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IN CERCA DI INNOVAZIONE

SMART

Pubblicato sul sito web della Casa della Cultura il 18 maggio 2018.

Dello stesso autore, v. anche: Un nuovo paesaggio

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In questo modo l’evoluzio- ne delle tecnologie ICT può essere ricondotta anche all’urbanistica e alla pianifi- cazione del territorio, ripren- dendo il filo di un discorso che Mitchell aveva inaugu- rato pioneristicamente più di venti anni fa (Mitchell,1995; 1999) ma che a dire il vero non sembra ancora aver portato frutti significativi nella progettazione degli as- setti urbani contemporanei. Il tema è ben individuato dagli autori: come trasferire il sistema digitale dei servizi agli spazi materiali, cercan- do di ovviare a una dupli- ce criticità dell’approccio

smart cities: “la carenza di

risposte della forma urbana alle nuove relazioni sociali offerte dalle tecnologie ICT; e la riduzione delle persone agli indirizzi digitali, senza la mediazione degli spazi fisici, che compromette il sistema tradizionale di relazioni so- ciali all’interno dello spazio urbano”.

Muovendo da questi assunti, la regione metro- politana tra Milano e Torino viene immaginata come una rete di nodi materiali arricchiti dalle ICT, e conse- guentemente come una rete di Nodi Urbani Digitali, a cui gli utenti possono accedere

direttamente per ottenere o condividere le informazioni volute, grazie anche all’uso dei loro dispositivi smart- phone. Nodi urbani multi- scalari, dove “i computers dentro gli edifici possono essere sostituiti da uno stesso edificio intelligente, in grado di interagire con i suoi utenti”. Liberandosi della costrizione di confini ammi- nistrativi obsoleti, la rete dei nodi urbani digitali può così operare strategicamente ai diversi livelli, dal quartiere alla città e alla regione fino allo spazio planetario, realiz- zando l’obiettivo di connet- tere le funzionalità urbane allo stesso tempo rispetto alle reti locali e globali, in- trecciando strutture fisiche e flussi immateriali, in sinto- nia con la visione enunciata da Guallart (Guallart, 2012). Il confronto con le migliori esperienze in corso in Eu- ropa e altrove consente di suffragare questa ipotesi di lavoro, individuando in par- ticolare Malmoe Living Lab come un’eccellenza a cui riferirsi per il livello locale;

London Idea Stores e Bar- celona22@Innovation Di- strict per il livello urbano; e Seattle Smart city-regionali- sm a livello regionale. La fe-

condità dell’approccio prefi-

gurato è stata infine messa alla prova applicandola a due concreti casi di studio: il campus universitario Città Studi a Milano, e - sempre a Milano - l’intero settore ur- bano compreso tra il cam- pus della Bovisa e l’area Expo 2015. L’obiettivo era di verificare le opportunità di localizzazione dei Nodi Ur- bani Digitali e individuare le loro possibile composizione funzionale riferita ogni volta ai contesti di appartenenza.

 

Prospettive

Come va considerata la por- tata di questo contributo di ricerca rispetto al dibattito in corso su Smart city? In ef- fetti l’impostazione del lavo- ro presentato dal libro, sep- pur con spunti di originalità nella prefigurazione di spazi urbani ibridi, materiali e digi- tali, sottende un approccio teorico non troppo diverso dalle posizioni richiamate in apertura di questo scritto. Motivata dalla comprensibi- le esigenza di sfruttare ap- pieno l’occasione di Expo 2015 per esplorare nuove strategie di sviluppo me- tropolitano, la ricerca offre in effetti una prospettiva d’azione notevolmente più avanzata rispetto a quanto sta già facendo in modo pe- bano, dopo gli anni fecondi

di un movimento opposto verso il decentramento inse- diativo e i distretti industriali fioriti spontaneamente nelle nostre periferie territoriali. Le tecnologie intelligenti contri- buirebbero così a ridisegna- re profondamente gli scena- ri dello sviluppo, diventando il tramite obbligato per una molteplicità di processi di in- novazione che investiranno lo spazio materiale quanto quello immateriale, intrec- ciando reti di relazioni a di- stanza e luoghi sedimentati nel tempo.

