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URBANO

OPEN SCALE

Pubblicato sul sito web della Casa della Cultura il 12 ottobre 2019.

Dello stesso autore, v. anche: In cerca di innova-

zione smart (18 maggio 2018).

Sul libro oggetto di questo commento, v. inoltre: Giampaolo Nuvolati, Tecnologia (e politica) per

migliorare il mondo (13 luglio 2018); Corinna

Morandi, Risorse virtuali e uguaglianza territoriale (23 novembre 2018).

Del libro di Carlo Ratti si è discusso alla Casa della Cultura - nell’ambito della VI edizione di Città Bene Comune - martedì 22 maggio 2018, alla presenza dell’autore, con Alberto Clementi, Corinna Morandi e Giampaolo Nuvolati.

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medie e non più controlla- bile in modo trasparente. Nei fatti insomma i modelli veicolati da smart cities tendono troppo spesso a sacrificare i processi espli- citi di contemperamento democratico tra esigenze e giudizi di valore espressi da gruppi d’interesse irriducibili tra loro. Né appaiono capaci di apprendere criticamente dall’esperienza, per esem- pio di fronte ai movimenti di protesta civile o che emer- gono dai conflitti sociali nelle periferie.

In questa prospettiva fa impressione la critica radi- cale di Sennett, che vede le città smart realizzate finora come “città impeccabilmen- te efficienti, ma senza anima. Sono del resto costruite per essere consumate, in modo che la gente non pensi. La

smart city ci rende stupidi”.

Lo testimonia con evidenza l’esempio delle smart cars, che tende a ridurre drasti- camente le nostre abilità co- gnitive e la nostra esperien- za della città. In effetti, “più un’esperienza è liscia, priva di frizioni, più noi smettiamo d’imparare”(5). Ancora più radicale è una critica indiret- ta di Tafuri, il quale trent’anni fa osservò che le grandi uto- pie che cercano d’imbriglia-

re il tempo dandogli inten- zionalmente una forma rico- noscibile sono destinate a fare la stessa fine della Ber- lino di Hitler o della Mosca di Stalin. “Proprio il sistema di conflitti che chiamiamo città implica l’abbandono di qualsiasi tentativo comples- sivo di sintesi della natura della città o della metropoli, o di ciò che la metropoli sta diventando”.

E allora? Noi tutti siamo ben consapevoli dei limiti che pesano su smart city e sull’ottimistico ricorso per- vasivo alle tecnologie digi- tali. E tuttavia conviene far tesoro del lavoro illuminan- te proposto da Ratti. I suoi sforzi vanno nella direzione giusta, quella di una città

autocatalitica come già teo-

rizzato da De La Pena. Una città dove i processi adattivi si basano sull’esistenza di un’intelligenza locale diffusa, che migliora le capacità dei cittadini di promuovere dal basso i mutamenti di conte- sto e che in definitiva è volta a potenziare il loro capitale cognitivo, favorendo la loro compartecipazione attiva alla costruzione dei progetti per la città (6).

Il fatto è che appare fuorviante assumere una prospettiva totalizzante, con

la riforma radicale dei me- todi di progettazione della città e delle strumentazioni conoscitive da adoperare. I metodi più canonici di pro- gettazione della città non dovrebbero affatto lascia- re il campo alla urbanistica

open source, e all’imperso-

nalità delle soluzioni costru- ite direttamente dai citizens adoperando le reti digitali a disposizione. Piuttosto ci si dovrebbe aprire riflessi- vamente all’intreccio tra le molteplici razionalità tipiche del progetto urbano mirate alla ricerca di qualità bilan- ciata tra approcci top down e bottom up, incorporando quelle portate dalla parte- cipazione informata dei cit- tadini, assistita dalle nuove tecnologie digitali.

A queste condizioni sarà possibile contribuire con- cretamente alla costruzione della città di domani. E forse diventerà possibile praticare il modello EcoWebTown, al quale avevo dedicato le bat- tute conclusive del mio libro

Forme imminenti (7). Cioè

un nuovo paesaggio urbano

open scale, prodotto dalla

combinazione peculiare di una varietà eterogenea di ecodistretti locali dai meta- bolismi autobilanciati, iper- connessi, identitari, messi in conseguenza come “luo-

go di densificazione della rete, luogo d’incontro delle attività e delle conoscen- ze”. Ora invece diventa ne- cessario aprire il processo dell’innovazione all’ingres- so della società civile, una

quarta elica, attraverso cui

“l’impegno civile arricchisce la dotazione culturale e so- ciale, determinando le inte- razioni tra ricerca, industria e governo locale, piuttosto che essendone determina- ta”. L’intelligenza della città non va considerata dunque come esito di software e al- goritmi sempre più sofistica- ti, assistiti dallo sviluppo di

big data sempre più perva-

sivi e affidabili; dipende inve- ce in misura sostanziale dal- la capacità d’incorporare il protagonismo degli individui e della società, e dall’impe- gno civile che può piegare gli sbocchi dell’innovazione verso percorsi imprevedibili con le sole strumentazio- ni tecnologiche. Si tratta di una visione dell’innovazione

smart abbastanza simile a

quella che ci propone Ratti, e che tende a emanciparsi dalle formulazioni correnti.

