LE PROCEDURE PER IL GOVERNO CONDIVISO
3.5. La co-progettazione del contenuto dei patti di collaborazione
Esaurite le vicende iniziali e preliminari, l’iter standard di formazione di un patto di collaborazione entra nella sua fase cruciale: la co-progettazione. Questa attività è essenziale per un positivo funzionamento del diritto dei beni comuni urbani, poiché essa è una vera e propria condivisione dei contenuti del patto di collaborazione: con essa amministrazione comunale e cittadini attivi anzitutto individuano insieme, tra le forme di uso pubblico possibili, le utilità che verranno in concreto generate dalle attività di cura, gestione e rigenerazione. È dunque con la co-progettazione che la collaborazione tra cittadini attivi e pubblica am- ministrazione viene definita e puntualizzata, a partire dal ruolo di ciascuna delle parti del patto.
La co-progettazione può essere equiparata a una trattativa contrattuale, a quella fase, cioè, in cui le parti negoziano il contenuto del loro accordo. Una simile configurazione ha importanti implicazioni. In primo luogo, in questa fase le relazioni tra cittadini attivi e amministrazioni comunali raggiungono il più alto tasso di informalità. Una tale predilezione per forme di trattativa il meno
possibile ingessate e burocratiche non è, peraltro, una novità assoluta per le pubbliche amministrazioni, dato che in questa direzione sembrava muoversi già la legge n. 241/90: si pensi all’articolo 1, comma 2, a mente del quale «la pubblica amministrazione non può aggravare il procedimento se non per stra- ordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell’istruttoria»; oppure all’articolo 11, comma 1-bis (introdotto nel 1995) che consente al responsabile la definizione di un «calendario di incontri» tra i soggetti a vario titolo interessati dal procedimento che conduce alla conclusione di accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento. Nel caso della co-progettazione emergono alcune specificità del rapporto: cittadini attivi e pubbliche amministrazioni possono concordare in maniera paritaria sostanzialmente tutti i contenuti del futuro patto; pari- menti, gli interessi delle parti non sono (di regola) confliggenti, risultando, al contrario, convergenti verso la definizione di azioni di cura capaci di rendere effettivo l’uso pubblico di un bene comune urbano e di esaltarne l’accessibilità. Nonostante l’importanza di questa fase, i Regolamenti comunali in materia di beni comuni urbani contengono riferimenti molto scarni alla co-progettazione, senza regolarne nel merito il funzionamento. Così possono leggersi, per esem- pio, gli articoli 9 comma 4 e 10 comma 8 del Regolamento torinese, che, quasi tautologicamente, stabiliscono che «l’attività di progettazione del programma di cura, gestione condivisa o rigenerazione è realizzata in collaborazione tra l’Ufficio competente, il Gruppo di lavoro e i cittadini attivi». La medesima vaghezza si rinviene in quelle previsioni introdotte a partire dall’articolo 23 del Regolamento di Bologna, a mente delle quali «qualora la proposta di collaborazione abbia a oggetto azioni di cura o di rigenerazione dei beni comuni urbani che il Comune ritenga di particolare interesse pubblico e le risorse che i cittadini attivi sono in grado di mobilitare appaiano adeguate, il patto di collaborazione può prevedere l’affiancamento dei dipendenti comunali ai cittadini nell’attività di progettazione necessaria alla valutazione conclusiva e alla realizzazione della proposta».
Una seconda implicazione della peculiare struttura della co-progettazione si ha nel fatto che sembra sfumare ulteriormente il carattere competitivo dell’intera procedura che riguarda l’individuazione e il governo di un bene comune urbano: anche sotto questo profilo, essa si differenzia dalle tradizionali forme di assegna- zione di beni pubblici in esclusiva e/o con finalità di profitto dell’assegnatario. Infatti, in questa fase l’amministrazione deve tenere conto delle osservazioni che cittadini cointeressati (alla cura del bene, all’esercizio di diritti di uso pubblico o di accesso allo stesso) abbiano avanzato dopo la pubblicazione della proposta poi ammessa alla co-progettazione. Tali rilievi possono sostanziarsi in una semplice adesione alla proposta, che vede così ampliata la propria compagine soggettiva, oppure in emendamenti e integrazioni. Nell’uno e nell’altro caso, la co-proget- tazione mette a disposizione dei cittadini “terzi”, rispetto alla iniziale proposta di collaborazione, uno spazio per concorrere alla migliore cura dei beni comuni urbani. La co-progettazione, pertanto, rende palese che, quando a essere in questione è il governo dei beni comuni urbani, i relativi procedimenti assegna- no un’inedita rilevanza ad attori altrimenti esclusi da un tradizionale rapporto contrattuale (che ha forza di legge solo tra le parti). Accanto ai controinteressati del tradizionale procedimento amministrativo vengono in considerazione, con
un pieno riconoscimento giuridico, i soggetti cointeressati alla realizzazione del miglior progetto di cura, gestione condivisa e rigenerazione del bene comune.
