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L’identificazione e la qualificazione dei beni comuni urbani Beni comuni urbani e comunità di riferimento

Nel documento Manuale di diritto dei beni comuni urbani (pagine 32-36)

L’OGGETTO DEI PATTI DI COLLABORAZIONE I beni comuni urbani tra uso pubblico e accesso

1.2. L’identificazione e la qualificazione dei beni comuni urbani Beni comuni urbani e comunità di riferimento

I Regolamenti comunali riguardano dunque beni comuni appartenenti alle città e ne offrono definizioni giuridiche che riprendono il modello della commis- sione Rodotà. Per esempio, secondo il Regolamento torinese sono beni comuni urbani «i beni, materiali, immateriali e digitali, che i cittadini e l’Amministrazione riconoscono essere funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali della perso- na, al benessere individuale e collettivo, all’interesse delle generazioni future, attivandosi di conseguenza nei loro confronti ai sensi dell’articolo 118 ultimo comma della Costituzione, per garantirne e migliorarne la fruizione collettiva e condividere con l’Amministrazione la responsabilità della loro cura, gestione condivisa o rigenerazione».

Un diritto dei beni comuni urbani può quindi svilupparsi anche se non sup- portato dall’introduzione (in ogni caso auspicabile) della omonima categoria nel codice civile o comunque al livello delle fonti legislative. Del resto, se i beni comuni hanno a che fare anzitutto con la concreta articolazione dei modi d’uso e di accesso ai beni, risulta evidente quanto poco appropriato sia domandarsi se alcuni beni comuni urbani esistano “in natura” (ossia prima e a prescindere dall’intervento delle mediazioni giuridiche) e se altri beni possano diventare comuni una volta soddisfatte certe condizioni. Al contrario, è la stessa metodologia alla base dei lavori della commissione Rodotà a mostrare che una simile contrapposizione è priva di fondamento, e in particolare che sarebbe un errore assumere l’esistenza di una lista chiusa di beni comuni. Nell’ignorare la rilevanza della dimensione storica e la specificità dei contesti ecologici, economici e culturali entro cui il di- ritto prende forma, un simile approccio sembra affetto da un vizio di astrattezza. Alludere a beni comuni «già esistenti» non significa altro che riferirsi a beni capaci di offrire utilità la cui importanza gode, in un certo momento storico, di riconoscimento sociale (e giuridico) ampio e consolidato. È in questo senso che deve interpretarsi l’elencazione esemplificativa contenuta nella proposta di definizione elaborata dalla commissione Rodotà, secondo cui «sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate». In breve, i beni menzionati attestano l’influenza che sui lavori della commissione hanno avuto precise considerazioni di ordine ecologico, paesaggistico e culturale. In ogni caso, se alcuni beni sono qualificati come comuni per via di un riconoscimento sociale già sussistente, resta pur sempre possibile l’identificazione di beni comuni nuovi e ulteriori.

Questa seconda ipotesi appare particolarmente rilevante in contesti territoriali complessi come quelli urbani, e risulta connessa a uno dei profili più importanti della categoria dei beni comuni: il rapporto di reciprocità (e per certi versi di circolarità) che si instaura tra l’identificazione della qualità comune di un bene e l’emersione di una comunità che proprio nell’uso e nella fruizione di quel bene si riconosce come tale. In altri termini, una comunità di riferimento è definita dalla

possibilità dei suoi componenti di accedere liberamente all’uso pubblico di un bene comune; parallelamente, un bene può definirsi comune se l’appartenenza e la gestione dello stesso siano caratterizzate da forme di uso e di godimento accessibili e collettive.

Uso pubblico e accesso aperto risultano, dunque, i due elementi salienti della ricostruzione giuridica dei beni comuni urbani.

