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RAPPRESENTARE PER CONOSCERE

E GOVERNARE

Pubblicato sul sito web della Casa della Cultura il 2 febbraio 2018.

Dello stesso autore, v. anche: De Carlo a Catania:

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Scrittura della Storia spiega

con grande chiarezza que- sto processo e per farlo ri- corre proprio a un riferimen- to cartografico: una tavola disegnata da Jan Van der Straet per il libro Americae

decima pars, pubblicato nel

1619 da Jean-Théodore de Bry, grande diffusore di im- magini dell’America. In essa compaiono l’esploratore, Amerigo Vespucci e la terra esplorata, l’America. Ripor- to quanto scrive (scusan- domi per la lunghezza della citazione) perché De Certe- au parla di storia, ma il suo discorso vale, con molta chiarezza, anche per la co- struzione dello sconosciuto “corpo dell’altro” attraverso carte e mappe.

“Amerigo Vespuc- ci lo Scopritore - scrive De Certeau - arriva dal mare, in piedi, vestito, corazzato, crociato por- ta le armi europee del senso e ha dietro di sé i vascelli che riporteran- no verso l’Occidente i tesori di un paradiso. Di fronte, l’indiana Ameri-

ca: donna stesa, nuda,

presenza innominata della differenza, corpo che si risveglia in uno spazio di vegetazioni e di animali esotici. Scena

inaugurale. Dopo un at- timo di stupore su que- sta soglia segnata da un colonnato d’alberi, il conquistatore si appre- sta a scrivere il corpo dell’altro e a tracciare la propria storia. Ne farà il corpo istoriato - il bla- sone - dei suoi lavori e dei suoi fantasmi. Sarà l’America “latina”. Que- sta immagine erotica e guerriera ha valore qua- si mitico. Rappresenta l’inizio di un nuovo fun- zionamento occidentale della scrittura. Certo, la messa in scena di Jan Van der Straet raffigu- ra la sorpresa davanti a questa terra di cui Ve- spucci fu il primo a ca- pire distintamente che era una “nuova terra” ancora inesistente sulle carte, corpo sconosciu- to ben presto vestito dal nome del suo inventore (Amerigo). Ma quella che viene così avviata, è una colonizzazione del corpo da parte del di- scorso del potere. È la scrittura conquistatrice: userà il Nuovo Mondo come una pagina bian- ca (selvaggia) dove scri- vere il volere occidenta- le; trasforma lo spazio

dell’altro in un campo di espansione per un sistema di produzione; a partire da una frattura tra un soggetto ed un oggetto dell’operazio- ne, tra un voler scrivere e un corpo scritto (o da scrivere), fabbrica storia occidentale. La scrittura

della storia è lo studio

della scrittura come pra- tica storica”.

(De Certeau, Michel, 2005, La scrittura dell’altro)

De Certeau ci fa capire come mappare sia davve- ro molto di più di un mero esercizio di topografia.

 

La mappa come sostituto della realtà

Mappare un territorio è an- che descrivere, da parte di un estraneo, apparenze, organizzazione e funziona- mento di un luogo in termi- ni convenzionali e in forma bidimensionale; questa de- scrizione non corrisponde al modo in cui lo sperimenta e lo interpreta chi ci vive. Non per nulla Franco Farinelli ri- chiama a questo proposito un’acuta osservazione di Denis Cosgrove: il fatto che “Il topografo è un outsider in quanto arriva dall’esterno e cerca di ridurre a quel che

Maps of Delhi suscitan-

do questi interrogativi si tra- sforma anche in una specie di matrioska di suggestioni, di nuovi interrogativi e linee di ricerca: affrontando un tema, ne fa saltar fuori un altro, che a sua volta ne su- scita un terzo, che stimola la riflessione su un quarto e così via… Il lettore si ritrova così a essere debitore ver- so Pilar Guerrieri non solo per avergli fatto compren- dere meglio il processo di sviluppo di una megalopoli del nostro tempo, ma anche per le inattese occasioni per immaginare connessioni, abbozzare ragionamenti, di- vagare intellettualmente sul nostro rapporto con la realtà che ci circonda e sui modi in cui esso si realizza. Per que- sto motivo è un libro ancor più complesso e importante di quanto può inizialmente sembrare. Non avevo for- se anticipato che recensire

Maps of Delhi senza poter-

lo mostrare è un’impresa disperata, ma da tentare? Ecco alcuni esempi di dove, cominciando a leggerlo, si può andare a finire.

