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SAPERE TECNICO E ETICA

DELLA POLIS

Pubblicato sul sito web della Casa della Cultura il 28 settembre 2018.

Dello stesso autore, v. anche: Urbanistica: tecnica

o politica? (14 febbraio 2016); Lo stato della piani- ficazione urbanistica. Qualche interrogativo per un dibattito (1 aprile 2016); Urbanistica: né etica, né diritto (30 giugno 2016); Più che l’etica, è la tecnica a dominare le città (16 febbraio 2017); Antifragilità (e pianificazione) in discussione (28 luglio 2017); Così non si tutela né il suolo né il paesaggio (1

dicembre 2017); Su “La struttura del paesaggio”:

inutile le polemiche, riflettiamo sui contenuti (12

gennaio 2018).

Sul libro oggetto di questo commento, v. inoltre: Giampaolo Nuvolati, Città e paesaggi: traiettorie per

il futuro (8 dicembre 2017); Lodovico Meneghetti, Stare con Settis ricordando Cederna (5 ottobre

2018); Annalisa Calcagno Maniglio, Esistono

gli specialisti del paesaggio? (19 ottobre 2018);

Andrea Villani, Democrazia e ricerca della bellezza (29 novembre 2018).

Sul contributo di Salvatore Settis ai temi della città, del territorio e del paesaggio, v. anche la sintesi video della conferenza tenuta alla Casa della Cultura il 12 dicembre 2017 e il testo integrale, a cura di Oriana Codispoti, con la presentazione di Salvatore Veca (Ed. Casa della Cultura, 2018).

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comune”. Qui il bene è “co- mune” - a differenza del no- stro tempo - perché non è una scelta, né un prodotto, esso s’impone con neces- sità assoluta su ogni agire umano. L’agire che violi la sua legge immutabile è un volere l’impossibile. È que- sto l’autentico senso della violenza: volere l’impossibi- le. Una violenza che non può riuscire nell’intento e che dunque si ritorce contro chi tenti di esercitarla. In quanto immutabile non è producibi- le, né distruttibile, si impone alla volontà di ciascuno e di conseguenza limita l’agire e il produrre. Limita l’uso di ogni specifica tecnica su- bordinando il fine di ciascu- na al proprio stare necessa- rio. L’eudaimonia è, dunque, l’immutabile che salva la totalità della polis (e ogni cit- tadino ubbidiente) dal dolore del divenire annientante (la felicità è l’opposto del dolo- re), conferendogli un senso stabile e una prevedibilità incontrovertibile, in quanto lo “scopo” non è da rag- giungere: è da sempre e per sempre, e sta sempre nella luce dell’intelletto filosofico. Il sapere filosofico della tra- dizione dice di se stesso di essere epistéme (epì = “su” e stéme = “sta”): un sapere

che “sta su”, ossia che resi- ste a qualsiasi scuotimento, che non può essere, dun- que, abbattuto né da uomi- ni né da déi, perché il suo contenuto è l’immutabile. La scienza contemporanea è invece consapevolmente ipotetica, non mira a cono- scere “leggi immutabili della natura”, ma, al contrario, a esplorare e sperimentare la sua mutevolezza, ossia ciò che ne consente la manipo- lazione tecnica, distruttivo- costruttiva.

Adesso possiamo far emergere l’incoerenza della metafisica, che nelle lezioni di Settis resta assolutamen- te nascosta. Il pensiero gre- co conferisce alla mutevo- lezza delle cose del mondo sensibile un senso radicale e inaudito, ossia che non ha precedenti nell’esistenza guidata dal mito (la filosofia, infatti, nasce in opposizione al mito) e che è la “verità” in- discussa su cui si basa l’esi- stenza nel nostro tempo. Un passo del Simposio di Plato- ne e uno dell’Etica di Aristo- tele ne danno una perentoria e decisiva definizione:

 

Simposio 205 b-c: “Ogni causa, che faccia pas- sare una qualsiasi cosa dal niente all’essere, è

produzione, cosicché sono produzioni anche le azioni che vengono compiute in ogni arte e tutti gli artefici sono pro- duttori”;