1.2.1. L’uso pubblico

L’uso pubblico costituisce una categoria assai problematica ma di importan- za cruciale per comprendere gli sviluppi profondi del diritto dei beni. Esso è infatti una figura giuridica dalla complessa fisionomia e dalla lunga tradizione

che – al pari degli usi e dei domini civici10 – aveva un ruolo fondamentale nella

vita quotidiana e nel funzionamento del diritto fino ai secoli XVII e XVIII. Le situazioni giuridiche di uso pubblico erano forme di appartenenza collettiva basate su specifici modi di uso e godimento, e risultavano tanto importanti da non poter essere ignorate nemmeno dalla codificazione napoleonica, che nel 1804 cancellò tutta l’organizzazione istituzionale e giuridica pre-rivoluzionaria in nome del riconoscimento di un solo modello di appartenenza dei beni, ossia

la proprietà privata11.

In merito all’ordinamento italiano, si può notare che l’entrata in vigore del codice civile del 1942, fortemente ispirato alle concezioni francesi sui beni pubblici e sul demanio, abbia rappresentato una grande affermazione delle teorie sulla demanialità, tanto rilevanti da far perdere di vista la rilevanza dell’uso pubbli- co. Questa categoria, oggi poco considerata dal diritto italiano, è generalmente riconducibile a tre diverse teorie.

In primo luogo vengono in considerazione le risalenti teorie sui diritti pub- blici subiettivi. Secondo alcuni degli autori che, in epoca ormai lontana, avevano indagato questa categoria, l’uso delle cose pubbliche avrebbe potuto essere ricon- dotto – unitamente a situazioni come i diritti della personalità, le libertà civili e i diritti politici – alla figura dei diritti pubblici soggettivi, ravvisabile nei rapporti giuridici in cui uno dei soggetti coinvolti sia necessariamente lo Stato (o altra autorità pubblica) in posizione di supremazia. Per una seconda impostazione, invece, la rilevanza giuridica dell’uso pubblico dovrebbe essere risolta nell’uso

10 Il regime giuridico degli usi civici, forme di appartenenza molto antiche e risalenti a epoche connotate da grande pluralismo giuridico e istituzionale, è oggi riconducibile alle legislazioni regionali e a tre principali fonti legislative statali. Trattasi: della legge 16 giugno 1927, n. 1766 di «conversione in legge del R.D. 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno»; dell’attuale articolo 142, comma 1 lett. h) del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio; ma la previsione risale alla c.d. legge Galasso, n. 431 del 1985), che include «le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici» tra quelle interessate per legge dal corpus normativo di tutela paesaggistica; della recentissima legge 20 novembre 2017, n. 168, recante «norme in materia di domini collettivi». Per un più approfondito esame si rinvia al capitolo 9.

11 L’articolo 714 – una delle disposizioni generali che il codice civile francese dedica ai modi di acquisto della proprietà – recita ancora oggi al comma 1 che «vi sono cose che non appartengono a nessuno in particolare e il cui uso è comune a tutti».

generale e collettivo dei beni demaniali. Le teorie riferibili a questo approccio arrivano a prospettare su un singolo bene pubblico demaniale due distinti titoli proprietari: la proprietà collettiva dei cittadini e una differente proprietà in capo alla persona pubblica, ritenuta una titolarità di servizio funzionalizzata alla prima. Tuttavia queste teoriche, dette «della duplice appartenenza», hanno finito con il valorizzare la sola proprietà delle autorità pubbliche, svuotando di contenuto la posizione soggettiva dei singoli componenti della collettività.

Una terza teoria ha preso in considerazione le peculiari situazioni giuridiche dei c.d. diritti, o servitù, di uso pubblico. In un’epoca caratterizzata dalla con- cezione della proprietà come diritto soggettivo compatto, assoluto ed esclusivo, queste categorie sono state tradizionalmente avvicinate alla figura del diritto reale su cosa altrui (donde il riferimento, generico se non addirittura improprio, alla nozione di servitù). Si ritiene generalmente che i diritti di uso pubblico abbiano una operatività limitata, gravando su specifiche tipologie di beni in proprietà di soggetti privati (tradizionale è l’esempio delle strade vicinali, private ma aperte all’uso pubblico).

