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SIA ANCHE IL

LINGUAGGIO

Pubblicato sul sito web della Casa della Cultura il 12 ottobre 2018.

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portare le politiche di sin- daci e amministratori come Matilde Casa, i quali, se iso- lati e intrappolati nel singolo retino del piano strutturale o del piano operativo, fini- scono per individualizzare scelte in realtà generate da una visione complessiva del territorio, cadendo poi vitti- ma delle personalizzazioni o di presunte ragioni extra- contestuali, come le anti- patie, le vendette, i regola- menti di conti post-elettorali. Una cortina fumogena ben spessa, dalla quale è relati- vamente agevole far emer- gere il profilo fantasmatico dell’abuso d’ufficio.

Bisogna pensarci prima, per scansare la solitudine delle scelte amministrative più scottanti. Pileri aggiun- ge che la secolarizzazione del linguaggio urbanistico non basta, che ci vuole pure una taglia municipale in gra- do di gestire razionalmente la complessità territoriale: i comuni sotto i 5.000 abitan- ti sono di sicuro ad alto ri- schio d’incompetenza, data la rarefazione del personale tecnico attrezzato. Ma non è che quelli sui 10.000 se la passino meglio. L’età del riordino amministrativo sembra tuttavia alle nostre spalle: dopo la legge Del-

rio del 2014 (il cui obiettivo principale era la depoliti- cizzazione delle province), non ne parla in Italia più nessuno, mentre le Città metropolitane rischiano di annegare nelle negoziazioni più sterili e verbose. Duran- te le elezioni politiche del 2018 non abbiamo ascolta- to un’idea sola su territorio, decentramento, comunità locali; e ciò proprio mentre crescevano i partiti pro- grammaticamente orientati a raccogliere in teoria indi- cazioni “dal basso”: la Lega, originariamente federalista, e il M5S, che della dissemi- nazione associativa ha fatto la sua forza. Non sappiamo, quindi, quale sarà il destino del suolo italiano nel futuro prossimo venturo. Di certo, come si augurano Matilde Casa e Paolo Pileri, senza un accordo fra la disinte- ressata mobilitazione delle competenze e la disponi- bilità degli amministratori pubblici ad integrarla nelle proprie “visioni” collettive e narrative, non andremo da nessuna parte. Con buona pace di quelli che credono ancora alle leggi risolutive e alle norme salvifiche e defi- nitive: il tempo presente ci interpella e ci sprona invece alla responsabilità, ciascu-

no pro quota. Per questo Il

suolo sopra tutto dovrebbe

diventare l’indispensabile

vademecum di un cittadino

che non rinuncia alla sovra- nità, alla critica, al controllo. Diciamo un antidoto serio al populismo d’ogni risma? Diciamolo.

esso è nei fatti usucapito da élite tecniche, burocratiche, politiche o para-politiche, imprenditoriali, a volte cri- minali. A chi rispondono queste élite? A nessuno, dal momento che la fase di di- scussione e di pubblicità dei piani, o di delibera delle va- rianti ai medesimi, approda nei consigli comunali blin- data da una solida corazza di sigle, acronimi, numeri, riferimenti a tavole, proprio per renderla rigorosamente inintelligibile ai non addetti ai lavori (fra i quali è d’obbli- go enumerare la stragrande maggioranza degli assesso- ri e dei consiglieri comunali). Se la realtà è questa - e, per avere amministrato pro

tempore un medio comune

italiano assicuro che lo è -, come uscirne? Come ricon- nettere la sovranità al popo- lo? E soprattutto, che cosa possono davvero decidere i cittadini? Confesso di non credere che ogni decisione relativa alla vita pubblica possa essere assunta da chiunque: ci sono livelli di complessità (moltissimi, so- prattutto nel nostro mondo complicato) che richiedono la delega a persone esperte e competenti. Le quali, non dimentichiamolo, debbono poi assumersi precise re-

sponsabilità di fronte alla legge. Per queste ragioni, poiché rifuggo dalle scor- ciatoie demagogiche, sono persuaso che il principio di rappresentanza abbia ancora un senso. A patto però che sia chiaro chi e

cosa si va a rappresentare.