 

Il libro

Il libro di Corinna Morandi, Andrea Rolando e Stefano Di Vita, From Smart Cities to

Smart Region. Digital Servi- ces for an Internet of Places

(Springer, 2016), offre uno stimolante contributo a que- sto dibattito in corso. Nato in occasione di una ricerca del Politecnico di Milano in collaborazione con Telecom Italia, prodotta per Expo 2015 nella prospettiva di una possibile conurbazio- ne smart Milano-Torino, il libro introduce alcuni spunti d’innovazione che preludo- no ad auspicabili evoluzioni delle tecnologie ICT applica- te alla metropoli. Non intriga

particolarmente l’ipotesi di una regione smart deputa- ta a mettere a sistema due aree metropolitane tenden- zialmente complementari, già adombrata nella ricerca degli anni precedenti sep- pur con finalità alquanto differenti (Bonomi, Masie- ro, 2014). Piuttosto appare feconda l’intuizione di un

Internet dei luoghi, derivata

da Internet delle cose, espli- citamente mirata all’integra- zione tra servizi fisici e digi- tali, e più complessivamente tra infrastrutture hard e soft, in una prospettiva d’innova- zione che mira comunque a ridurre i costi di gestione e ricalibrare positivamente il fabbisogno di investimen- ti per le opere pubbliche,

main stream ricorrente nel

dibattito politico nazionale. Altrettanto seminale appare anche l’altra intuizione, far diventare il nodo urbano un

Nodo Digitale Urbano. In-

ternet dei luoghi troverebbe così il proprio ancoraggio in nuove piattaforme di servi- zio appositamente distribu- ite nello spazio, come punti di convergenza tra servizi digitali e attività legate alla economia della conoscen- za e della condivisione, resi possibili dal veloce progres- so delle tecnologie digitali.

215 214 CITT À BENE COMUNE 2018 viaBorgog a3 | supplemento do di riassumere in modo soddisfacente ed esaustivo lo sviluppo sostenibile. Considerata la diver- sità di questo approccio, l’innovazione dovrà essere trattata in modo più perti- nente rispetto alle formula- zioni originarie del pensiero smart derivate sostanzial- mente dall’ingegneria dei sistemi, e orientate soprat- tutto a migliorare l’efficienza funzionale della città e della sua gestione. Appare infatti insufficiente il modello del- la tripla elica introdotto per analizzare i processi d’in- novazione basati sulla co- noscenza, come teorizzato da Deakin, che aveva indivi- duato tre driver determinanti per la creazione dei nuovi saperi e per la loro capitaliz- zazione: ricerca scientifica, industria e governance (De- akin, Leydesdorff, 2011). La città smart ne veniva definita di conseguenza come “luo- go di densificazione della rete, luogo d’incontro delle attività e delle conoscenze”. Ora invece diventa necessa- rio aprire il processo dell’in- novazione all’ingresso della società civile, una quarta elica, attraverso cui “l’impe- gno civile arricchisce la do- tazione culturale e sociale, determinando le interazioni

tra ricerca, industria e go- verno locale, piuttosto che essendone determinata” (Donolo, Toni, op.cit.). L’in- telligenza della città non va considerata dunque come esito di software e algoritmi sempre più sofisticati, as- sistiti dallo sviluppo di big

data sempre più pervasivi

e affidabili; dipende infatti in misura sostanziale dal- la capacità d’incorporare il protagonismo degli individui e della società, e dall’impe- gno civile che può piegare gli sbocchi dell’innovazione verso percorsi imprevedibili con le sole strumentazioni tecnologiche.