Inoltre, gli interpreti si dividono sull’individuazione dei soggetti titolari dei diritti d’uso pubblico: sebbene queste situazioni giuridiche siano effettivamente esercitate da comunità anche informali, non sono affatto isolate le opinioni per cui solo le persone pubbliche potrebbero essere titolari di simili diritti su cose

altrui12. A ben vedere, anche nel caso dei diritti d’uso pubblico si registra un ten-

denziale ridimensionamento della rilevanza del momento dell’uso, a vantaggio di una trasformazione delle situazioni collettive in posizioni giuridiche individuali delle persone pubbliche che fungono da enti esponenziali delle comunità.

In questa ottica può leggersi anche l’articolo 825 del codice civile, che per la dottrina maggioritaria recepisce nella codificazione del 1942 la figura dei diritti

d’uso pubblico su beni in proprietà privata13. Secondo questa disposizione, rubricata

«diritti demaniali su beni altrui», «sono parimenti soggetti al regime del demanio pubblico i diritti reali che spettano allo Stato, alle province e ai comuni su beni appartenenti ad altri soggetti, quando i diritti stessi sono costituiti per l’utilità di alcuno dei beni indicati dagli articoli precedenti o per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi».

Il tenore letterale e l’interpretazione maggioritaria dell’articolo 825 consento- no di concludere l’analisi confermando che, per scelta del codificatore del 1942, la categoria del demanio ha assorbito la specifica rilevanza dell’uso pubblico, determinando la scomparsa di situazioni di uso collettivo che riguardino beni formalmente imputati a una proprietà privata (su questo punto si veda il paragra-

12 Per una discussione più distesa sui punti affrontati nel testo, e per ulteriori indicazioni bi- bliografiche, si rinvia a R.A. AlbAneSe, L’uso pubblico e il diritto privato. Una relazione da ripensare, in

U. MAttei, A. CAndiAn, b. pozzo, A. Monti, C. MARChetti (a cura di), Un giurista di successo. Studi in

onore di Antonio Gambaro, Milano, 2017, pp. 531-548.

13 Secondo un’altra tesi, i diritti di uso pubblico troverebbero riscontro non nell’articolo 825, bensì nell’articolo 11 (rubricato «persone giuridiche pubbliche») del codice civile, a mente del quale «le province e i comuni, nonché gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche, godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico».

fo 1.2.2). Allora, rileggere il ruolo dell’uso pubblico alla luce degli insegnamenti della commissione Rodotà e delle più recenti elaborazioni sui beni comuni può consentire di superare le incertezze e le contraddizioni sopra descritte, andan- do oltre approcci astratti e spesso formalistici per tentare di mettere a fuoco gli elementi che caratterizzano le forme di uso di un bene che possa qualificarsi come comune.

Delle situazioni di uso pubblico può anzitutto dirsi che sono strutturalmente pluralistiche, in quanto devono ritenersi allo stesso tempo individuali e collettive. Forme di uso pubblico che riguardano le utilità di un dato bene spettano cioè a un individuo, cittadino o no, nella misura in cui una tale prerogativa sia condivisa con una comunità di riferimento (stabilmente organizzata o anche informale) a cui il singolo partecipa. Titolari di situazioni di uso pubblico dei beni sono, dun- que, una comunità di riferimento e i suoi singoli componenti allo stesso tempo. Questa conformazione giuridica implica corollari di importanza cruciale. In primo luogo, la rinnovata rilevanza delle situazioni di uso pubblico non può essere ignorata argomentando che la fruizione pubblica di un bene è garantita soltanto dalla formale imputazione a una persona pubblica della proprietà. Inoltre, l’uso pubblico risulta informato a criteri profondamente differenti dall’individualismo e dall’esclusività, ossia i due pilastri che reggono le dominanti concezioni moderne della proprietà privata.