Ad esempio, per restare al nostro caso, ai cittadini non può essere certo richiesto di pronunciarsi su ogni atto edilizio del Comune, ma essi hanno il diritto di sape- re quale sarà il territorio che l’amministrazione intende tutelare, che tipo di pae- saggio vuole trasmettere nel tempo, quale tipo d’inter- venti strutturali s’impegna a realizzare perché ritenuti davvero necessari. La co- munità può anche non es- sere interessata ai dettagli topografici del piano, pur- ché sia rassicurata sulle sue linee di fondo, queste sì fa- cilmente comunicabili a tutti. Se il suolo è un bene comune, allora il linguaggio che lo descrive sia per tutti, non appannaggio esclusivo di pochi; e in questa opera- zione-verità, lo dice giusta- mente Pileri, è necessaria una nuova stagione di mo- bilitazione da parte di quei tecnici e quegli intellettuali che sentono di dover sup-

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mente dalle numerose teo- rizzazioni di smart city che tradiscono la loro ascen- denza dall’ingegneria dei si- stemi e talvolta anche dagli interessi dei colossi dell’in- formatica che hanno lette- ralmente inventato il tema, monopolizzandone le rica- dute per il proprio tornacon- to. Sono i cittadini al centro del futurecrafting proposto da Ratti: “Non può esistere

smart city senza smart citi- zens”. In questa diversa e

condivisibile prospettiva, “la città viene migliorata non tanto grazie alla tecnologia, quanto all’iniziativa dal bas- so dei cittadini”. Facendo proprio l’obiettivo di attivare

la cittadinanza prefigurato

da Saskia Sassen, Ratti im- magina di “hackerare la città aprendo sistemi informatici tradizionalmente chiusi e infrangere la mentalità che mira a ottimizzare gli spazi urbani”.

Questa visione di Ratti sembra del tutto coerente con le nuove forme di razio- nalità individuate dalla critica più avanzata per descrivere la città contemporanea. Kwinter ad esempio ne ri- conosce cinque: la diffusio- ne illimitata delle tecnologie digitali; la frammentazione delle domande sociali; l’af-

fermazione di una visione globale e omogeneizzante della cultura; la democra- tizzazione all’accesso della sfera pubblica; l’assimilazio- ne al mercato dei sistemi di organizzazione della società (1). Ratti esprime infatti una posizione colta e consape- vole che cerca generosa- mente di mettere al servizio della cittadinanza le enormi risorse rese disponibili dallo sviluppo delle reti digitali. La sua interpretazione si inseri- sce in un modo originale di concepire smart city, che - come ho avuto già occa- sione di osservare nel mio commento al libro di Corinna Morandi e altri From Smart

city to Smart Region - inter-

cetta positivamente i temi del miglioramento del capi- tale umano e della capacita- zione individuale come for- mulati da Sen e Nussbaum. Le tecnologie ICT in questa diversa prospettiva non ap- paiono più soltanto i vettori della new economy o della

ottimizzazione smart delle

funzionalità urbane, secon- do l’ottimistico quanto in- fondato approccio della fine del secolo scorso. Tendono piuttosto a ridefinirsi come “uno dei driver di una socie- tà nella quale le città sono i nodi intelligenti e propulsivi

di una pluralità di politiche e di strategie messe in campo per una transizione soft da un sistema fortemente dis- sipativo in termini di risorse naturali verso un sistema diverso, molto più dinamico, efficiente, circolare, ricco di conoscenza e di nuove ar- ticolazioni, capace di perse- guire lo sviluppo sostenibile e il benessere dei cittadini al di là dei consumi e al di là del PIL, investendo in capa-

citazione e relazioni sociali”

(2).

Considerata la diversità di questo approccio, l’inno- vazione dovrà essere trat- tata in modo più pertinente rispetto alle formulazioni ori- ginarie del pensiero smart, derivate sostanzialmente dall’ingegneria dei sistemi, e orientate soprattutto a mi- gliorare l’efficienza funziona- le della città e della sua ge- stione. Appare insufficiente il modello teorico della tripla

elica introdotto nella ricer-

ca per analizzare i processi d’innovazione basati sulla conoscenza. Deakin in par- ticolare aveva individuato tre driver determinanti per la creazione dei nuovi sape- ri e la loro capitalizzazione: ricerca scientifica, industria e governance (3). La città

smart ne veniva definita di

Alberto Clementi

È ormai da tempo che Car- lo Ratti sta affinando la sua interpretazione innovativa della città contemporanea e, in particolare, del ruo- lo delle tecnologie digitali nella sua trasformazione in atto. Anche nel suo ultimo libro - La città di domani.

Come le reti stanno cam- biando il futuro urbano (con

Matthew Claudel, Einaudi, 2017) - Ratti è portatore di una visione tendenzialmente

ottimistica, come è naturale

per chi è chiamato ad eser- citare il progetto. Al tempo stesso esprime una visione sostanzialmente totalizzan-

te, intanto che continua a

esplorare l’avvenire delle cit- tà con un futurecraft che im- plicitamente assume le nuo- ve tecnologie ICT come un motore ineludibile del cam- biamento. Ratti auspica una città sempre più smart, gra- zie all’avvento dell’informati- ca diffusa, ubiquitous com-

puting, e della disponibilità

crescente di poderosi data

base (Big data), con modelli data-driven che consentono

ormai di misurare in modo accurato le prestazioni ur- bane e di valutare in tempo reale l’effetto delle strategie d’intervento.

La posizione di Ratti non è affatto ingenua, diversa-

UN NUOVO