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IN ITALIA C’È UNA QUESTIONE

URBANISTICA?

Pubblicato sul sito web della Casa della Cultura il 15 giugno 2018.

Dello stesso autore, v. anche: Un pensiero ar-

gomentante, dialogico, sincretico, operante (2

giugno 2016); Museo e paesaggio: un’alleanza

da rinsaldare (13 gennaio 2017); Coscienza dei contesti come prospettiva civile (9 febbraio 2018); Le ipocrisie della modernità (23 novembre 2018).

Sul libro oggetto di questo commento, v. inoltre: Francesco Indovina, Non tutte le colpe sono

dell’urbanistica (14 settembre 2018); Domenico

Patassini, Urbanistica: una pratica più che una

261 260 CITT À BENE COMUNE 2018 viaBorgog a3 | supplemento correttamente interpretata, non si traduce affatto in una

diminutio dell’urbanistica,

ma nella specificazione di ruoli e responsabilità tanto dell’urbanistica quanto della politica.

L’urbanistica, già nel- la sistematizzazione che, in Italia, ne ha fatto Cesare Chiodi a metà degli anni trenta del secolo scorso, ha invece scelto di assumere lo statuto dimesso di “Urbani- stica tecnica” così da pre- sentarsi come un insieme di saperi e di tecniche che, nella pretesa di oggettività scientifica, mirava a ritagliar- si un campo d’azione auto- nomo. In realtà si trattava, e si tratta, di una mistificazio- ne: un confondere le acque volto a mascherare la sud- ditanza al potere. E, se oggi non si tratta di avallare la cit- tà corporativa del fascismo, l’impotenza, quanto non la corrività, dell’urbanistica dominante verso i processi di degrado sociale e civile connessi alle trasformazioni territoriali è non meno evi- dente.

“La questione, oggi, - scrive Scandurra - è che in una condizione di miseria della politi- ca, si tende a sostituire

quest’ultima con deci- sioni tecniche per valu- tare i progetti, tecniche per organizzare la par- tecipazione, tecniche per affrontare questioni economiche, tecniche per aumentare l’efficien- za dei servizi, tecniche di ascolto, tecniche di comunicazione, tecni- che per catturare l’at- tenzione degli abitanti, e così via, contribuendo alla deresponsabilizza- zione dei cittadini e del- le persone e rendendoli sempre più passivi e incapaci di organizzare collettivamente il proprio disagio” (p. 62).

L’urbanistica è svilita da un armamentario farraginoso di regole e tecniche pensate per legalizzare un processo di trasformazione dell’am- biente fisico non governato e della cui portata sociale e politica chi ha la respon- sabilità della cosa pubblica sostanzialmente si disinte- ressa. Scandurra ben sinte- tizza la situazione:

“L’urbanistica è diventa- ta una disciplina triste, fatta di norme tecniche comprensibili solo agli addetti ai lavori e del tut-

to subalterne al dominio neoliberista” (p. 29).

Allo stesso tempo

“le amministrazioni co- munali […] si trasfor- mano in vere e proprie agenzie allontanandosi sempre più dalle comu- nità di cittadini, mentre il consumo diventa l’u- nico rito collettivo che dà forma al vivere as- sociato” (p. 37).

Il cronico deficit di bilancio della Pubblica Amministra- zione è la condizione ideale per favorire “la trasmutazio- ne dell’ente locale in liqui- datore dei beni patrimoniali e dell’urbanista in ragio- niere” (Agostini, p. 158). Su questo, come più volte rimarcato da Roberto Ca- magni, pesa anche il ritardo dell’Italia rispetto ai paesi del Centro-Nord Europa, nel sanare lo squilibrio, pe- raltro facilmente rilevabile, tra chi gode i frutti (la spe- culazione immobiliare) e chi investe risorse per la coltiva- zione dell’albero (la colletti- vità). Da qui l’orientamento politico che nella Penisola vede allineate le ammini- strazioni locali di destra e di sinistra: l’essere sem- “città diffusa”; una realtà,

questa, estesissima che ben poco ha di urbano e che, nonostante ciò, ha po- tuto essere scambiata, dai suddetti laudatores urbis

disiectae, come l’espres-

sione stessa della libertà e della democrazia (come non concordare con Scandurra, p. 42).