Però c’è qualcosa che non convince fino in fondo in questo approccio fon- damentalmente ottimistico,

in cui effettivamente la tec- nologia appare utile solo se si dimostra empowering, cioè se offre ai cittadini una quantità adeguata di informazioni per prendere decisioni informate e con- sapevoli. Non è soltanto il sospetto che i poderosi interessi che soggiacciono alla diffusione delle tecno- logie digitali siano in verità assai poco malleabili, e che tendano ad agire purtroppo in direzione ben diversa da quella perorata da Ratti (tra i molti esempi disponibili, si pensi ai limiti delle realizza- zioni più celebrate dell’idea di smart city come Songdo o Singapore, giustamente criticate da Greenfield come espressione di autoritarismo istituzionale, che ripropone di fatto il modello impositi- vo praticato dagli architetti della prima modernità, po- lemicamente contraddetto anche da Ratti in altre occa- sioni (4). Ma si pensi anche a un caso a noi più vicino, l’applicazione sconcertante del modello di democrazia partecipata digitalmente, come si sta sperimentando in Italia: un’inquietante di- storsione del funzionamento normale della democrazia, svuotata populisticamente delle rappresentanze inter-

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relazione alle diverse scale dalla presenza multiscalare di reti della sostenibilità e reti

smart. Una città interpreta-

bile con le categorie con- cettuali introdotte tempo fa da Banham, meglio ancora che attraverso l’interazione tra reti digitali e corpi fisici di

Senseable City.

 

 

Note

1 Kwinter S., 2010 Notes on

the Third Ecology, in Eco- logical Urbanism, eds. by

M. Mostafavi and G. Do- herty, Baden: Lars Müller, pp. 104-153.

2 Donolo C., Toni F., 2013,

La questione meridionale e le smart cities, in “Rivista

economica del Mezzogior- no”, XXVII, nn. 1-2. 3 Leydesdorff L., Deakin M.,

2011, The Triple-Helix Mo-

del of Smart Cities: a neo- evolutionary perspective in

“Journal of Urban Techno- logies”, Taylor&Francis. 4 Greenfield A., 2013,

Against the Smart City,

New York: Do Projects. 5 Sennett R., 2018, “D - La

Repubblica”, n. 1090. 6 De La Pena B., 2013, Em-

bracing the Autocatalytic city, Ted Books.

7 Clementi A., 2016, Forme

imminenti. Città e innova- zione urbana, Trento: LiSt

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siderando anche periodi di tempo assai estesi (2).

Il libro curato da Miche- le Colucci e Stefano Gal- lo, Fare Spazio. Rapporto

2016 sulle migrazioni inter- ne in Italia (Donzelli, 2016)

- realizzato sulla scorta di un programma Miur con il contributo del Cnr e dell’Isti- tuto di Studi sulle Società del Mediterraneo - è il terzo Rapporto pubblicato sulle migrazioni interne in Italia. Raccoglie sette studi abba- stanza eterogenei, anche in relazione all’arco temporale considerato, in alcuni casi di breve periodo e in molti altri di lungo periodo. Sotto questo aspetto, le prospet- tive storiche più ampie sono curiosamente rappresentate da tre saggi che prendono rispettivamente in conside- razione gli ambiti territoriali più circoscritti (Roma e il li- torale romano) e quello più esteso oltre i confini nazio- nali (ben 30 Paesi europei).

Nel saggio di Massimi- liano Crisci, le trasforma- zioni urbane di Roma dalla sua annessione nel Regno d’Italia ad oggi sono colle- gate ai flussi migratori e alla struttura demografica della città. Per circa un secolo la capitale ha accresciu- to la propria popolazione

residente, aggiungendo al saldo naturale positivo un importante saldo migratorio di origine nazionale, soprat- tutto dalle regioni limitrofe e dal Mezzogiorno. Solo in misura limitata questa urba- nizzazione si ricollega all’in- dustrializzazione, eccezion fatta per il comparto edilizio. I ceti sociali maggiormente interessati sono piuttosto riconducibili al settore ter- ziario tradizionale, sia pub- blico sia privato. Dagli ulti- mi decenni del Novecento il Comune di Roma perde inizialmente abitanti a favore dell’hinterland (sprawl urba- no), ma presto li recupera, grazie a nuovi processi mi- gratori che in ampia misu- ra interessano popolazioni straniere, ma in parte anche italiani qualificati di ceto me- dio, nuovamente attratti dal- le zone semi-centrali della città (gentrification).

L’articolo di Paola Corti sull’Ecomuseo del litorale romano mette in luce una possibilità di riqualificazione culturale nell’area di Ostia, recentemente interessata da fenomeni preoccupan- ti di disagio e di devianza sociale. In questo caso le migrazioni interne tra fine Ottocento e inizio Novecen- to rappresentano l’inconsa-

pevole occasione per un re- cupero di memoria storica, promossa dai discendenti dei coloni di Ravenna che avevano realizzato l’impo- nente bonifica delle palu- di malariche nella zona di Maccarese. Va notato che le iniziative di musei etnografici riguardano prevalentemen- te popolazioni autoctone, mentre in questo caso si dimostra l’interesse che può suscitare un gemellaggio virtuale tra popolazioni ita- liane di diversa provenienza. Di ampio respiro, anche se focalizzato solo margi- nalmente sul tema princi- pale delle migrazioni interne in Italia, è il saggio finale di Michel Poulain e Anne Herm sulle statistiche demogra- fiche raccolte in 30 Paesi europei. Il suo inserimento in questo volume si giusti- fica perché anche in Italia si va attuando un’anagrafe nazionale, come in altri Pa- esi dell’Europa settentrio- nale che hanno realizzato i registri centralizzati della popolazione. Chiaramen- te tali registri costituiscono una base di dati ottimale per il monitoraggio dei tra- sferimenti interni. Ma non solo: attraverso di essi i ri- cercatori sociali possono studiare in sequenza i tra-