 

Limiti

Restano più in generale da discutere alcuni limi- ti dell’approccio veicolato dallo smarting come inteso e praticato correntemente, in Italia e altrove. Morandi, Rolando e DI Vita appaiono ben consapevoli dei rischi di un approccio eccessiva- mente tecnocratico e orien- tato al mercato, nonché degli effetti di segregazione sociale che possono indur- re le tecnologie ICT quando vengono applicate alla città senza un’adeguata stra- tegia di contrasto al digital

divide. Sennet in particolare

ha messo in guardia con- tro i rischi di un’urbanistica

data-driven, osservando

che nuove città-pilota come Songdo in Corea o Masdar in Abu Dhabi sembrano essere prive del soffio vita- le che si riscontra laddove funge da protagonista l’im- maginazione individuale. Sicché queste città si can- didano a diventare i disastri urbani del nostro secolo, “smart cities di ieri, incubo di oggi” (Sennet, 2012). Ma altri ancora sono i limiti da prendere in carico, come ad esempio quelli imputabili ai modelli utilizzati general- mente per l’ottimizzazione delle prestazioni urbane. Questi modelli, in nome dell’efficienza, sono costitu- tivamente portati a sacrifica- re l’importanza dei processi di contemperamento demo- cratico tra diverse esigenze e giudizi di valore espressi da gruppi d’interesse irri- ducibili tra loro. Appaiono incapaci di apprendere cri- ticamente dall’esperienza, per esempio di fronte alle richieste avanzate dai mo- vimenti di protesta civile o che emergono dai conflitti sociali nelle periferie. Sicché è difficile sfuggire al fonda- to sospetto che i sistemi di smart city che si stan- raltro frammentario Milano,

la città comunque più attiva in Italia per la diffusione delle tecnologie digitali applica- te alla gestione urbana. Ma intanto la riflessione teorica sullo smartness sta evol- vendo verso altri orizzonti, muovendo in particolare dalle considerazioni di Nij- kamp: la città è smart quan- do gli investimenti in capitale umano e sociale, e le infra- strutture di comunicazione tradizionale come i trasporti, e quelle moderne come le ICT, alimentano una cresci- ta economica sostenibile e un’elevata qualità di vita, con una sapiente gestione delle risorse naturali, e prati-

cando una governance par- tecipativa (Nijkamp, 2011).

Su questa scia Donolo e Toni hanno poi avuto modo di riscontrare la progressiva emancipazione in atto an- che in Italia per un concet- to nato dall’industria delle telecomunicazioni, e che si estende ora allo sviluppo sostenibile e alla green eco-

nomy, intercettando i temi

del miglioramento del ca- pitale umano e della capa- citazione come formulati in precedenza da Sen e Nus- sbaum (Donolo,Toni, 2013). Le tecnologie ICT in questa diversa prospettiva non ap-

paiono più soltanto come i vettori della new economy secondo l’ottimistico quan- to infondato approccio della fine del secolo scorso, ma tendono piuttosto a ridefi- nirsi come “uno dei driver di una società nella quale le città sono i nodi intelligenti e propulsivi di una pluralità di politiche e di strategie mes- se in campo per una transi- zione soft da un sistema for- temente dissipativo in termi- ni di risorse naturali verso un sistema diverso, molto più dinamico, efficiente, circo- lare, ricco di conoscenza e di nuove articolazioni, capa- ce di perseguire lo sviluppo sostenibile e il benessere dei cittadini al di là dei consumi e al di là del PIL, investen-

do in capacitazione e rela- zioni sociali” ( Donolo,Toni,

op.cit). La città intelligente e sostenibile diventa allo- ra la città che è in grado di assicurare al tempo stesso

benessere materiale, qualità della vita e qualità ambien- tale, rinnovando i quadri

cognitivi che presiedono alla definizione di questo con- cetto di sviluppo e al tempo stesso introducendo nuovi sistemi di misurazione, poi- ché il Prodotto Interno Lor- do non appare più come la variabile significativa, in gra-

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soluzioni orientate piuttosto al modello della città auto-

catalitica, dove i processi

adattivi si basano sull’esi- stenza di un’intelligenza locale diffusa, che migliora la capacità dei cittadini di promuovere dal basso i mu- tamenti di contesto e che in definitiva è volta priorita- riamente a potenziare il loro capitale cognitivo favoren- do la partecipazione attiva alle politiche urbane (De La Pena, 2013).