Etica nicomachea 1140a

0-15, utilizzando l’esem- pio proprio dell’arte di costruire, qui tradotta con “architettura”: “Ciò

che può essere diversa- mente da come è, può essere sia oggetto di produzione, sia oggetto di azione […]. Poiché l’architettura [oikodo- miké téchne] è un’arte

ed è per essenza una di- sposizione ragionata alla produzione, e poiché non c’è nessun’arte che non sia una disposizione ragionata alla produzio- ne, e non c’è nessuna disposizione ragionata alla produzione che non sia un’arte, arte sarà lo stesso che “disposizio- ne ragionata secondo verità alla produzione”. Ogni arte, poi, riguarda il far venire all’essere e il progettare, cioè il consi- derare in che modo può venire all’essere qualche oggetto di quelli che possono essere e non essere”.

mestiere “virtuosamente” solo se si seguono model- li sociali positivi in quanto orientati al bene comune, all’eudaimonia del singolo in quanto incardinato nella po-

lis”. Se ci si ferma qui, come

fa il nostro autore, dove della valenza morale del fare tec- nico non vi è la fondazione, ossia non si mostrano gli argomenti logico-filosofici che la pongono come ne- cessaria, si dà l’impressione che sia sufficiente esortarne il recupero. Non viene cioè in luce il perché e il come l’ori- ginaria fondazione sia venu- ta meno. Eppure, Settis fa notare, correttamente, che

eudaimonia viene tradotta

con “felicità”, ma non ha il senso della “contingenza”, che invece ha l’uso di que- sta parola nel nostro tempo. Va precisato - e penso che Settis in qualche modo lo sappia anche se non lo dice - che non è una questione puramente linguistica, ossia una fluttuazione di sensi pro- pria del divenire delle lingue. L’interrogativo da cui muo- vere, laddove Settis si ferma, è questo: perché la felicità in senso greco non è contin- gente? Perché e come, nel

logos greco e nell’argomen-

tazione di Aristotele, le tecni- che strutturano la polis, ten-

dendo tutte ordinatamente all’eudaimonia? Perché e come, in un lungo processo di coerentizzazione del pen- siero greco, tali argomenti sono collassati secondo fondata necessità (e quindi non sono riproponibili, se non come pura ideologia o mito senza fondamento)? Proviamo a indicare, di più non è possibile nello spazio di questo commento, la di- rezione della risposta, mo- strando ciò che di Aristotele e di Platone Settis non cita.

L’originario “bene su- premo” è il Sommo Bene o Idea del Bene, il vertice della molteplicità delle Idee che compongo la realtà in- tellegibile ed eterna nella dottrina di Platone. Sebbe- ne Aristotele non sia d’ac- cordo col maestro su come tale realtà produca o si dia in quella sensibile, e infatti la discute anche nell’Etica, l’eudaimonia, quale skopos della polis, è la traduzione del Bene intelligibile nella dimensione della realtà sen- sibile. Ed è per questo che non è contingente, come lo sono invece gli specifici fini di ciascuna particolare tec- nica (1). Siamo di fronte alla traduzione totale dell’immu- tabile nell’eudaimonia della

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creare? Friedrich Nietzsche in Così parlò Zaratustra dice: “se vi fossero degli dèi, come potrei sopportare di non essere dio! Dunque non vi sono dèi […]. Via da Dio e dagli dèi mi ha alletta- to questa volontà; che cosa mai resterebbe da creare, se gli dèi - esistessero!” (Ed. Adelphi, 2003, pp. 95-96). Se c’è una dimen- sione eterna della realtà al di sopra di quella sensibile, le cose non vengono dal niente e non ritornano nel niente, ma sono già tutte nella realtà eterna. L’eterno è la negazione di quell’e- videnza che è l’uscire e il ritornare nel niente delle cose: di tutte le cose. Nel linguaggio filosofico viene chiamata “entificazione del niente”. Il pensiero filoso- fico degli ultimi due secoli ha portato a compimento la confutazione del pensie- ro tradizionale. I pensatori che hanno demolito la me- tafisica, insieme a molti altri, ma nel modo più radicale e rigoroso, sono Giacomo Leopardi, Friedrich Nietz- sche, Giovanni Gentile e, in un senso opposto ai prece- denti, che qui non è il caso di esporre per non compli- care le cose, Emanuele Se- verino. Basti, per indicare

al lettore la direzione della confutazione, un passo di Leopardi, il grande poeta, molto letto da Nietzsche, anticipa l’intero corso del pensiero contemporaneo:

