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Patti di collaborazione e partenariati 1 I partenariati c.d social

Nel documento Manuale di diritto dei beni comuni urbani (pagine 118-121)

DEL PATTO DI COLLABORAZIONE

4.7. Patti di collaborazione e partenariati 1 I partenariati c.d social

Alcuni Autori nell’analizzare la natura giuridica dei patti di collaborazione hanno evidenziato un’affinità con alcune fattispecie dette di “partenariato sociale”. In realtà, le analogie riguardano soprattutto il tipo di attività realizzate dai cittadini.

Negli ultimi anni il legislatore ha colto e recepito la voglia di partecipazione dei cittadini alla soluzione di problemi di interesse generale da attuarsi mediante la collaborazione con le amministrazioni locali. Sono state infatti introdotte – o meglio reintrodotte, in quanto già precedentemente contemplate da altre dispo- sizioni – alcune fattispecie che «presentano la comune caratteristica di prevedere interventi in contesti urbani da parte di cittadini e privati sostenuti con vantaggi

economici o agevolazioni fiscali da parte dell’amministrazione per la realizzazione

di finalità di interesse pubblico»15.

Ci si riferisce all’art. 189 del Codice dei contratti pubblici, rubricato «interventi di sussidiarietà orizzontale» che prevede due ipotesi. La prima, di affidamento in gestione ai cittadini appartenenti a uno specifico ambito territoriale di alcune aree e beni «riservati alle attività collettive sociali e culturali di quartiere» (1° comma). La seconda ipotesi prevede proposte formulate da gruppi organizzati di cittadini «per la realizzazione di opere di interesse locale» (2° comma).

Nella prima fattispecie, riferita esclusivamente ad aree di verde urbano e immobili di origine rurale, emerge in modo più netto la gratuità dell’impegno e la finalizzazione esclusiva alla sussidiarietà orizzontale dell’attività oggetto di affidamento. Peraltro, per le attività previste dal 2° comma la disposizione am- mette l’adozione di appositi regolamenti da parte degli enti locali.

I patti di collaborazione vengono confrontati soprattutto con il c.d. “baratto amministrativo”, altro istituto giuridico ricompreso nel più ampio genere del “partenariato sociale”. Con quest’ultima definizione si intendono, infatti, quelle forme di programmazione concordata di attività in cui l’interesse pubblico, sotteso all’attività stessa, viene definito insieme dai soggetti pubblici e privati.

4.7.2. Il baratto amministrativo. Analogie e differenze

L’istituto del baratto amministrativo ha fatto la sua comparsa con l’art. 24 del d.l. 12 settembre 2014 n. 133, conv. in l. 11 novembre 2014 n. 164, il c.d. decreto “Sblocca Italia”. Meno di due anni dopo il legislatore ha introdotto una disposizione analoga all’interno del Codice dei contratti pubblici – l’art. 190 espressamente rubricato “baratto amministrativo” –, peraltro, in un primo momento senza abrogare formalmente la precedente disposizione (abrogata solo con il decreto legislativo correttivo 17 aprile 2017, n. 56).

L’istituto prevede uno “scambio” – come suggerisce l’intitolazione – in cui i cittadini di propria iniziativa si impegnano a svolgere alcune attività di utilità collettiva e sociale sostanzialmente volte alla cura e alla manutenzione di beni pubblici e le ammini- strazioni, come contropartita, concedono ai privati esenzioni o riduzione di tributi. Le differenze tra la “vecchia” e la “nuova” disposizione non sono di grande rilievo. L’ambito soggettivo è solo parzialmente coincidente: la disposizione del 2014 era circoscritta ai Comuni, mentre quella prevista dal Codice dei Contrat- ti Pubblici, è estesa a tutti gli enti territoriali. Quanto all’ambito oggettivo, la prima disposizione contemplava interventi come «la pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze o strade» con la clausola di chiusura riferita «in genere» alla «valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o ex- traurbano». Nell’art. 190 del d.lgs. n. 50/2016, invece è stata eliminata la clausola di chiusura con l’inserimento della «[loro: di aree verdi, piazze o strade] valoriz- zazione mediante iniziative culturali di vario genere» e quella degli «interventi di decoro urbano, di recupero e riuso con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati».

La disposizione vigente non contempla più una serie di limiti relativi all’esenzione o riduzione dei tributi – invece previsti dall’art. 24, del d. l. n. 133/2014 – che dovevano essere «inerenti» al tipo di attività posta in essere. Inoltre, l’esenzione poteva essere concessa solo per un periodo limitato e «per specifici tributi e per attività individuate dai Comuni, in ragione dell’esercizio sussidiario dell’attività posta in essere».