Una simile metodologia cooperativa può apprezzarsi anche nelle ipotesi in cui attorno a un unico bene si formino – in risposta a una sollecitazione dell’ammi- nistrazione comunale o anche per iniziativa spontanea dei cittadini attivi – una pluralità di proposte. In una simile situazione risalta chiaramente la differenza tra il patto di collaborazione relativo a un bene comune urbano e gli strumenti giuridici più tradizionali, come la concessione in uso esclusivo di un bene pubblico.
La co-progettazione pare essere la fase maggiormente adatta a effettuare la ricerca di una sintesi, o comunque di una virtuosa convivenza, di una pluralità di proposte relative a un unico bene comune urbano. In sede di co-progettazione i cittadini attivi autori delle differenti proposte sono portati a incontrarsi e cono- scersi, confrontando in un clima informale i rispettivi progetti di uso pubblico. Non sembra dunque impossibile ritenere che la fase di co-progettazione, se posi- tivamente condotta anche con l’apporto dell’ente locale formalmente proprietario del bene, possa condurre all’elaborazione di un’unica proposta condivisa e quindi alla stipula di un solo patto di collaborazione, più partecipato dal punto di vista soggettivo e più ricco sul piano contenutistico.
Dell’eventualità in cui una pluralità di proposte di collaborazione provenienti dalla cittadinanza non sia integrabile in una proposta di sintesi abbiamo detto sopra, per cui non è necessario soffermarsi nuovamente sull’argomento. È sufficiente ribadire, pertanto, che è all’esito del positivo svolgimento della co-progettazione, la cui informalità mira a compensare i profili di complessità che in concreto pos- sono presentarsi, che il patto di collaborazione prende forma nei termini e con i contenuti che si vanno presentando in questo manuale: accanto alle modalità di cura, collaborazione e inclusione dei terzi sono definite le forme di sostegno adottate dal contraente pubblico e le reciproche responsabilità delle parti.
3.5.1. La co-progettazione come trattativa? Profili di responsabilità
Nella fase di co-progettazione, dunque, un’amministrazione comunale si trova in una situazione connotata da due esigenze non coincidenti. In primo luogo, nei confronti dei soggetti con cui negozia, la pubblica amministrazione non detiene una posizione di potere asimmetrico e gerarchicamente ordinato. Si parla, a tal riguardo, di “amministrazione paritaria”, sebbene non ci sia mai una posizione di piena uguaglianza con i soggetti privati (tra i quali si annoverano i cittadini attivi). Infatti, in quanto ente deputato a perseguire il miglior interesse pubbli- co ai sensi dell’articolo 97 Cost., nonché soggetto formalmente proprietario del bene oggetto della proposta di collaborazione, l’amministrazione comunale resta tenuta a esercitare funzioni di supervisione sugli usi del patrimonio prospettati nelle proposte dei cittadini attivi. Naturalmente, alla luce dei principi fatti propri dai Regolamenti comunali – si pensi alla fiducia reciproca, alla adeguatezza e differenziazione, all’autonomia civica e all’informalità – una presenza più attiva (magari con vere e proprie forme di supervisione sulle azioni della cittadinanza) sarà richiesta all’ente locale solo nel caso di proposte di collaborazione caratte- rizzate da profili di complessità (specularmente questi oneri di controllo saranno meno intensi nelle situazioni semplici e/o ordinarie).
