LUOGHI URBANI
Pubblicato sul sito web della Casa della Cultura il 23 gennaio 2018.
Sul libro oggetto di questo commento, v. anche: Pierluigi Panza, Se etica ed estetica non si incon-
trano più (16 dicembre 2016); Paolo Pileri, Se la bellezza delle città ci interpella (10 febbraio 2017);
Vezio De Lucia, Crisi dell’urbanistica, crisi di civiltà (18 maggio 2017); Andrea Villani, L’ardua speranza
di una magnificenza civile (15 dicembre 2017).
Del libro di Giancarlo Consonni si è discusso alla Casa della Cultura - nell’ambito della V edizione di Città Bene Comune - martedì 23 maggio 2017, alla presenza dell’autore, con Elio Franzini, Gabriele Pasqui, Enzo Scandurra.
91 90 CITT À BENE COMUNE 2018 viaBorgog a3 | supplemento imprenditori si trovano a condividere una vicinanza fisica che diventa spesso condivisione di esperienze con altri imprenditori. Ma anche in contesti di lavo- ro più tradizionali, come gli uffici di aziende di servizi o banche, spesso nelle rior- ganizzazioni si ottimizzano gli spazi del lavoro che, in molti casi, accolgono esi- genze di benessere e di socialità (dall’attivazione di zone dedicate al relax alla creazione di nidi aziendali, ecc.). A Milano un esempio come BASE, in zona Torto- na, dimostra come lavoro, tempo dello svago e della cultura possano convivere in una stessa struttura che è terreno di sperimentazione d’innovazione e contamina- zione culturale. Arte, crea- tività, impresa, tecnologia e welfare si intrecciano in dinamica connessione: in- fatti BASE è spazio di co- working, di ristorazione, di foresteria, di laboratori, di esposizioni, di spettacoli, di workshop e di seminari. Si tratta di uno scenario fonda- to sulla cultura della condivi- sione che non riguarda solo il mondo del lavoro e che trova la sua declinazione più formidabile nella grande diffusione della mobilità con
car e bike sharing. Anche nella dimensione dell’abi- tare la città presenta novità interessanti quanto positiva- mente contagiose. Lo svi- luppo dell’housing sociale e condiviso porta alla riqualifi- cazione di spazi urbani e alla creazione di condizioni di relazioni sociali che creano comunità. Esperienze nate in quel contesto sono poi riproposte anche in quartieri storici specialmente in am- bito condominiale: seppur non eclatanti, sono molte le esperienze di socialità con- dominiale significative per connotare l’abitare urbano: racconti di biblioteche di condominio, cene e aperitivi condominiali, condivisione di responsabilità e parteci- pazione per il decoro delle parti comuni sono sempre più frequenti. Sulla base di questa premessa, possia- mo chiederci come la cul- tura può contribuire al pro- cesso di cambiamento delle città. Proverò a rispondere semplicemente presentan- do alcuni esempi virtuosi che vanno in tale direzione.
Fuorisalone, Bookcity, Pia- nocity, Museocity a Milano
La città mostra in manie- ra crescente la sua realtà di organismo poliedrico e
al tempo stesso unitario in occasione di eventi cultu- rali che pervadono l’intero spazio urbano o sue par- ti significative. Milano, per esempio, nel periodo del cosiddetto Fuorisalone che si tiene nella settimana del Salone del Mobile, non è semplicemente una vetrina per le aziende produttici di arredi ma una città che si autorappresenta fieramente come capitale del design. In quei giorni il design diventa protagonista di negozi, spa- zi di esposizione, ma entra anche in ristoranti, librerie, musei. Contamina luoghi, attiva creatività e desiderio di partecipazione. Un even- to che ha corrispondenti a più evidente missione cultu- rale in manifestazioni come
Pianocity, Museocity o Bo-
okcity che testimoniano del
ruolo che può giocare la cultura nel determinare la vi- talità degli spazi urbani.
Idea Store a Londra
La cultura è un potente mo- tore per favorire la socialità anche in situazioni di degra- do. Un esempio emblema- tico può essere il progetto condotto da Sergio Dogliani a partire dal 2002 a Londra, intitolato Idea Store. Il pro- getto nasce nel quartiere si muovono in sinergia con
grande vantaggio anche sul fronte applicativo.