Mi sia consentito un ulte- riore allargamento dell’oriz- zonte. Nel 1963, all’inizio di quella che, a ragione, sem- pre Scandurra indica come la stagione felice dell’urba- nistica riformista in Italia, nell’affrontare il tema della nascita dell’urbanistica mo- derna, Leonardo Benevolo scriveva:

“Il dibattito culturale de- gli ultimi trent’anni ha insegnato a riconosce- re il virtuale contenuto politico delle scelte ur- banistiche, ma questo riconoscimento resta solo teorico finché vige il concetto dell’urbanistica come campo separato d’interessi, da mediare poi con quelli politici, che è appunto l’eredità persistente del distacco fra i due termini operato nel 1848” (6).

A parte la tesi - quanto mai discutibile - secondo cui la perdita della “connessione fra istanze politiche e ur- banistiche” sarebbe impu- tabile a Marx ed Engels e al “socialismo marxista” (7) radicalmente critico vero il “socialismo riformista e uto- pistico” (8), Benevolo coglie nel segno laddove asserisce che “la cultura urbanistica, isolata dal dibattito poli- tico, si configura sempre più come pura tecnica al servizio del potere costitu- ito […]”. E, se il riferimento è alla fase seguita al 1848, quando in Francia, Inghilter- ra e Germania prese piede una “nuova ideologia con- servatrice”, l’affermazione contiene una verità sostan- ziale che va ben oltre quel- la congiuntura storica non smettendo di essere attua- le. Quanto mai rispondente al vero è la susseguente asserzione di Benevolo per cui “l’urbanistica è parte della politica” (9). Non lonta- na dalla formula “urbanisti- ca come funzione politica” avanzata nel 1944-45 da Adriano Olivetti (10), quell’af- fermazione non è per nulla una forzatura ideologica: è la semplice constatazione di un dato di fatto incontro- vertibile: una verità che, se

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loro lasciti vengono rapi- damente abbandonati e, in un certo senso, defor- mati e rinnegati”.

Qui si solleva un nodo sto- riografico che in realtà va a toccare una delle radici dei problemi che travagliano l’urbanistica. Intanto non è un caso che sulle origini dell’urbanistica moderna, si diano ricostruzioni le più di- sparate da parte degli stessi storici. Pesa in questo, io credo, una scarsa chiarez- za sui termini assunti dalla questione urbana nell’età contemporanea, ma an- che, in più di un caso, la restrizione dell’indagine al terreno disciplinare. È mia convinzione che le interpre- tazioni più significative sui caratteri urbani e sulla loro evoluzione siano venuti più dalla letteratura e dalla sag- gistica in ambiti diversi da quelli urbanistici (e non solo a opera della triade indicata da Scandurra) (11). Non c’è qui lo spazio per tracciarne un quadro. Mi limito a indi- care un esempio. Per capire quanto accade nelle trasfor- mazioni che hanno investito aree semicentrali di Milano negli ultimi anni (piazza Gae Aulenti, CityLife etc) può essere d’aiuto quanto nel

1947 Jean Starobinski scri- veva a proposito degli spazi in Kafka:

“I muri tendono sempre a rinchiudersi, per cui ci si trova a volte respinti nella condizione d’esi- liati, a volte prigionieri nella condizione di chi è murato. Sia nell’una che nell’altra delle situazioni il personaggio soffre sem- pre il tormento di non trovarsi dove dovrebbe, di non essere al suo vero posto: anche all’in- terno si è esclusi, anche all’esterno rinchiusi. […] Quasi tutti gli interni di Kafka sono dei luoghi

pubblici, cioè dei luoghi

che non appartengono ad alcuno e dove non si possono mai sperare né l’intimità né la sicurezza. […] Non si è mai “chez soi”. […] Lo spazio dun- que è sempre chiuso, e nello stesso tempo è pericolosamente aperto. Chiuso per noi, aperto ai nostri nemici” (12).