I rilievi appena svolti assumono una rilevanza particolare alla luce delle carat- teristiche della co-progettazione tra amministrazione comunale e cittadini attivi, che è a tutti gli effetti una fase propedeutica alla conclusione di un accordo assimilabile a una trattativa contrattuale. Occorre quindi chiedersi se anche alla co-progettazione sia applicabile la disciplina dettata dagli articoli 1337 e 1338 c.c. in materia di responsabilità precontrattuale. Di seguito ci occuperemo di verificare, in particolare, se questa disciplina sia applicabile alle amministrazioni comunali. Ciò non toglie, peraltro, che considerazioni simili a quelle che svolge- remo valgono per i cittadini attivi: anch’essi potrebbero, date certe condizioni, essere responsabili a titolo precontrattuale per condotte tenute in fase di co- progettazione. Chiariamo pertanto che ci limiteremo a prendere in considerazione la posizione della sola pubblica amministrazione, poiché essa è stata al centro di intense discussioni in passato.
Secondo l’articolo 1337 c.c., «le parti, nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede». L’articolo 1338 c.c. dispone invece che «la parte che, conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all’altra parte è tenuta a risarcire il danno da questa risentito per avere confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto». Oggi non ci sono più dubbi sul fatto che tali disposizioni, dedicate in ambito privatistico alla responsabilità precontrattuale, siano riferibili anche alle persone pubbliche: esercitando la loro discrezionalità amministrativa in maniera trasparente e imparziale, infatti, esse sono tenute a comportarsi nel rispetto dei canoni di buona fede e correttezza e ciò esclude che si possano verificare forme ingiustificate di immunità. L’applicazione di queste norme alla fase di co-progettazione consente di tutelare le parti, e soprattutto i cittadini attivi, nei casi di abbandono ingiustificato del tavolo di lavoro. La pre- visione di rimedi ha anche lo scopo di responsabilizzare le parti, per prevenire comportamenti che possono frustrare il loro impegno e, più in generale, l’atti- vazione dei cittadini. Vediamo ora come possono funzionare gli articoli 1337 e 1338 nelle procedure che stiamo descrivendo.
In primo luogo va detto che la responsabilità precontrattuale delle pubbliche amministrazioni è già configurata in diverse situazioni. Il principale terreno di elaborazione in questa materia è stato – com’è facile intuire – quello delle gare a evidenza pubblica che conducono alla conclusione di appalti tra enti pubblici e operatori economici privati. La procedura competitiva si conclude con l’aggiu- dicazione provvisoria, la quale, a sua volta, è soggetta ad approvazione da parte dell’organo competente; solo a questo punto è possibile l’aggiudicazione definitiva del contratto, la cui efficacia resta in ogni caso sospesa (opera in questa fase una condizione sospensiva di fonte legale) fino al positivo esperimento dei controlli che preludono alla formale stipulazione. A fronte di un simile procedimento, fino a tempi non lontani la giurisprudenza si orientava nel senso di negare perfino all’aggiudicatario provvisorio la tutela giuridica accordata dalle regole in materia di responsabilità precontrattuale. Solo a partire dal 2005 (cfr. Consiglio di Stato, Ad. Plen., 5 settembre 2005, n. 6) si è verificata un’inversione di tendenza, con la giurisprudenza amministrativa che ha cominciato a riconoscere, a certe condi- zioni, l’applicabilità degli articoli 1337 e 1338 c.c. Sicché, attualmente, potrebbe
incorrere in una responsabilità precontrattuale l’amministrazione comunale che, esperita una procedura a evidenza pubblica per l’affidamento di un appalto, dopo l’aggiudicazione dei lavori debba revocare tutto l’iter di gara (così recando danno all’impresa che ormai faceva legittimo affidamento sulla stipula ormai prossima del contratto) perché, per esempio, emerge che il comune non può disporre dei beni oggetto della procedura. In un esempio simile l’amministrazione comunale potrebbe essere chiamata a rispondere ai sensi dell’articolo 1337 c.c. in quanto trascurare di verificare di avere la piena disponibilità di beni, in merito ai quali si avvia una procedura a evidenza pubblica, è certamente una condotta contraria alla buona fede e capace di ledere l’affidamento creato nei soggetti economici che competono per l’aggiudicazione dei lavori.