Anche sul fronte del- le trasformazioni urbane le cose sembrano cambiare. Infatti, sebbene emerga fre- quentemente il problema del forte impatto visivo degli in- terventi delle cosiddette “ar- chistar” - spesso percepiti come astronavi aliene nei contesti urbani -, le tenden- ze più recenti del costruire contemporaneo sembrano dare segnali che vanno an- che in altre direzioni. Dopo anni dedicati al mantra della sostenibilità, oggi la parola chiave è paesaggio, segna- lando in ambito progettuale il lievitare di un’attenzione speciale a contesti e sce- nari. Vorrei quindi procedere in questo mio ragionamen- to cercando di evidenziare altri notevoli elementi che contraddistinguono il nostro presente, non tanto per ne- gare le criticità ben eviden- ziate nel libro di Giancarlo Consonni, quanto per rile- vare, dove possibile, spunti che consentono di prefigu- rare possibili scenari positivi per la città contemporanea. E per fare questo desidero riagganciarmi a quanto effi- cacemente enunciato dallo stesso Consonni a conclu-
sione del suo libro quan- do afferma che “nei grandi e piccoli progetti urbani è necessario puntare su una armatura di spazi pubbli- ci vitali, sorretta da attività e presenze umane che la nutrano, così da farne l’ele- mento ordinatore dei luoghi e insieme ridare vita alla città come sistema di luoghi. La città - prosegue Consonni - deve [cioè] tornare a essere un motore dell’immaginario, capace di essere ospitale, di generare narrazioni, di met- tere in moto emozioni e sor- prese. E di educare alla vita e alla bellezza civile”.
La mutazione della vita nella città contemporanea Negli ultimi anni si stanno diffondendo pratiche carat- terizzanti nuove dimensioni del vivere urbano; in parti- colare, differenti condizioni di interazione e co-parteci- pazione stanno modifican- do non solo gli stili di vita ma anche la forma delle città. Un esempio significativo è dato dai nuovi luoghi del lavoro: aumentano gli am- bienti per il co-working, lo spazio è condiviso con col- leghi e spesso con persone che lavorano in altri settori; specialmente nei luoghi de- dicati alle start-up, giovani
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con entrata evocativa del frontone di un tempio, ricco di arte e buoni propositi, non catalizzò la vita del quartiere, anzi la cittadinanza accolse la sua presenza con distan- za reverenziale: il tempio che conservava la grande arte non era certamente senti- to come qualcosa che po- tesse appartenere alla vita quotidiana della popolazio- ne. Le buone intenzioni dei committenti non avevano adeguatamente considera- to quella che era la perce- zione popolare del museo. Le cose da quel momento sono cambiate e molto. Apripista di una nuova stra- da è stata la creazione del Centre Pompidou a Parigi nel 1977: museo stravolto nel nome, nella forma e nella libertà di visita. All’ingresso monumentale è subentrato un ingresso agevolato dal digradare della piazza. I visi- tatori, accolti al suo interno possono liberamente fare esperienza della visita a ope- re d’arte ma anche di molte altre iniziative performative e altro. Questo progetto, che stravolse l’idea del museo, fu il primo che realizzò una contaminazione virtuosa con la città che portò a un immediato miglioramento dell’area del Beaubourg e
alla gemmazione di numero- si segnali di vitalità culturale in tutto il quartiere.
Più vicina nel tempo è l’esperienza della Tate Mo- dern a Londra inaugurata nel 2000, una vera e propria scommessa in termini di va- lorizzazione di un’area urba- na che prevedeva ingentis- sime spese quando la città avrebbe offerto altre solu- zioni meno rischiose (come l’area del parcheggio Hun- gerfold di Waterloo e il sito di King’s Cross). In quell’oc- casione il direttore Nicholas Serota (uomo assai determi- nato come dimostra la sua candidatura a direttore della Tate Britain del 1988 intito- lata “Grasping the Nettle”) fu in grado di presentare ai tru-
stees l’area desolata di Mil-
lbank in un’ottica di sviluppo urbanistico. Oggi la lunga passeggiata che costeggia il Tamigi da Tower Bridge alla Tate Modern è tra i luoghi più vivaci della città e il museo è un luogo di aggregazione, cultura e divertimento.
Anche a Milano alcune esperienze museali con- dotte per iniziativa di privati stanno animando quartieri fino a oggi caratterizzati da un diverso grado di desola- zione. Tra i più significativi la Fondazione Prada e Hangar
Bicocca. Aspetto non tra- scurabile riguarda il sem- pre più sentito desiderio di attuare attraverso il museo una funzione sociale (uno degli elementi fondamentali come enunciato anche nel- la definizione di museo data dall’ICOM). I musei sono sempre più protagonisti di azioni volte a favorire l’inclu- sione sociale e a dare con- crete risposte alle esigenze della società contempora- nea. I musei milanesi sono attivissimi in questo senso sia con iniziative che han- no avuto anche forte eco mediatica - come l’acco- glienza presso il Memoriale della Shoah, Binario 21, di profughi di passaggio nella città di Milano - sia con al- tre magari meno conosciute ma altrettanto significative, come il progetto condotto dal Museo dei Cappucini di Milano per favorire l’accesso al museo a persone in situa- zione di disagio.