 

Pensieri di varia filoso- fia e di bella letteratura

(Zibaldone di pensie- ri, 1341-1342, luglio 1821): “In somma, il

principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacché nessuna cosa è assolutamente ne- cessaria, cioè non v’è ragione assoluta per- ch’ella non possa non essere, o non essere in quel tal modo ec. E tutte le cose sono pos- sibili, cioè non v’è ragio- ne assoluta perché una cosa qualunque, non possa essere, o essere in questo o quel modo ec. E non v’è divario al- cuno assoluto fra tutte le possibilità, né diffe- renza assoluta fra tutte le bontà e perfezioni possibili… Un primo ed universale principio del- le cose, o non esiste, né mai fu, o se esiste o esi- stè, non lo possiamo in niun modo conoscere, non avendo noi né po- tendo avere in menomo

dato per giudicare delle cose avanti le cose, e conoscerle al di là del puro fatto reale. […] La necessità di essere, o di essere in un tal modo, e di essere indipenden- temente da ogni cagio- ne, è perfezione relativa alle nostre opinioni ec. Certo è che distrutte le forme platoniche pree- sistenti alle cose, è di- strutto Iddio”.

 

Platone diceva “i poeti mentono molto”. Leopardi concorda, ma a differenza di Platone che perciò vo- leva cacciarli dalla polis, pone la menzogna poetica come unica salvezza, per- ché distoglie lo sguardo della ragione dalla ni-entità di tutte le cose che rende folli (ossia infelici). Se si tie- ne presente che l’etimo di “poesia” è poiesis, ossia produzione, viene in luce come Leopardi anticipi po- tentemente il dominio cui è destinata la tecnica pro- duttiva sulla base dell’evi- denza dell’uscire e ritornare nel niente di tutte le cose, che costituisce la totalità del reale. Perché “dominio” della tecnica? Perché è la condizione senza la quale nessuno scopo può esser   Viene così stabilito il sen-

so fondamentale del tem- po e del creare o produrre. Quando a esempio si co- struisce una casa, possono pre-esistere molte cose, materiali da costruzione, modelli, canoni architetto- nici, tradizioni costruttive. Ma perché una casa sia una creazione è necessa- rio che almeno qualcosa, forsanche la più modesta, non pre-esista, a esempio quella particolare e assolu- tamente nuova configura- zione dell’insieme di cose pre-esistenti usate per concepirla e costruirla. Lo stesso vale per la distruzio- ne, che è “annientamento”, perché i materiali da co- struzione possono restare come macerie, ma dopo l’abbattimento la configura- zione dello spazio in cui l’e- dificio consiste non esiste più. Lo stesso senso lo tro- viamo nel tempo che dicia- mo “naturale”: in autunno le foglie dell’albero cadono a terra e la chioma finisce nel niente, non esiste più. Poi in primavera - se tutto va bene - una nuova chio- ma passa dal non-essere all’essere.

Che le cose escano dal niente e vi ritornino è, per il greco, un’evidenza: “è evi-

dente per induzione” dice Aristotele nella Fisica, per- ciò è “verità” indiscutibile. Tanto indiscutibile quanto lo è, per la medesima me- tafisica, l’esistenza di una dimensione immutabile della realtà oltre la fisica e che della realtà diveniente è dominio e legge eterna (su cui si fonda l’etica del- la tradizione). Ora, il lettore può già forse chiedersi se mai possano coesistere due “verità”, entrambe po- ste come indiscutibili verità di ragione e di esperienza, e, in tutta evidenza, almeno agli occhi del nostro tem- po, opposte: infinitamente opposte. La metafisica ci è pervenuta soprattutto a opera dei teologi delle tre grandi religioni monoteiste. Le religioni avramidiche la hanno divulgata a livello di massa, contribuendo alla sua diffusione nel mondo, fondendo il grande mito della Bibbia col pensiero razionale greco. Ne hanno visto la forza argomentativa e la hanno posta al servizio della fede. Ogni forma di immutabile della tradizione ha preso il nome onnicom- prensivo di “Dio”. Un dio creatore e signore del cielo e della terra. Ma se c’è un dio creatore, che ci resta da