Alla luce di queste con- siderazioni, i risultati della ricerca di Morandi, Rolando e Di Vita sembrano sollevare ulteriori questioni che atten- gono alle discipline di pia- nificazione delle città e del territorio. La stessa incon- testabile necessità di inner- vare con tecnologie smart la futura conurbazione Milano- Torino andrebbe riguardata ad esempio non soltanto sotto il profilo della predi- sposizione strutturata e ben localizzata di piattaforme digitali integrate, con com- binazioni di funzioni appro- priate rispetto ai diversi livelli di governo; quanto piuttosto come offerta di potenzialità culturali variamente commi- surate alle attese e alle po- tenzialità delle popolazioni coinvolte, ovvero come pro-

ve d’innovazioni che pos- sono comunque innescare conflitti sociali, amministra- tivi e politici raramente go- vernabili in chiave tecnologi- ca. Del resto c’è da tenere presente che l’investimento in tecnologie digitali mol- to spesso conduce a esiti tutt’altro che prevedibili, con conseguenze che talvolta possono apparire sconcer- tanti. Come ha osservato ad esempio Greenfield, “si pos- sono istallare schermi inte- rattivi negli spazi pubblici e scoprire che nessuno è inte- ressato a utilizzarli, sicché la tecnologia muore nel disin- teresse generale. Oppure, dopo un iniziale successo, falliscono perché il sistema progettato è troppo rigido, e non è in grado di assorbire la evoluzione imprevedibile della domanda. Il caso mi- gliore è quando la soluzione progettata incontra il favore della gente, anche se poi la sua utilizzazione spesso non ha nulla a che fare con ciò che era stato immaginato dai pianificatori urbani” (Gre- enfield, 2013; Vanky, 2015). Insomma non c’è dub- bio che la infrastrutturazione digitale della conurbazione Milano-Torino sia una parti- ta probabilmente decisiva ai fini del rafforzamento della

competitività e attrattività di questi territori metropolitani. Ma le vie dell’innovazione da percorrere rimangono imprevedibili, e non vanno forzate con l’imposizione di razionalità troppo determi- nistiche sul lato dell’offerta tecnologica.

no diffondendo operano a vantaggio soprattutto degli apparati amministrativi e delle aziende pubbliche di servizio, oltre che natural- mente delle case produttrici di software. E soprattutto s’intravvede il rischio in- quietante che l’estensione pervasiva di queste tecno- logie avanzate di gestione della città, di fatto orientate a controllare e stemperare i conflitti urbani, possa aprire inconsapevolmente a derive autoritarie, con poteri forti che potrebbero utilizzare in modo illegittimo l’enorme quantità di dati sensibili sui comportamenti e sulle pre- ferenze espresse dalle per- sone (Greenfield, 2013). E che la gestione dei big data senza un adeguato controllo democratico possa condur- re a preoccupanti manipola- zioni dell’opinione pubblica, come si è scoperto recen- temente con lo scandalo di cinquanta milioni di profili Facebook violati da Cam- bridge Analytica per favorire l’elezione di Trump o il suc- cesso di Brexit.

Il punto è che le città e ancor più le metropoli, per propria natura, tendono a fungere inevitabilmente da crogiolo di contestazioni, tensioni e conflitti che con-

trappongono tra loro mol- titudini di individui e gruppi portatori d’interessi, in pre- senza di un’amministrazio- ne pubblica che è chiamata a praticare la difficile arte politica di bilanciare attese intrinsecamente irriducibili. Non è un caso se il corto circuito affidato ai sistemi smart funziona meglio pro- prio dove - come a Singa- pore - la democrazia parte- cipata lascia il campo a una gestione tendenzialmente autocratica del potere, le- gittimata dall’efficienza della tecnologia ICT. C’è chi inter- preta questa propensione all’autoritarismo top-down come un retaggio della cul- tura architettonica e urbani- stica della prima modernità, alimentata allora come oggi dalla fiducia eccessiva nella tecnologia, dall’avversio- ne nei confronti della città ereditata dal passato e da una pretesa universalità dei bisogni da trattare con le politiche del welfare urbano. Il fallimento di questa cul- tura del moderno sembra aver insegnato ben poco a chi oggi intende rilanciare in chiave marcatamente tec- nologica un funzionamen- to urbano governato dallo