Il progetto Chiese aperte a Genova
Il progetto nacque nel 2004 quando a Genova, nel- la stanca cronaca estiva dei giornali locali, deflagrò un’aspra polemica dedicata alla città: la Capitale euro-
pea della cultura di quell’an-
londinese di Tower Hamlets ed è fondato su un attento studio sulle esigenze del- la comunità residente. In un quartiere popolare, con presenze di comunità prove- nienti da diversi paesi, emer- geva l’esigenza di un luogo di aggregazione dove poter leggere, imparare, praticare esperienze di educazione permanente in orari diversi. Nacque così il primo Idea
Store (oggi sono 5, l’ultimo
creato nel 2013) aperto con orario prolungato, realizzato come ambiente accogliente e in prossimità di luoghi di abituale frequentazione della comunità di quartiere. In una recente intervista di Maria Chiara Ciaccheri pubblica- ta da “cheFare”, Dogliani racconta: “Rispetto alla mia esperienza è importantissi- mo non considerare solo gli utenti già interessati al servi- zio ma pensare chi sono gli utenti in generale. Quelli che mi interessano di più, infatti, sono proprio coloro che in biblioteca non verrebbero a meno che tu non scelga di facilitare loro l’ingresso”. E Ciaccheri efficacemente sin- tetizza: “Facilitare, dunque: le considerazioni raccolte durante la prima consul- tazione hanno permesso così di comprendere che le
persone desideravano ora- ri di apertura più lunghi, più libri, maggior accesso libero. Un altro elemento chiave è l’esigenza diffusa di aggior- namento formativo e profes- sionale e sui temi della salute che si trasforma, all’interno degli Idea Store, in una trac- cia riconoscibile, mutuata anche dall’esperienza diffu- sa dei centri di formazione. La qualità dell’approccio umano a partire dalla for- mazione dei dipendenti (la loro diversità e provenien- za, spesso rappresentati- va dell’utenza che si vuole raggiungere) rappresenta un ulteriore elemento chiave di uno spazio culturale che supporta il coinvolgimento e l’empowerment”.
Il Centre Pompidou a Parigi, la Tate Modern a Londra, la Fondazione Prada a Milano
Il museo contemporaneo ha sicuramente un ruolo privile- giato per “educare alla vita e alla bellezza civile” (Conson- ni). Il concetto è cambiato radicalmente da quando nel 1897 l’idea di crearne uno nel quartiere di Brooklyn a New York - un’area anche al- lora complessa e degradata - per promuoverne lo svilup- po e la rigenerazione si rivelò fallimentare. Il grande museo
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L’occasione per questa breve riflessione mi è stata offerta dal seminario organizzato da UL- TRA (Urban Life and Territorial Research Agency) sul tema La questione bellezza (e altre que- stioni) per la città di oggi, tenu- tosi all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano il 15 di- cembre 2017, a partire dal libro di Giancarlo Consonni. Il mio contributo al seminario non è stato quello di una specialista di temi urbanistici, quanto di una storica dell’arte che si occupa prevalentemente di musei, quindi con un’unica competen- za sul tema dibattuto in quella sede fondata sulla quotidiana relazione con le dimensioni del- la bellezza.