Certo: l’urbanistica non è solo analisi; e il suo essere necessariamente impegna- ta sul progetto segna una distanza non trascurabile dalla gran parte delle disci-

pline sorelle. Ma, se l’analisi manca la presa sul reale, è impensabile che il proget- to (che su di essa si fonda) possa aspirare a una fun- zione sociale. Per questo il corpus disciplinare dell’ur- banistica è potenzialmente fatto di tutti gli apporti che portano luce sui caratteri e le condizioni dell’habitat e della società e sulle loro mu- tazioni nel presente (senza mai dimenticare la prospet- tiva storica di lungo perio- do). Un lavoro sterminato su cui non basta una vita? Sì; l’importante, per chi vo- glia aspirare ad essere un urbanista, è che lo scavo continui, giorno dopo gior- no. E che diventi un’opera collettiva, né più né meno dell’oggetto dello studio: le città. In questa prospettiva, trovo quanto mai apprezza- bili le pagine che Ilaria Ago- stini dedica a Simone Weil, Annah Arendt e Françoise Choay (pp. 142-145).

Quanto poi al progetto, è imprescindibile un vaglio critico del vastissimo patri- monio disciplinare, così da distinguere ciò che è vivo e ciò che è morto: ciò che è utile per la difesa/rilancio della città e ciò che è con- tro di essa. Anche in questo caso l’orizzonte esplorativo pre e comunque a favore

dell’espansione insediativa e degli stravolgimenti della città compatta (oggi chia- mati “rigenerazione urbana”) pur di tamponare il deficit nei conti. Un miraggio che, da diversi decenni, mentre non ha fatto che rinnovare il dissanguamento del pubbli- co bilancio, si è tradotto in un esteso degradarsi della qualità urbana dell’habitat.

Alle argomentazioni sulla crisi dell’urbanistica portate dai due autori. Aggiungerei anche questa: nella fase mi- gliore di questo dopoguer- ra, quando l’urbanistica ha camminato a fianco di una politica animata da uno spi- rito riformistico, si è assistito al divaricarsi di urbanistica e architettura lasciando a quest’ultima il terreno del disegno urbano.

Il risultato è questa scissio- ne ha lasciato, in particola- re in Italia, un grande vuoto di ricerca e cultura, di cui l’operare indifferente ai con- testi e alla cultura delle città delle archistar rappresenta lo sbocco coerente. Anche questo ha contribuito non poco a far sì che nel Paese che nella sua storia ha rag- giunto esiti mirabili di bel- lezza civile la questione del fare città non sia mai stata al

centro dell’urbanistica ope- rante.

Nello scavare sulle ra- gioni della inadeguatezza dell’urbanistica, Enzo Scan- durra ritiene che un nodo consista nel fatto che essa, “tra tutte le discipline nate con la modernità, [sia] so- stanzialmente “orfana”” (p. 26), quando invece,

“tra le discipline mo- derne a essa vicine, la sociologia, ad esempio, annovera, tra i suoi pa- dri fondativi, personaggi come Comte, Durkeim, Weber, e poi la Scuola di Francoforte, Marcuse, fino ai giorni nostri con Ferrarotti e Bauman. Altrettanto vanta l’antro- pologia con personaggi come Lévi-Strauss e De Martino. In economia, poi, non mancano certo nomi illustri, da Smith a Ricardo, a Marx”.

E aggiunge:

“Kropotkin, Mumford, Geddes sono invece pa-

dri impropri non tanto (e

solo) per la loro origine disciplinare […] quanto piuttosto perché, con l’avvento della Moder- nità, i loro messaggi e i

265 264 CITT À BENE COMUNE 2018 viaBorgog a3 | supplemento Venezia 1986). Vanno inoltre ricordati gli studi di Aldo Rossi sul quartiere di Porta Romana a Milano e di Carlo Aymonino e altri su Padova (A. Rossi,

Contributo al problema dei rapporti tra tipologia edi- lizia e morfologia urbana: esame di un’area studio di Milano con particolare at- tenzione alle tipologie edi- lizie prodotte da interventi privati, Ilses, Milano 1964 e

Aa.Vv., La città di Padova.

Saggio di analisi urbana,

Officina, Roma 1970). Le implicazioni teoriche di questi studi sono enun- ciate in tre pubblicazioni: Aa.Vv., Aspetti e problemi

della tipologia edilizia, Clu-

va, Venezia 1964; Aa.Vv.,

La formazione del concetto di tipologia edilizia, Cluva,

Venezia 1965; Aa. Vv.,

Rapporti tra la morfologia urbana e la tipologia edili- zia, Cluva,Venezia 1966.

