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STARE CON SETTIS RICORDANDO

CEDERNA

Pubblicato sul sito web della Casa della Cultura il 5 ottobre 2018, questo articolo è una replica a quelli di Marco Romano, Memoria e bellezza

sotto i cieli d’Europa (8 giugno 2018) e Francesco

Ventura, Sapere tecnico e etica della polis (28 settembre 2018).

Dello stesso autore, v. anche: Dov’è la bellezza di

Milano? Le regole urbanistiche, un valore di civiltà

(24 giugno 2015); Casa, lavoro, cittadinanza. Il

nodo irrisolto dell’immigrazione nelle città italiane

(16 dicembre 2015); Casa, lavoro, cittadinanza.

Seconda parte (17 febbraio 2016); Città metropo- litana, policentrismo, paesaggio. Tre imprescindibili aspetti di un nuovo piano (14 luglio 2016); Discorsi di piazza e di bellezza (26 gennaio 2017).

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(et al.). Il tema cruciale è quasi sempre quello della tutela (del paesaggio, del territorio in generale e dei centri urbani) che nel nostro paese è oggi una specie di cane senza padrone abban- donato sull’autostrada. Ep- pure Settis ci ricorda, circa la tutela e le istituzioni neces- sarie, la sorprendente con- tinuità di pensiero fra Croce, Bottai e la Costituzione del 1948; non diversamente si muove la strana coppia Nitti e Croce, per i quali la difesa del paesaggio non poteva reggere senza la sconfitta dei grandi proprietari e degli antiquari disonesti, né senza esaltare la concezione di in- teresse pubblico.

Tale chiarezza nella po- sizione del grande storico dell’arte è Paolo Leon ad averla segnalata in “L’Indi- ce dei libri del mese”. Un critico che merita un’ampia citazione: “Sembra che Set- tis colga il punto di rottura che caratterizza la fuga dalla tutela nella divisione del pa- esaggio tra i nuovi ministeri (Beni culturali, Ambiente), nella diversificazione giuri- dica dei termini (territorio, ambiente, paesaggio) nella moltiplicazione delle auto- rità responsabili (Regioni, Comuni Province): dissen-

nati divorzi, come li defini- sce brillantemente”. Eppure “ci fu un non infelice inizio degli anni Ottanta quando la mobilitazione dei soprin- tendenti, della società civi- le, degli stessi partiti politici sembrava poter aprire le porte a una stagione di tu- tela e valorizzazione non a servizio degli interessi della rendita. […] Tutto finì col go- verno del “Caf” […]. Chi ha ucciso quella stagione ave- va dalla sua la nuova civiltà economica: dopo Thatcher e Reagan tutto è denaro, il nodo scorsoio del liberismo è andato stringendosi intor- no a ogni diritto sociale e ambientale: il paesaggio e i beni culturali sono le vittime di una pessima cultura, non solo del semplice degra- do della politica. Consola, tuttavia, che Settis ricordi i nuovi movimenti per i beni comuni”.

Invito a considerare una particolarità del titolo sfuggita a tutti, mi pare. Il termine cementificazione

(probabilmente impiegato per la prima volta da Anto- nio Cederna) è sostituito da

cemento, seccamente e du-

ramente. Come non pensa- re a un rapporto, benché fil- trato attraverso diversi strati mentali, con il libro Cemento

(SE, 1990, orig. 1982) auto- re Thomas Bernhard, il più grande scrittore austriaco del trentennio 1960-1990? Un’opposizione irrefutabile al potere; un attacco alla corruzione che infesta l’aria; “un capestro infinito da se- coli è stretto al collo di que- sto popolo cieco, nel quale la verità viene calpestata e la menzogna santificata”. La cementificazione è un mec- canismo di continuità, è un procedere verso un obietti- vo di totalità non ancora rag- giunta. Cementificare è un piacere, un godimento; una violazione, nel caso di pa- esaggi, per gratificare, con l’esperienza, sé come Mo- loch. Il quale infine provve- de al Saoc (Sviluppo a ogni costo) riguardo al territorio, vale a dire facendogliene di tutti i colori, travolgendone i paesaggi, odiati e vilipesi se nudi d’abiti cementizi come la storia materna li ha la- sciati. A ogni costo, appun- to colate su colate fino alla realizzazione finale di una nuova realtà paesistica di morte perenne, territorio in

puro cemento di spessore e durezza inusitati. Così vige il Malpaese, del Bel Paese re-

sta solo il formaggio.

grattacieli: “Come il vestito

della domenica del villano inurbato nella commedia di un tempo, così l’orpello dei grattacieli di cui Milano ha voluto agghindarsi… non mette in scena il successo ma traveste l’insicurezza, occulta la cattiva coscienza di chi si sente “arretrato” e adotta frettolosamente, in- dossandoli come una ma- schera, modelli forestieri e posticci. L’antico centro storico ne viene sopraffatto e svilito”.

Il 2003 è anno di Premio Viareggio. Il vincitore sarà il nostro storico dell’arte e archeologo con Italia S.p.A.