no accoglieva i visitatori con un’area del porto antico tirata a lucido e un centro denso di mostre e musei rin- novati, ma tra il porto antico e il centro moderno, il centro storico era una barriera de- stabilizzante per i visitatori che, se deviavano dalla via maestra si addentravano nel dedalo del più grande centro storico d’Europa, incontravano vicoli sporchi dov’era facile perdersi e dove, soprattutto, quando si incontrava una chiesa - ovvero la tipica architettura che avrebbe potuto e do- vuto rappresentare storia e bellezza della città - questa era immancabilmente chiu- sa. Perché, ci si chiedeva, le chiese non partecipava- no all’accoglienza dei turisti della città? La situazione non era dettata da altro se non dalla mancanza di sa- cerdoti o sacrestani che po- tessero garantirne l’apertura ai fedeli e ai turisti. Si cercò quindi di trovare una solu- zione per questo che era un problema vero e che doveva avere una risposta adeguata al di fuori della situazione di emergenza della vetrina del 2004. L’Ufficio Beni Cultu- rali della Curia di Genova, in collaborazione con il Museo Diocesano, rifletté sul fatto
che l’apertura delle chiese sarebbe stata un incentivo alla visita del centro stori- co della città per i turisti ma avrebbe anche favorito una riduzione del suo diffuso degrado. Da ciò ha preso vita un progetto chiamato “Chiese Aperte” che da un lato ha promosso il restauro e la messa in sicurezza degli edifici in situazione di deca- dimento, dall’altro ha attiva- to un servizio di formazione permanente di volontari ca- paci di garantire l’apertura di queste chiese per molte ore al giorno. Il progetto ha con- sentito l’apertura di oltre die- ci chiese e il prolungamento dell’orario di visita anche nel- la cattedrale. Attorno a que- sti edifici religiosi il processo di degrado urbano sembra almeno rallentato e il flusso di visitatori nel centro storico si è esteso oltre le consuete poche vie principali.
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per incuriosire uno studioso di luoghi, un esperto di sto- rie e fatti urbani, un urbani- sta che sia sufficientemente colto e sensibile.
L’attenzione per questo argomento: “andare per i luoghi del cinema”, va detto, è però ormai assai più este- sa di quella riferibile ad un piccolo numero di speciali- sti e si esprime in un intera massa di “nuovi viaggiatori” che fissano le loro destina- zioni di fine settimana nei luoghi della “Vigata” del “commissario Montalbano”, così come nella Matera di Pasolini, alla ricerca di ciò che corrisponde a quanto hanno visto sullo schermo e che magari, potrà permet- tere loro di vivere un proprio personale selfi, nella stessa stanza d’albergo in cui… Di questo parla anche Ia- russi, ma solo nella nota bibliografica che chiude il saggio e solo per dire che il suo scritto, pur avendoli uti- lizzati, si discosta dai lavori recenti dedicati al “cinetu-
rismo”, comunque consul-
tati e di cui ricorda i titoli principali (1). “Il nostro libro - scrive - non è una guida e perciò non è in preda all’os- sessione di “geolocalizzare” le scene del film nel mondo reale”.
Strana dichiarazione questa se la si associa al percorso tracciato nella mappa delle regioni d’Italia posta a fianco del frontespi- zio del libro. Oscar Iarussi fa comunque dei luoghi del ci- nema un itinerario che parte da Bari, dove vive e lavora, e che dopo Matera e Palermo risale il Paese verso nord passando da Napoli, Roma, Firenze, Bologna, raggiunge Torino, prosegue a est verso Milano e Venezia per scen- dere di nuovo verso sud, a Bari. Se si mettono insieme il titolo e l’itinerario appena ricordato ce n’è comunque abbastanza per incuriosire alla lettura. Il progettista di città, di luoghi e di paesag- gi, l’interprete abituato a fer- marsi soprattutto su ciò che può servirgli nel suo lavoro di trasformatore, l’interprete di spazi abitati e delle prati- che dei loro abitanti immagi- na di poter trovare in questo libro una utile, colta, origi- nale esplorazione. Per un architetto, il cinema è sem- pre stato sin dal suo esordio uno strumento da associare a quelli del progetto; ora, in un sistema di comunicazio- ni senza ostacoli, pervasivo e dominato dalle imma- gini, quelle in movimento, in particolar modo, sono
generalmente ormai perce- pite come essenziali per la lettura dei luoghi. Alexandra Parker - una ricercatrice su- dafricana autrice di Urban
Film and Everyday Practice
(Palgrave Macmillan, 2016) - ne fa addirittura un eserci- zio didattico per gli studenti di pianificazione, chiedendo loro di ricostruire il caratte- re di una città, così come è possibile ricavarlo dalle pel- licole che lì sono state am- bientate e dalle ragioni che hanno portato ad adottarle come set (2). Luoghi, direb- be Iarussi e non “location, un termine che non trove- rete in questo libro…”. La tesi del libro si basa infatti sulla costatazione che l’Ita- lia, dalla fine della parentesi dei “telefoni bianchi”, gli anni ‘30 del novecento, ha offer- to alle produzioni del cine- ma internazionale oltre che a quelle italiane, ambienta- zioni già bell’e pronte, reali, lontane dai teatri di posa, in un crescendo di autentiche interpretazioni di città e pa- esaggi entrati così attraver- so il cinema nella memoria condivisa.
Quando si entra nel te- sto, a partire da Venezia “un’invenzione senza futu- ro”, ci si trova però proiettati in un turbine di citazioni, di