5 Tanto Scandurra (p. 59) quanto Agostini (p. 142) usano l’espressione “città pubblica” che negli ultimi anni si è subdolamente infilata nel linguaggio disci- plinare. Su questo il mio dissenso è radicale: l’ag- gettivo “pubblica”, usato nell’intento di rafforzare il sostantivo, in realtà nega la natura stessa della città che proprio sull’intreccio di pubblico e privato fon- da la sua natura. In più quell’espressione, seppure involontariamente, finisce per avvallare proprio il pun- to di vista (ahimè sempre più vincente) di chi ritiene

possa esistere una città privata. 6 L. Benevolo, Le origini dell’urbanistica moderna, Laterza, Roma-Bari 1974 (IV ediz.), p. 9. 7 Ivi, pp. 8-9.

8 Si tratta delle idee e delle realizzazioni messe in campo in particolare da una mezza dozzina di pionieri-filantropi: Ro- bert Owen (1771-1858), Claude-Henry de Rouvroy de Saint-Simon (1760- 1825), Charles Fourier (1772-1837), Jean Baptiste Godin (1817-1889), Filippo Buonarroti (1761-1837) e Étienne Cabet (1788- 1856). Il socialismo di ispi- razione marxista sarebbe responsabile, secondo Benevolo, della caduta di queste “utopie del secolo XIX”, alle quali egli attribui- sce una fecondità aurorale sul terreno dell’urbanistica. Benevolo trascura che per la gran parte si tratta di visioni e di esperienze che riguardano micro-comunità collocate in contesti estra- nei alla città e che sono per lo più contrassegnate da un forte accento paterna- lista. È sintomatico, del re- sto, l’interesse mostrato da un disurbanista come Le Corbusier per esperienze come quelle del Falansterio di Fourier. E non meno sintomatica, a chiudere il cerchio, è l’apertura di cre- dito dello stesso Benevolo verso la devastante urba- nistica di Le Corbusier (Cfr. L. Benevolo, Tommaso Giura Longo, Carlo Melo-

grani, I modelli di progetta-

zione della città moderna. Tre lezioni, Cluva, Venezia

1969). Questo non toglie le responsabilità del sociali- smo di ispirazione marxista nell’avere sostanzialmente disertato il tema della città, e questo nonostan- te proprio da Engels sia venuta una delle prime cir- costanziate denunce delle conseguenze urbanistiche dello sviluppo capitalistico (Friedrich Engels, Die Lage

der arbeitenden Klasse in England, Wigand, Leipzig

1845, trad. it. di Raniero Panzieri, La situazione della

classe operaia in Inghilter- ra, Editori Riuniti, Roma

1955; poi con intr. di Eric J. Hobsbawm, 1969). 9 Ivi, p. 10.

10 A. Olivetti, L’ordine politico

delle Comunità. Dello Stato secondo le leggi dello spi- rito, Edizioni di Comunità,

Roma 19462 (I ediz. Nuove Edizioni Ivrea 1945), p. 172.

11 Che, in questo, va detto si muove sulle orme di Fran- co La Cecla, Contro l’ur-

banistica. La cultura delle città, Einaudi, Torino 2015,

in part. pp. 34-42. 12 Jean Starobinski, Il sogno

architetto (Gli interni di Kafka), in “Domus. La casa

dell’uomo”, n. 218, aprile 1947, p. 28b.

non può che essere il più ampio possibile. Su questo terreno il libro offre un con- tributo prezioso, mostran- do, in particolare nel contri- buto di Ilaria Agostini, quale nutrimento possa venire dalla ricca costellazione di esperienze inscrivibili sotto il segno della “resistenza civile allo speco dell’habitat”.

   

Note

1 Prefazione di Piero Bevilac- qua.

2 E. Scandurra, Da disciplina

del welfare a complice del neoliberismo, ivi., p. 21.

3 Salvo l’uso dell’aggetti- vo “misterioso”: rendere comprensibile quanto c’è di misterioso nel fascino delle città è un compito imprescindibile per chiun- que aspiri a occuparsi di urbanistica.