 

Mappare ciò che non si co- nosce. Il “corpo dell’altro”

Il primo elemento su cui ri- flettere è il significato del

“fare mappe”. Nel nostro caso, che significato abbia avuto per i grandi poteri commerciali, e poi colonia- li, dell’Occidente, fare, nella loro conquista del mondo, carte geografiche e map- pe di particolari porzioni dell’America, dell’India, dell’Africa. “Fare mappe” è stata un’esigenza dei pote- ri coloniali e delle forme di sviluppo economico da essi generate di dar ordine, strut- tura e legittimazione a cono- scenze e comportamenti. Nella stessa epoca in cui la cartografia occidentale si sviluppa in modo più siste- matico e organizzato, nasce e si afferma anche la storio- grafia moderna. Si inizia a scrivere la storia partendo da punti di partenza fissi, costituiti da avvenimenti e luoghi, e descrivendo quello che da allora è successo. In sostanza nello scorrere con- tinuo del tempo si scelgono momenti convenzionali e su di essi si costruisce un siste- ma logico di cause ed effetti. All’indistinto che c’era prima si sostituisce una narrazione precisa, consequenziale; dal pressappoco si passa alla precisione; dallo spazio vissuto alla mappa che lo ordina e lo rende intellegibi- le. Michel de Certeau ne La

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cultura locale, in modo che singoli individui e istituzioni di questa possano meglio adeguarsi ad essa e utiliz- zarla. L’operazione ovvia- mente non può che avvenire per gradi, attraverso l’intro- duzione di successivi livelli di precisione e dettaglio, via via che da un lato la so- cietà locale impara a capire e ad interpretare le nuove regole dell’ assetto spazia- le e dall’altro le tecniche di rilevamento topografico si affinano. Quanto si osserva per le mappe vale anche per le immagini di città, che si elaborano e si presenta- no come se fossero la vera città. Basta pensare ai pro- getti delle 100 Smart Cities concepite da Narendra Modi per il futuro dell’India, o a quelli delle grandi metropoli africane - come Luanda, La- gos, Dakar, Kinshasa - fatti dei grandi studi di proget- tazione internazionali, per rendersi conto dello scarto che esiste tra l’immagine che diventa realtà e la realtà stessa. In questo le nostre città non sono da meno; si pensi ad esempio all’imma- ginario di Milano per l’ Expo e il post-Expo, e al fantastico mondo in cui si dovrebbero trasformare gli scali ferroviari dismessi.

Riuscire a farsi capire

L’esperienza indiana ci per- mette di aprire una finestra anche su un’altra importan- te pagina del rapporto tra l’Occidente e l’India (e non solo). Così come la carto- grafia è indispensabile per fissare le regole di sviluppo della città, la lingua inglese è strumento fondamenta- le per governare ed essere obbediti. Ma anch’esso è uno strumento astratto che deve essere adattato per ve- nire compreso ed utilizzato. Questo porterà alla sua tra- sformazione in lingua franca: alla nascita degli Englishes (Rosati, Francesca, 2008,

World Englishes: aspetti les- sicali e geopolitici; Seidlho-

fer, Barbara, 2011, Under-

standing English as a Lingua Franca). Si tratta del modo

di riuscire a comunicare ele- menti culturali, esperienze, modi di comportarsi. Ancora una volta un problema asso- lutamente contemporaneo di utilizzazione di forme di espressione e strumenti di comunicazione propri di una cultura che vengono impo- sti, o comunque trasmessi, a un’altra e devono essere nella misura del possibile compresi. A più riprese dalla fine del Settecento e duran- te tutto l’Ottocento la mac-