In anni recenti le possibilità di accertare la responsabilità precontrattuale delle pubbliche amministrazioni sono molto cresciute. Sul presupposto che una procedura competitiva a evidenza pubblica sia parte di un processo di formazio- ne progressiva dell’accordo contrattuale, comportando dunque l’instaurazione parallela di plurime trattative con tutti i partecipanti alla gara, oggi si ritiene che la responsabilità della P.A. ai sensi degli articoli 1337 e 1338 c.c. debba essere valutata anche nelle fasi precedenti all’aggiudicazione provvisoria (con evidente estensione dei soggetti tutelabili), potendosi perfino prescindere da eventuali profili di illegittimità dei provvedimenti assunti. In tal senso, «a differenza della responsabilità da mancata aggiudicazione, la culpa in contrahendo dell’amministra- zione nelle procedure a evidenza pubblica di affidamento di contratti costituisce fattispecie nella quale l’elemento soggettivo ha una sua specifica rilevanza, in correlazione con l’ulteriore elemento strutturale del contrapposto affidamento incolpevole del privato in ordine alla positiva conclusione delle trattative pre- negoziali» (così può leggersi nella massima di Cons. Stato, V, 27 marzo 2017, n. 1364; ma nella stessa direzione può segnalarsi anche Cass. civ., I, 12 maggio 2015, n. 9636).
Quanto si è visto implica a maggior ragione che gli articoli 1337 e 1338 c.c. siano applicabili nei casi in cui la pubblica amministrazione operi al di fuori delle procedure di evidenza pubblica informate alle logiche concorrenziali. Con riguardo alla ordinaria attività di diritto privato del settore pubblico si è infatti evidenziato che «il recesso dalle trattative è sindacabile ai sensi dell’art. 1337 c.c., ove l’ente pubblico sia venuto meno ai doveri di buona fede, correttezza, lealtà e diligenza, in rapporto anche all’affidamento ingenerato nel privato circa il perfezionamento del contratto, a prescindere dalle ragioni che abbiano indotto l’ente a interrompere le trattative o a rifiutare la conclusione del contratto» (così la recente sentenza di Cass civ. S.U., 27 aprile 2017, n. 10413).
Tornando al diritto dei beni comuni urbani, la responsabilità precontrattuale può conseguire a condotte poste in essere dall’ente locale in violazione dei doveri di buona fede e correttezza che esso ha nei confronti dei cittadini attivi. Questi aspetti risultano sensibili anzitutto perché i Regolamenti sui beni comuni non contengono di regola previsioni su tempi e termini delle procedure, e in spe- cial modo della co-progettazione: in assenza di una disciplina esplicita, quindi, ritardi e inerzie degli enti locali potrebbero ledere le aspettative dei cittadini attivi e il loro legittimo affidamento nella conclusione di patti di collaborazione.
Ulteriori esempi di possibili condotte dell’amministrazione comunale rimpro- verabili ai sensi degli articoli 1337 e 1338 c.c. sembrano essere: l’interruzione ingiustificata della co-progettazione; un rifiuto discriminatorio di concludere il patto di collaborazione.
A fronte di queste eventualità, occorre precisare che la co-progettazione avente a oggetto un bene comune urbano è equiparabile a una trattativa, ma mantiene tratti di specificità, dettati dall’impegno civico che la cura dei beni comuni urbani presuppone. Infatti, i cittadini attivi che la intraprendono agiscono sulla base di un movente solidaristico – attivarsi per la cura, gestione e rigenerazione di un bene identificato come comune –, non perseguono scopi di profitto e non puntano a ottenere forme di uso esclusivo del bene intorno a cui si sviluppa la negoziazione. Da tali elementi, consegue che i cittadini attivi che agiscano nei confronti della pubblica amministrazione possono chiedere soltanto un risarcimento commisu- rato al c.d. interesse negativo connesso alla trattativa non andata a buon fine: si pensi alle spese sostenute per elaborare progetti di rigenerazione, e magari alla perdita di occasioni di espressione di autonomia civica con riguardo a ulteriori beni comuni, nel caso in cui la conclusione di un patto di collaborazione sia im- pedita da ragioni colpevolmente trascurate dalla pubblica amministrazione (per esempio l’omissione di verifiche strutturali su un immobile).
È chiaro, peraltro, che questi profili risultano influenzati dalla discussione in merito alla natura giuridica dei patti di collaborazione, che affronteremo nel prossimo capitolo. Nel caso in cui si propendesse per qualificare i patti come contratti regolati dal solo diritto privato, sembra agevole prospettare questioni di responsabilità precontrattuale, con giurisdizione assegnata al giudice ordinario.