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affermazioni, qualsiasi esse siano, anche le più appa- rentemente assurde. E sono le argomentazioni che van- no confutate, perché senza confutazione non hanno alcun valore, non posso- no mostrare alcuna validi- tà. Chiunque pensi che, a esempio, gli argomenti di Leopardi, di Nietzsche, di Gentile o di Severino, così come di altri grandi pensa- tori del nostro tempo, siano invalidi, deve conoscerli, studiarli e confutarli, se ci ri- esce. Allo stato del pensiero speculativo la demolizione della metafisica si presenta fondata, perché inconfutata, ossia non ci sono confuta- zioni vincenti - ch’io sappia. Il senso del divenire liberato dagli immutabili, che rimane quello greco, è oggetto di confutazione in fieri (a esem- pio Severino). Si tratterebbe poi di vedere in base a qua- le senso del fondamento del sapere - se ancora quello portato in luce dai greci o altro - tale confutazione dia conto dell’apparire e dello scomparire delle cose. Que- sto è quanto si può dire allo stato del pensiero filosofico - per quel che ne so.

Alla luce di questi chia- rimenti - e se si ritengono tali - la pars construens di

Settis, costituita dal pro- porre un’etica pubblica per l’architetto, è quantomeno debole e abbastanza in- consistente. E ciò tenendo innanzitutto presente che il pensiero contemporaneo ha portato al tramonto, tra molto altro, come rilevante conseguenza pratica, l’idea dello stato assoluto, di cui sono modelli originari la Re- pubblica di Platone e la polis di Aristotele citata da Settis. Il che ha aperto lo spazio alla democrazia moderna, che è procedurale, ossia priva di uno scopo supremo in senso metafisico. Il con- tenuto del “bene comune”, in concreto, è scopo con- tingente, temporaneamente deciso dalla parte politica che ha ricevuto la maggio- ranza dei voti e che conti- nuerà a detenere il potere fintanto che riesce a vince- re lo scontro pratico con la parte avversa, possedendo e utilizzando una tecnica più potente degli avversari. Tramontata è, inoltre, l’idea di un diritto “naturale” o “di- vino”, a favore di un diritto “positivo”, dal latino posi-

tum, ossia “imposto” da una

parte sociale all’altra parte. Perciò Nietzsche afferma che “il diritto è la volontà di rendere eterno un rapporto

di potenza momentaneo”. Altra conseguenza pratica la si incontra in ogni forma di “libertà”, più o meno realiz- zata o rivendicata, inclusa la “libertà di mercato”, che di nuovo implica il non essere guidato da uno scopo pri- mario. Tutte le forme di liber- tà sono poi in realtà di volta in volta dominate dall’etica che riesce a possedere e usare per il proprio scopo la tecnica più potente. A esempio, il capitalismo, il cui scopo primario è il profitto, riesce attualmente a domi- nare il libero mercato, usan- do al meglio la tecno eco- nomia, ipotetica e statistico probabilistica, rovesciando il danaro da mezzo di scam- bio delle merci in scopo, e ribaltando la merce in mez- zo (3). Non riescono invece a dominare il mercato, né le etiche del liberalesimo, laddove sostengono, con evidenti residui metafisici, che il divenire del mercato sia guidato da una “mano invisibile”, o che abbia un intrinseco ordine “catallatti- co”, ossia che si equilibra da sé; né l’opposta etica della pianificazione urbanistica totalmente identificata ad atti normativi aventi forza di legge, che la rendono non- ipotetica, deterministica e perseguito, che sia il pro-

fitto, la salvezza dell’anima (la preghiera è una forma di tecnica) o della città, della campagna, del paesaggio, dell’ambiente.