4 In Italia un ruolo pionieri- stico hanno nell’argomen- tazione avuto le ricerche di Saverio Muratori su Venezia e su Roma (S. Muratori, Studi per una

operante storia urbana di Venezia. I, Istituto Poli-

grafico dello Stato, Roma 1960; Saverio Muratori, Renato Bollati, Sergio Bollati, Guido Marinucci,

Studi per una operante storia urbana di Roma,

Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma 1963). Nel solco tracciato da Muratori si pongono i lavori di Gian- franco Caniggia su Como (G. Caniggia, Lettura di

una città: Como, Centro

Studi di Storia Urbanistica, Roma, 1963; Id., Strutture

dello spazio antropico. Stu- di e note, Alinea, Firenze

1975) e di Paolo Maretto su Venezia (P. Maretto,

Studi per una operante storia urbana di Venezia. II. L’edilizia gotica veneziana,

Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1961; Id.,

La casa veneziana nella storia della città. Dalle ori- gini all’Ottocento, Marsilio,

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turali a prevalere, ma i circu- iti di reti e di flussi. Non più barriere e vincoli geografici, ma connessioni e filiere che legano i sistemi di produzio- ne con quelli di distribuzio- ne e consumo. Inseguire le

supply chain porta a sco-

prire il mondo della globa- lizzazione, la cui descrizio- ne avviene attraverso una molteplicità di mappe che si sovrappongono, si con- traddicono, per poi variare continuamente. E porta alla stessa conclusione di Fari- nelli, ovvero all’impossibilità di fissare sulla superficie di una carta il reticolo mutevo- le di flussi e di infrastrutture che avvolgono la sfera ter- restre.

Le reti che avviluppa- no la Terra sono fisiche e immateriali: le infrastrutture materiali si espandono in- sieme alle reti informatiche al punto che “il mondo sta davvero cominciando ad assomigliare a Internet” (Khanna, p.43). Nel 1989 decolla Internet e accelera i processi di globalizzazio- ne, facendoci entrare in una fase che va oltre l’interna- zionalizzazione, in un mon- do di supply chain. Queste “sono l’ecosistema comple- to di produttori, distributori e venditori che trasformano

materiale grezzo (dalle risor- se naturali alle idee) in beni e servizi erogati alla gente in qualsiasi parte del mon- do” (ibidem, p.53). In realtà è estremamente complesso ricostruire il percorso di un prodotto finito che giunge a destinazione: dall’estrazio- ne delle materie prime, alla produzione di semilavorati e componenti, al suo montag- gio e distribuzione, al suo consumo e trasformazione in rifiuto o risorsa seconda per rientrare nuovamente nel ciclo. Dietro ogni merce c’è una filiera, una supply

chain che sostiene il rappor-

to tra domanda e offerta. Parag Khanna sa bene che questo “sistema di transazione” è per la sua complessità e ramificazione oscuro, perchè “vediamo chi vi lavora e le infrastrut- ture” ma ci sfuggono le lo- giche d’insieme. Vediamo le grandi reti infrastrutturali che realizzano la connetti- vità materiale per il transito delle merci, scopriamo che lungo di esse si addensa- no le aree urbane, i nodi di scambio, le migliaia di piat- taforme produttive e logisti- che (in particolare le ZES, Zone Economiche Speciali). Lungo il percorso delle sup-

ply chain si concentra la ric-

chezza e il potere secondo una tendenza che trascen- de la sovranità degli stati in favore delle città. Su questo punto Parag Khanna non ha dubbi: il XXI secolo sarà dominato dai sistemi urba- ni, dalle “città stato”, dalle loro federazioni, dalle loro alleanze. E non solo per la crescita demografica della popolazione urbana che già nel 2030 giungerà ad esse- re il 70% di quella mondiale - dato che di per sé sotto- linea il ruolo delle agglome- razioni urbane come bacini di consumo e destinazione finale delle supply chain - ma perché nelle grandi città, soprattutto, si concentre- ranno capitali, cervelli, ser- vizi, aziende multinazionali. Altro aspetto significativo, le principali agglomerazioni urbane saranno tutte sulle aree costiere. “Nel XXI seco- lo le città sono la più grande infrastruttura dell’umanità” (ibidem, p. 92). Questa insi- stenza di Khanna sul termi- ne infrastruttura è importan- te. Essa si applica alla città, alle grandi opere, alle reti e alle supply chain. Tutte que- ste infrastrutture sono viste come il “fondamento della mobilità sociale e della resi- lienza economica” (ibidem, p. 41). Forse potrebbero