuore dello statuto giuridico dei beni in proprietà pubblica, per i quali sia applicabile il regime demaniale.

La giurisprudenza della Suprema Corte sulle valli da pesca, per il suo potenziale, può considerarsi una pietra miliare che è tuttavia andata incontro a vicissitudini piuttosto sin- golari. In ambito nazionale, le discussioni estese e perfino accese della dottrina non hanno trovato molto seguito in ambito giurisprudenziale: tanto che le decisioni a Sezioni Unite del 2011 risultano menzionate da ben poche pronunce successive, tra cui la sentenza n. 210 resa nel 2014 dalla Corte Costituzionale (con riguardo però alla costituzionalità di

una legge regionale sarda in materia di usi civici e tutela del paesaggio) e la più recente sentenza n. 5372 emessa nel settembre 2018 dalla V Sez. del Consiglio di Stato (che però effettua il richiamo «al solo fine di corroborare le già raggiunte conclusioni»)1.

Sempre nel 2014, sulla questione delle valli da pesca è intervenuta anche la Corte Euro- pea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU), con la sentenza resa dalla Seconda Sezione il 23 settembre nel caso Valle Pierimpiè Società Agricola S.p.A. c. Italia. Con questa decisione i giudici di Strasburgo hanno adottato un orientamento per certi versi ambivalente: da un lato, ratificando le decisioni nazionali sul regime demaniale e sulla qualità di beni comuni delle valli da pesca; dall’altro lato, nondimeno, accordando una tutela convenzionale alla società privata ricorrente. In particolare, posto che la nozione di demanialità non avrebbe a che fare con la tutela accordata alla proprietà privata dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (articolo 1 del Primo Protocollo addizionale, considerato espressivo di una autonoma nozione di «bene»), un’impresa che aveva usato a lungo una valle da pesca può – a certe condizioni – essere ritenuta “proprietaria” di una «legittima aspettativa» in ordine alla spettanza della proprietà sul bene poi risultato demaniale. La lesione di una simile aspettativa configura violazione dell’articolo 1 del Primo Protocollo e comporta una condanna dello Stato responsabile a risarcire il proprietario leso.

La discussa decisione della Corte EDU sembra aver avuto l’effetto di neutralizzare, al- meno in parte, il potenziale di innovazione recato dalla giurisprudenza di San Valentino. Prova ne sono tre recenti sentenze della Corte di Cassazione: due di esse (Cass. civ. I, 28 gennaio 2016, n. 1619; Cass. civ. I, 19 maggio 2016, n. 10337) richiamano la nozione di beni comuni introdotta dalla giurisprudenza del 2011, anche se il principio di diritto non sembra particolarmente sviluppato ai fini della pronuncia; per altro verso sembra prevalere l’attenzione a dare seguito alle indicazioni dei giudici di Strasburgo (in questi termini le massime della già citata sentenza n. 10337 del 2016; e di Cass. civ. II, 21 dicembre 2016, n. 26615, che menziona la giurisprudenza di San Valentino senza richiamare la categoria di beni comuni)2.

1 In particolare, secondo la sentenza del Consiglio di Stato – relativa allo statuto giuridico di parcheggi realizzati in esecuzione di una convenzione urbanistica e qualificabili come opere di ur- banizzazione primaria – l’orientamento giurisprudenziale emerso nel 2011 «vale a puntualizzare che il regime di spettanza del bene che, per sua natura o destinazione, fosse destinato alla soddisfazione di bisogni durevoli e primari della collettività, non può incidere in senso limitativo o preclusivo sulla fruizione dello stesso. In siffatta prospettiva, gli spazi a parcheggio concretanti opere di urbanizza- zione vanno ritenuti per definizione “pubblici” o, appunto, “comuni”, palesandosi abusiva e illecita la pretesa di una fruizione riservata e limitata».

2 Una differente, e più positiva, valutazione della giurisprudenza della Corte EDU è data da A. di poRto, I “beni comuni” in cerca di identità e tutela, in g. Conte, A. FUSARo, A. SoMMA, V. zeno zenCoViCh

Nel documento Manuale di diritto dei beni comuni urbani (pagine 42-44)

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