china del governo inglese si impegna a introdurre l’uso della lingua inglese come strumento fondamentale per ottenere nella vita economi- ca, nella gestione ammini- strativa e nelle relazioni so- ciali una diffusa applicazione delle pratiche e delle norme proprie del progetto colonia- le. L’inglese deve diventare il mezzo di comunicazione tra Impero e sudditi e lo stru- mento per riuscire a far adat- tare questi ultimi a concetti e comportamenti propri del si- stema dominante. Ma diven- ta anche il sistema di comu- nicazione trasversale tra le diverse culture indiane con le loro diversissime lingue. Il problema non è ovviamente di facile soluzione e richiede un progressivo adattare la lingua straniera originaria, con la sua struttura logica profondamente diversa, alla cultura delle popolazioni di altri luoghi. Si avvia così un processo di aggiustamento (anche di traduzione rispetto alle strutture logiche e lin- guistiche locali) dell’inglese. Quanto avviene in India si riproduce poi in tutto il Sud- est asiatico, in Cina, in Africa e nel Medio Oriente, dando origine e nuovi adattamenti

Le mappe hanno un ruo- lo di definizione della realtà e già conosce ciò che vede

per la prima volta. Per l’in-

sider invece, il paesaggio

non esiste, perché chi abita un luogo e non conosce al- tro non può avere coscien- za di alcuna diversità; per esso non esistono neanche i nomi delle cose”. (Farinel- li, Franco, 2003, Geografia). Pensando all’ambiente na- turale in cui sorge Delhi, alle sue complesse stratificazioni successive, alle aggregazio- ni di elementi con caratteri- stiche molto diverse, che se- guono regole proprie, difficili comunque da cogliere; all’ uso informale di certi spazi, o alle regole assai comples- se che regolano l’utilizza- zione di altri (e che molto difficilmente sono comprese da chi è estraneo) emergo- no due cose. L’appropria- zione dello spazio dell’altro, concepito e vissuto in modo molto diverso, ma di fatto corpo nudo, su cui apporre i propri segni; la profonda, sostanziale differenza tra chi fissa norme astratte per la lettura di un territorio e chi ci sta dentro, ci vive, lo usa per quello che è, secondo i criteri che in quel momento gli sembrano più appropria- ti. Così di fatto la mappa del territorio costruito diventa qualcosa che ha una propria

autonomia, che rappresen- ta in primo luogo se stessa. “Ma questo - osserva anco- ra Farinelli - accade perché i modelli euclidei non sono serviti soltanto a descrivere il mondo ma letteralmente a costruirlo, a configurarlo, sono perciò diventati essi stessi concreta realtà. A ben considerarlo, tutta la carto- grafia non serve ad altro che a questo, a trasformare l’in- visibile nel visibile, il software nell’hardware, ciò che si può disegnare in ciò che si può toccare, anche se di norma si crede proprio il contrario.” (Farinelli, Franco, 2003, Ge-

ografia)

Per il resto del mondo - e soprattutto per quello occi- dentale con i suoi interessi economici e politici più diretti - le mappe di Delhi realizza- te dai topografi dell’esercito di Sua Maestà diventano quindi Delhi stessa; che da allora in poi sarà difficile im- maginare diversamente. E lo stesso avviene per tutte le città del mondo. Delhi, in forma di mappa, è inevita- bilmente espressa secondo criteri convenzionali di lettura e interpretazione britannici (è costruita su quello che il car- tografo già conosce a casa propria) che devono però essere adattati alla diversa

107 106 CITT À BENE COMUNE 2018 viaBorgog a3 | supplemento Come rappresentare la complessità della città contemporanea?

Negli ultimi decenni del se- colo scorso si è posto in mi- sura crescente il problema di elaborare e adottare mappe più efficaci a rappresentare la complessa realtà della vita urbana, non riducibile solo a una visione bidimensionale, e più adatte ad appoggiare politiche sociali, economi- che, fisiche più complesse. Questa necessità è aumen- tata notevolmente negli ultimi due decenni in conseguenza dell’accelerazione dello svi- luppo tecnologico dei sistemi di comunicazione. Oggi la lettura dei territori e delle cit- tà avviene prevalentemente attraverso categorie di carat- tere economico, connesse a processi di natura globale o comunque di grande scala, di efficienza in termini di infra- strutture e sistemi tecnologici, di standard ambientali. L’otti- ca dal generale al particolare fa porre l’accento sugli ele- menti strutturali dei sistemi ur- bani, i capisaldi dello sviluppo e le prestazioni da definire con precisione, lasciando spazio alle questioni di scala inferiore e di dettaglio. Per funzionare, la “città planetaria” di Brenner (Brenner, 2014) non necessita di mappature dettagliate. Ma