smartness, quando invece

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puntualmente i contenuti del testo (del quale testo, forse, bisogna rilevare qualche ri- dondanza e alcune ripetizio- ni). Questo libro è importante perché si colloca nel quadro problematico delle riflessio- ni e delle proposte per una ormai necessaria e urgente ricostruzione-rigenerazione di una cultura urbana (e dell’urbanistica) dandole un rilevante contributo. Le ra- gioni della necessità della ricostruzione-rigenerazione della cultura urbana e urba- nistica in Italia (ma non solo) possono essere chiaramen- te leggibili negli stessi con- tenuti e nell’articolazione del libro. C’è un filo rosso che lo attraversa tutto: in sintesi, il libro è la narrazione di una tendenza, o piuttosto di un processo, che appare, se non già consolidato, in via di consolidamento verso il su- peramento (o meglio il rifiu- to) di gran parte dei canoni della cultura urbanistica del Moderno e l’introduzione di nuovi canoni, o nuovi codici come dice il sottotitolo del li- bro. Nuovi codici che sono il risultato anche del recupero e della rigenerazione (che in questo caso significa attua- lizzazione alla contempora- neità) dei codici delle culture urbane della città storica e in

particolare della cultura delle forme della città. Nuovi co- dici che sono l’esito più im- portante di un processo che definirei di controrivoluzione culturale che dalla procla- mata rivoluzione che propo- neva come modello la città ideale del Moderno (con le sue astrattezze e relative criticità) intende tornare alla città reale degli abitanti. Vale a dire tornare alle concrete buone qualità urbane che possiamo ritrovare nelle forme urbane e nei modi di abitare nelle parti storiche delle città e che possiamo applicare, pur rinnovandole, nelle parti delle città di più recente formazione.

La narrazione è artico- lata in tre periodi, che cor- rispondono alle prime tre parti del libro: Parte prima:

Il secondo dopoguerra e il trionfo della modernità e della sua idea di città; Parte

seconda: Gli ultimi decenni

del secolo e l’irruzione della postmodernità; Parte terza: L’uscita dalla postmodernità e i nuovi codici della com- posizione urbana, che con-

tiene un capitolo, il settimo, del quale è autrice Emanue- la Belfiore. Seguono la Parte quarta e la quinta del libro, nelle quali i capitoli sono firmati da Roberto Cassetti

e, di volta in volta, da San- dra Simoni o da Edoardo Cosentino come co-autori. Queste due parti trattano rispettivamente i casi delle città di Londra e di Parigi come esempi di sperimen- tazione e applicazione dei nuovi principi e codici del disegno urbano.

Ognuna delle prime tre parti tratta, anzitutto, le ca- ratteristiche sociali ed eco- nomiche proprie di ciascun periodo, e poi descrive e analizza gli effetti sulle forme urbane che quelle caratte- ristiche hanno prodotto e producono. Qui è interes- sante soprattutto del tema delle forme urbane. Tema fondamentale per gli urbani- sti, perché è nel paesaggio urbano, nelle forme dei suoi spazi, che si svolge quoti- dianamente la vita degli abi- tanti delle città. Ed è anche nella percezione delle forme e delle possibilità d’uso degli spazi del paesaggio urbano che vengono apprezzate o meno, da parte degli abitan- ti, le condizioni dell’abitare. Realizzare le condizioni per un buon abitare dovrebbe essere la cura maggiore dell’urbanistica nei confron- ti degli abitanti. E poiché la maggior parte dell’urbani- stica italiana sembra curarsi