Laddove Settis mostra agli studenti l’unione tra il senso della tecnica e il pensiero filosofico si muove nella direzione giusta, anzi necessaria, se si vuol capire la tecnica e il suo ruolo nel nostro tempo. L’errore - mi permetto rispettosamente di rilevare - sta nell’incom- pletezza, ossia il non aver richiamato insieme alla me- tafisica, e all’intera tradizio- ne di pensiero, la filosofia del nostro tempo che l’ha - fondatamente - demolita, liberando l’agire tecnico da ogni limite. Le conseguenze pratiche, concrete, di que- sta liberazione, che ai più suona come un’astrazione lontana dalla realtà quotidia- na, sono sotto gli occhi di tutti, e siamo solo agli inizi. La potenza tecnica non ha ancora guadagnato il senso radicale della sua liberazio- ne, non ha ancora comple- tamente ascoltato la voce della filosofia contempora- nea, rimanendo così tuttora invischiata nella molteplicità delle etiche in crisi e in lotta tra loro nell’uso della tecnica

come mezzo di realizzazione del proprio specifico scopo. Se c’è consapevolezza - e a questo sarebbe buona cosa “educare” gli studenti - che qualsiasi etica non può ave- re fondamento, ma è solo una fede tra altre, e dalla fede non ci si può separare, perché il divenire, l’uscire e il ritornare delle cose, è l’as- solutamente imprevedibile - ed è esso stesso una fede (2) -, allora ci sono più pro- babilità che si riduca il tasso di pericoloso fanatismo e di fondamentalismo nelle scel- te etiche che ciascuno di noi non può non fare nella vita pratica. Lo studente deve avere libertà di scegliere consapevolmente la propria etica e insieme di possedere le capacità tecniche in gra- do di perseguire i più diversi e imprevedibili scopi.

Tutto ciò non implica un’accettazione passiva e dogmatica di quel che il pensiero filosofico contem- poraneo va affermando, os- sia non c’è niente di definiti- vamente pacifico. Anche se spesso è accaduto il contra- rio nella storia del pensiero, la ragione filosofica è essen- zialmente antidogmatica. Se è seria, se è autentica filosofia, deve argomentare e dunque fondare le proprie

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anche Settis - appellarsi, a esempio, l’art. 42 della Co- stituzione che, secondo un diffuso luogo comune, limi- terebbe il diritto di proprie- tà, in quanto ne dichiara la “funzione sociale”.

Un equivoco, una super- ficialità. L’art. 42 non limita, ma nobilita il diritto di pro- prietà proprio declamando- ne, nel secondo comma, la “funzione sociale”. Il senso esatto della limitazione, che comunque è andata deter- minandosi nell’istituto giuri- dico nel corso del tempo, va chiarito se si vogliono evitare fraintendimenti. Basterebbe riflettere solo un po’ e tener presente che il senso della “funzione” dipende dal tipo di società. E se la società garantisce il libero mercato e l’agire capitalistico? Vedia- mo di esplicitare tutto ciò. Il comma innanzitutto afferma che “La proprietà privata è riconosciuta dalla legge”. A questo punto, prima di proseguire, è necessario leggere cosa dice la legge, ossia l’articolo 832 del Co- dice Civile (1942), altrimenti non si sa di cosa la Costitu- zione stia parlando, ossia in cosa consista in sé e per sé tale diritto: “il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed

esclusivo”; “pieno” significa che non esiste alcun limite per il proprietario in rela- zione alla possibilità di go- dere o disporre della cosa; “esclusivo” significa che il proprietario può esclude- re chiunque dal godimento della stessa; inoltre significa che è impossibile che a uno stesso bene facciano capo diversi diritti di proprietà. Questa è la forma del diritto di proprietà moderno, che gli storici del diritto defini- scono “semplice e astratto” di contro a quello medioeva- le che è definito “complesso e concreto” (5). È “sempli- ce” perché il diritto sul me- desimo bene può averlo un solo soggetto, sia esso per- sona fisica, società o ente pubblico. È astratto, perché non dipende da alcun al- tro diritto, ossia è assoluto, sciolto da ogni relazione, in- condizionato. In sé e per sé è perciò stesso a-sociale. È come se con la rivoluzione della modernità l’assolutez- za del Sovrano fosse stata trasferita al privato cittadi- no proprio nella forma del diritto di proprietà in specie quella dei suoli. Ed è pro- prio l’originaria assolutezza del diritto di proprietà pri- vato e la sua conseguente improduttività, che il nostro

tempo va erodendo. Nel no- stro tempo s’è visto non v’è spazio alcuno per gli assolu- ti. Ma a eroderlo in concre- to, per il momento, è quella produttività dominata dal capitalismo e dall’uso capi- talistico del libero mercato (6). Ciò che non muta tut-