questa non è la sola chiave interpretativa della città con- temporanea. Essa può essere letta invece come somma di azioni locali, di situazioni do- vute alla presenza di più ele- menti, non necessariamente coerenti tra loro: abitanti con caratteristiche sociali, eco- nomiche, culturali diverse; varietà di usi anche conflit- tuali; elementi tradizionali e nuovi sviluppi, infrastrutture di ogni tipo; spazi pubblici e privati, aree verdi, paesaggi incontaminati e territori inqui- nati. La spinta di crescita, di trasformazione che nasce dal basso e da questa miscela richiede strumenti di descri- zione della situazione pro- fondamente diversi da quelli precedenti. Il territorio non è più espresso solo attraverso mappe dell’esistente, ma an- che attraverso mappe di ciò che si vorrebbe ci fosse e di immagini che validano questo futuro, lo rendono evidente e lo fanno apparire inevitabile. Le interpretazioni sono diver- se e così gli strumenti che le rappresentano. Ash Amin e Nigel Thrift, nel loro recente e provocatorio Seing Like a

City (2017, Cambridge): so-

stengono che la città debba essere compresa e gestita per la sua “citiness”, la sua natura specifica, fatta appun-

to di tutti gli elementi che si sono indicati. Ma la “citiness” di che mappe ha bisogno? E le mappe usate in Giappone per garantire il successo della complessa serie di azioni dal basso, partecipate da tutti i gruppi sociali, del Machizu-

kuri, la “costruzione collettiva

della città”, non hanno forse proprie specifiche caratteristi- che, legate alle diverse situa- zioni, al diverso tipo di azioni da realizzare, alla capacità di comprensione degli attori coinvolti? E altrettanto non avviene per quelle usate con successo a Medellin con la popolazione delle “villas” dal “Proyecto Urbano Integral” (PUI)? Una strategia integrale di soluzioni per la mobilità, le governance e la formazione connesse al recupero degli spazi pubblici e delle aree ver- di, con l’obiettivo di recupera- re i settori più poveri della città dominati fino a poco tempo prima da gruppi armati.

L’indefinito “corpo dell’al- tro” resta ancora una volta poco o nulla conosciuto, che è necessario descrivere, ma in termini più complicati e ricchi che in passato. La matrioska che ci ha offerto Pilar Guer- rieri è piena di altre sorprese: le mappe di Delhi servono di stimolo a esplorare sempre nuovi territori.

di affermazione di valori di- versi da quelli tradizionali lo- cali non dissimili a quello del- la lingua. E come avviene per la lingua esse devono tener conto delle diverse caratteri- stiche locali, non solo rispet- to all’uso per cui vengono re- alizzate, ma anche a secon- da della capacità di leggerle e comprenderle da parte di chi le usa (e questo ovvia- mente continua a valere per tutti coloro che non hanno pratica di cartografia). Di fat- to questo implica la costru- zione, attraverso l’interpreta- zione che ne dà un soggetto esterno, dell’habitat di una città, un territorio, un intero paese e contemporanea- mente la produzione di qual- cosa di nuovo, che è con- taminazione e adattamento tra culture. Questo apre nuove occasioni di riflessio- ne sull’architettura contem- poranea e sulle variazioni di linguaggio che assume nelle diverse regioni del mondo: un’occasione che sarebbe da non perdere in qualche corso universitario. La con- venzionalità della mappa, la sua autolegittimazione, il valore che ha in sé e per sé appare sempre più evidente oggi quando da un lato ci si sforza di prendere in consi- derazione e trascrivere tutto