Tra l’altro, con riferimento a questo istituto la Corte dei Conti è stata chia- mata a pronunciarsi sull’ambito di applicazione della riduzione o esenzione dai tributi, in particolare con riferimento a quelli relativi a esercizi finanziari passati confluiti nella massa dei residui attivi dell’ente. Il Giudice contabile ha affermato la non ammissibilità del baratto amministrativo per compensare debiti fiscali non pagati, perché ha ritenuto contraria alla finalità dell’istituto la possibilità di consentire al cittadino di effettuare una diversa prestazione (l’attività di cura e manutenzione del patrimonio pubblico) al posto dell’adempimento alle proprie obbligazioni tributarie e fiscali già scadute (Corte Conti, sez. controllo Emilia-Romagna, 23.3.2016, n. 27; per una disamina delle sentenze in materia si veda l’approfondimento al fondo del cap. 6).

Al netto della precisazione della Corte dei Conti, l’istituto in esame – anche quello oggi vigente – si caratterizza proprio per lo scambio, pur soggetto a limiti, tra prestazioni dei cittadini e pagamento dei tributi. Soprattutto questo aspetto segna una marcata differenza rispetto ai patti di collaborazione tra cittadini e amministrazioni per la cura dei beni comuni urbani, in cui l’iniziativa costituisce l’esercizio di un vero e proprio diritto di curare e occuparsi attivamente dei beni comuni urbani e non un’attività soggetta a corrispettivo. Se è vero che i Regolamenti sui beni comuni prevedono la possibilità per l’amministrazione di concedere alcuni benefici ai cittadini attivi, come appunto l’esenzione da determinati tributi, tuttavia questi vantaggi sono attribuiti per agevolare il migliore perseguimento dei fini previsti dal patto (per esempio, esenzioni dal pagamento dei tributi relativi al bene comune attribuito ai cittadini). Invece, nel baratto amministrativo lo sgravio dei tributi rappresenta una vera e propria contropartita personale per le attività di cura, sicché in questi casi la motiva- zione che anima i cittadini potrebbe essere anche di tipo puramente egoistico. A ogni modo, questi istituti detti di “partenariato sociale” disciplinano pro- cedure partecipative orientate al coinvolgimento dei cittadini e alla partecipa- zione nella cura di alcuni beni pubblici che possono senza dubbio definirsi beni comuni. L’affinità è dunque solo nelle attività oggetto degli istituti, mentre le differenze nei principi che fondano le fattispecie sono notevoli.

Peraltro, si è notato che la collocazione del baratto amministrativo nell’ambito dei contratti di partenariato pubblico-privato è discutibile. Infatti, rispetto alle altre fattispecie di partenariato, che sono strumenti contrattuali per discipli- nare attività finanziarie complesse, il baratto amministrativo persegue finalità

di interesse generale16.

Tuttavia, proprio tale collocazione, all’interno di un testo unico sui contratti pubblici di forte ispirazione europea, nonché il suo carattere oneroso e sinal- lagmatico – dato che il beneficio fiscale accordato dall’ente pubblico è un vero e proprio corrispettivo a fronte delle prestazioni effettuate (in sostituzione dell’adempimento pecuniario) dai cittadini/debitori tributari – hanno indotto i commentatori a ritenere applicabili al baratto amministrativo il principio della concorrenza e le regole in materia di evidenza pubblica nella scelta del contra- ente, che al contrario non possono ritenersi applicabili ai patti di collaborazione. Vi sono due ordini di ragioni per cui consideriamo i patti di collaborazione estranei all’ambito di applicazione delle regole dell’evidenza pubblica e in gene- rale del principio di concorrenza.

Anzitutto, come già osservato da altri studiosi, si può affermare che è lo stesso oggetto dei patti che esclude l’applicazione del Codice dei contratti pubblici (non si tratta di acquisto di beni, servizi o lavori) e della direttiva europea in materia

di concessioni (che comunque non concerne la concessione di beni)17.

In secondo luogo, i patti di collaborazione non sono connotati da onerosità, non c’è scambio sinallagmatico tra le parti, ma essi sono invece caratterizzati da finalità solidaristiche e di cooperazione, sicché fuoriescono dall’ambito di appli- cazione delle regole sulla concorrenza.

Proprio con riferimento alla collocazione degli istituti di partenariato sociale all’interno del Codice dei Contratti pubblici, è stato anche osservato che ove si verificasse una piena sovrapposizione tra i patti di collaborazione disciplinati dai Regolamenti comunali e tali norme, le amministrazioni dovrebbero privilegiare l’applicazione delle disposizioni legislative, che sono prevalenti in quanto ge- rarchicamente sovraordinate. Va poi notato che i partenariati pubblico- privato sono definiti «contratti» (a titolo oneroso: art. 3, co. 1, lett. eee, d.lgs. n. 50 del 2016): il che porterebbe a ritenere che anche i partenariati sociali possano essere così qualificati.

Nel documento Manuale di diritto dei beni comuni urbani (pagine 118-121)

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