L’assalto al patrimonio cul- turale (pubblicato da Einau-

di l’anno prima). Di fronte ai tentativi berlusconiani di alienare il patrimonio cultu- rale pubblico, di indebolire la tutela dei beni, di priva- tizzare i musei, questo “libro di fuoco […che] riguarda tutti noi” (Cesare Garboli, presidente della giuria) di- mostra che il compito dei beni culturali e paesaggistici risiede nella Costituzione e nell’identità nazionale; la tu- tela del patrimonio artistico, archeologico, architettoni- co, paesaggistico è stata vanto del paese e ogni ten- tativo della politica reaziona-

ria di demolirne l’importanza è: un crimine (dice lo scri- vente).

La Costituzione sarà an- cora riferimento imprescin- dibile nel saggio di Settis diventato da subito testo sacro per coloro che non rinunciano a contrastare le aggressioni in ogni dove e di ogni tipo al paesaggio, da intendersi lato sensu, come nelle parole di Ceder- na introduttive del presente articolo. Paesaggio Costitu-

zione cemento, pubblicato

da Einaudi nel 2012 non è certo un libro superato, anzi è da rileggere adesso giac- ché sono passati sei anni invano, se mai si coltivas- sero valide speranze in un cambiamento delle politiche nazionali regionali comunali riguardo al territorio. (E an- cora, la Carta della nazione rappresenterà l’intero og- getto del saggio edito da Einaudi nel 2016, non per caso il titolo consisterà nella locuzione solitaria dotata di punto esclamativo, Costitu-

zione! Lo metto da canto e

proseguo).

Esistono, in quell’anno 2012, numerose recensioni d’autore, in gran parte con- divisibili. Gian Antonio Stella per il “Corriere”, Francesco Erbani per “Repubblica”…

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gli attrezzi giusti (episteme, dispositivo, norma, biopoli- tica …). Quasi una parodia delle celebri parole iniziali de Les mots e les choses. Senza dover necessaria- mente condividere l’ingom- brante eredità di Foucault, a quel libro, richiamato nel sottotitolo di Città e demo-

crazia, si può riconoscere il

merito di aver dichiarato la necessità di tornare ad oc- cuparsi delle parole, del loro peso, della loro forza, del variare dell’uno e dell’altra, del modo in cui ciascuna di esse si relaziona ai proces- si, agli spazi, agli attori che ne sono protagonisti o che li subiscono o ne sono ai mar- gini. E il richiamo di Olmo, è anzitutto un ribadire questa necessità.

Sono d’accordo ed estremizzo: tra gli anni Ot- tanta del secolo scorso e il primo decennio di questo, anche il linguaggio delle nostre discipline è stato distrutto. O perlomeno, si è fortemente incrinato. Si sono incrinati i legami tra le parole i propri ogget- ti, gli spazi e i processi. In quella faglia temporale, il Novecento è davvero finito. Esplorare i territori in crisi dell’Europa urbana ha per- messo di vedere la non uni-

vocità di nozioni che siamo soliti considerare strumenti facilmente maneggiabili: eredità, patrimonio, suolo produttivo, conflitto, con- divisione, spazio pubblico, spazio del welfare. Concet- ti che, in modo pragmatico e tentativo, si ridefiniscono implicitamente e “per pezzi” dentro situazioni concrete.

Eredità, patrimonio, suolo produttivo, conflitto, condivisione, spazio pubbli- co, spazio del wel-fare, han- no mutato significato rispet- to al modo in cui venivano utilizzati solo una ventina di anni fa. Tanto più, seguen- do Olmo, ciò è accaduto alle parole città e democra-

zia che hanno assunto, nel

tempo, significati diversi. In- dissolubilmente legate nella tradizione culturale occiden- tale, sono arrivate a diverge- re. La parola “democrazia”

ha conosciuto una crisi le- gata alla perdita di rapporto con lo spazio e con il limite (concetti che erano a fonda- mento nel definire ciò che si intende per rappresentanza e cittadinanza). La parola “città” ha mutato i significa- ti di luoghi topici della de- mocrazia, come la piazza, i luoghi dell’industria, svuotati e diventati un problema e insieme un’occasione per

altre fondamentali “parole” che segnano quel rapporto: ricostruzione, rigenerazione, vuoto e lutto.

Da qui si può partire per affrontare il libro di Olmo. Ripensare a come parole in uso nelle nostre pratiche conoscitive e progettuali ab- biano perso il loro potere di connettere fatti e processi. Abbiano perso peso, inne- stando fenomeni complessi (o essendone l’implicazio- ne). Le parole che insegue Olmo sono numerose, a se- gnare traiettorie intrecciate: morfologia, accompagna- mento, qualità urbana, pa- trimonio, memoria, identità. Provo a seguirne un’altra che è su un piano differente, ma, mi sembra, altrettanto rilevante nel suo discutere: la parola pedagogia.

Alcuni luoghi della città sono pensati e progettati nell’idea di costruire una pe- dagogia del vivere insieme, scrive Carlo Olmo. La piaz- za, innanzitutto: luogo ma- teriale di conservazione di memorie collettive, oltre che scena pubblica. All’ambigui- tà e alla plurivocità di senso della piazza è dedicato uno dei capitoli più appassio- nanti del testo. La piazza è uno dei luoghi in cui la pe- dagogia prende corpo con