quello che avviene sul territo- rio e dall’altro però non si è in grado di produrre descrizioni capaci di tenere conto di tutti i processi di trasformazione che possono avvenire. Le mappe ottocentesche e del- la prima metà del Novecento non ritenevano necessario mappare gli insediamenti in- formali e marginali esistenti: sono nitide e ben organiz- zate in termini di confini, assi principali, punti di riferimento importanti; rappresentano gli elementi che la cultura euro- pea del tempo riteneva fon- damentali per descrivere un territorio. Le mappe di oggi non sono in grado di descri- vere l’esistenza di fenomeni in continuo mutamento, con caratteristiche spesso pro- fondamente contraddittorie. Questa situazione in parte è risolta dalle riprese aeree, ma anche così non si riesce a dare una adeguata solu- zione al problema della rap- presentatività; ne sono pro- va le Google Maps, che pur consentendo la possibilità di aumentare, ingrandendo la scala, gli elementi di dettaglio utili alla comprensione, sono spesso integrate da immagi- ni proprie della conoscenza diretta, le street views che danno informazioni visive del vissuto.

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e collettiva (riproduzione del- le risorse, cura dell’habitat, sicurezza ecc.); dall’altro, la conquista progressiva della totale libertà di azione da par- te dell’iniziativa economica capitalistica che, nella sacro- santa liberazione degli indivi- dui da costrizioni e condizio- namenti, ha trovato una ma- schera e un lasciapassare. A un certo punto, legami e valo- ri che hanno da sempre pla- smato l’habitat e sostanziato il processo di civilizzazione sono potuti apparire come antiquati e come ostacoli da rimuovere; da cui la libertà di disfare i contesti: il via libera alla manomissione di città e paesaggi. In tutto questo le conquiste tecnologiche nei trasporti e nelle telecomuni- cazioni (tutt’ora in potenzia- mento) hanno fatto da lievito privilegiando i rapporti a di- stanza a scapito dei rapporti di prossimità. I luoghi hanno perso gran parte del principio che li costituiva: il loro essere entità complesse che aveva- no nell’abitare la matrice.

Per gli abitanti delle me- tropoli si è venuto definendo un destino da sradicati, men- tre la corsa alla libertà indiscri- minata ha finito per incontrare il suo limite nell’insostenibilità degli esiti (disastri ecologici, lacerazioni nel tessuto socia-

le, crisi delle città e della qua- lità urbana dei luoghi, insicu- rezza, dilagare della bruttezza ecc.).

Eppure vi è chi si esalta di fronte a tutto questo e lo celebra. Il “Fuck the context” di Rem Koolhaas, per fare un esempio, non è solo uno slo- gan (acclamato da critici che hanno perso la bussola): è, a suo modo, un’interpretazione dello spirito del tempo in cui ci è dato di vivere. Sta piantato come una bandiera sui risul- tati conseguiti dalla moder- nità nei suoi sviluppi maturi: un cumulo dove le conquiste sono mescolate alle macerie (costituite non solo dalle pre- esistenze aggredite perché se ne misconoscono qualità e valori, ma anche da un nuovo che, nonostante il luccichio, ha i tratti del rigor mortis).

Giunge così quanto mai opportuno il libro di Andrea Carandini, La forza del con-

testo (Laterza, 2017). Nel

dare conto della rivoluzione che si è compiuta nell’ambito dell’archeologia per l’affer- mazione di una conoscenza contestualizzante, l’autore, che di quella rivoluzione è stato un protagonista, sa indi- care i fili che intercorrono tra i saperi consolidati in discipline e il reale divenire del mondo. Con argomentazioni stringen-

ti, il grande archeologo porta in evidenza come, nel disfarsi dei contesti e dei paesaggi, siano da mettere in conto anche le responsabilità di chi, da produttore o da fruitore di “ricerca”, accetta e avvalora divisioni del sapere che rinun- ciano in partenza a mettere in luce l’humus e i legami da cui hanno trovato alimento e significato le opere: quelle eccelse e le infinite altre non meno importanti nella confi- gurazione dei quadri ambien- tali e nel definirsi dei modi di vivere, individuali e collettivi.

A ragione, Carandini insi- ste sui guasti che, soprattutto in passato, sono stati com-