1.2.2. L’accesso

Prendendo le mosse dall’uso pubblico è possibile riconoscere che il diritto dei beni comuni urbani in via di principio nega spazio a concezioni chiuse e identitarie che talvolta caratterizzano la “proprietà collettiva”. L’uso pubblico dei beni comuni appare aperto anche a soggetti che non sono in possesso della cittadinanza italiana oppure non risiedono nel Comune in cui abitano. Si intui- sce, del resto, la ragione per cui i beni comuni urbani non tollerano concezioni chiuse della comunità di riferimento: accettare un tale approccio significherebbe spostare sulla comunità il nodo dell’esclusione.

Proprio dalla connessione tra uso pubblico di un bene comune e ricostru- zioni in senso inclusivo e aperto delle comunità che nel bene si riconoscano si può desumere l’importanza che la categoria dell’accesso ha nel diritto dei beni comuni urbani. Senza un riconoscimento pieno e una garanzia dell’accessibilità di un bene comune, il godimento e l’uso pubblico dello stesso rischierebbero di essere pregiudicati e di risolversi in situazioni giuridiche prive di ogni effettività.

Un esempio può fungere da chiarimento circa il ruolo dell’accesso. In un quartiere periferico di una grande città un parco pubblico in passato trascurato potrebbe diventare l’oggetto di un patto di collaborazione, concluso tra l’ammi- nistrazione comunale e una comunità di quartiere che abbia deciso di rigenerare e gestire il parco come bene comune. La stipula e l’esecuzione del patto pro- durrebbero senz’altro significative ricadute positive sul quartiere, sia in termini ecologici (un parco più pulito e più curato, e magari arricchito da esperimenti come gli orti didattici, è senz’altro preferibile a un’area verde sporca e in stato di abbandono) sia in termini sociali (un parco divenuto il riferimento sociale e aggregativo del quartiere può attivare processi di inclusione dei soggetti marginali

e di contrasto alle attività illecite). Tuttavia tutto ciò non potrebbe mai autorizzare i componenti della comunità di quartiere, firmatari del patto di collaborazione, a fare del parco un uso escludente. In concreto, la fruizione e l’uso pubblico del parco bene comune non potrebbero essere negate ad abitanti del quartiere (o ad associazioni ivi operanti) che non siano tra i componenti della “originaria” comunità di riferimento firmataria del patto. Parimenti, non sarebbe ammissibile restringere l’uso del bene comune in base a ragioni variamente discriminatorie: per esempio negandolo a soggetti provenienti da un altro quartiere o, peggio, a persone prive della cittadinanza italiana.

La valorizzazione della categoria dell’accesso serve proprio a scongiurare queste eventualità problematiche. Dire che i beni comuni sono liberamente accessibili significa riconoscere prerogative diffuse di accesso, tutelabili di fronte a esercizi abusivi del diritto di escludere. Fermi restando l’onere di fruire del bene com- patibilmente con le previsioni del patto e con il principio di auto-responsabilità, nonché la necessità di non determinare un uso eccessivo e dissipativo del bene, tutti possono accedere alla fruizione e all’uso di un bene comune urbano che sia oggetto di un patto di collaborazione. Promuovere una visione aperta e inclusiva della comunità di riferimento comporta infatti che le parti di un patto non pos- sano vantare sul bene nessuna prerogativa esclusiva. Al contrario, l’esecuzione di un patto è effettuata anche (se non soprattutto) in vista degli interessi di soggetti che siano terzi rispetto all’accordo tra amministrazione comunale e cittadini attivi.

L’accessibilità del bene, dunque, garantisce in prima istanza la fruizione pubblica e aperta, anche occasionale, dello stesso. In seconda battuta, essa è lo strumento che consente di dare concretezza alle concezioni inclusive delle comunità che si formano attorno a un bene comune: esercitando l’uso pubblico, un soggetto inizialmente non coinvolto nelle attività del patto di collaborazione potrebbe co- minciare a sentirsi parte della comunità che si è riconosciuta nella cura e gestione di un dato bene comune.

Nel documento Manuale di diritto dei beni comuni urbani (pagine 32-36)

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