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CITTÀ COME MEMORIA CONTRO

LA BARBARIE

Pubblicato sul sito web della Casa della Cultura il 3 luglio 2018.

Dello stesso autore, v. anche: Identità e cittadinanza

nelle piazze d’Europa (2 settembre 2016); Il diritto alla bellezza. Forma e valore degli spazi urbani nella città contemporanea (24 marzo 2017).

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stato - una colonna qua- drangolare in piombo alta dodici metri, pesantissima, pensata in modo da abbas- sarsi progressivamente, fino a scomparire, man mano che gli abitanti del quartie- re, prevalentemente immi- grati, apponevano la loro firma sulle sue lisce pareti; vivrà per sette anni, fino alla scomparsa (non ne rimane che una piastra a terra, che ricorda cosa è successo); ma se nessuno avesse fir- mato - e le firme furono più di 70.000 - la colonna sa- rebbe ancora lì. È dunque lo spettatore che diviene co-autore, commenta Ada- chiara Zevi.

Ancora più radicale, in questa stessa direzione, è il “monumento invisibile” di Saarbrücken, che sparisce anch’esso, seppure in modo diverso: lungo il viale lastri- cato che porta al Castello, già quartier generale della Gestapo e ora sede del Par- lamento della Saar, duemila dei sampietrini che lo pavi- mentano vengono divelti in modo casuale, incisi con altrettanti nomi dei cimiteri ebraici che esistevano nel 1939, e nuovamente inter- rati, ma rivoltati. È un lavoro che dura tre anni, svolto in collaborazione con studenti

e membri delle sessantasei comunità ebraiche esistenti in Germania, e che dà luce a un “monumento orizzon- tale... che coincide con il pavimento, con la strada, con la città... dove - osser- va l’Autrice - i nomi interrati, rivolti verso la terra, invisibili ai vivi, sono leggibili solo dai morti”. Unica traccia di tutto ciò, la ridenominazione della piazza, che oggi è Platz des Unsichtbaren Mahnmals, Piazza del Memoriale Invi- sibile.

Monumenti sottoter- ra dunque, perché siano massimamente anti-monu- mentali; ma, come tali, inti- mamente intersecati con gli spazi urbani che li ospitano. Come, di nuovo, a Berlino, a August Bebel Platz, una delle piazze più importan- ti della città, a pochi passi dall’Unter den Linden, dove uno spazio ricavato sotto- terra, ma qui visibile dai vivi, è coperto da una semplice lastra di vetro - a filo del pa- vimento, ci si può cammina- re sopra - che chiude una stanza bianca e luminosa, inaccessibile, contornata da scaffali di biblioteca, bianchi anch’essi, ma vuoti, capienti tanto da poter ospitare ven- timila volumi: lo stesso nu- mero dei libri di autori ebrei,

comunisti e liberali messi al bando che qui furono bruciati dalle SA e dall’or- ganizzazione studentesca nazionalista nel famigerato rogo del 1933. La si vede appena, questa commo- vente biblioteca, soprattutto per la flebile luce che di not- te la annuncia: ma ha fatto sì che Bebel Platz divenisse un luogo straordinario, nel quale gli eventi di “Table of Free Voices” richiamano ogni anno da tutto il mondo persone dedite al riconosci- mento della democrazia.

Il libro di Adachiara Zevi non trascura certo l’incon- tro con edifici veri e propri, mausolei, musei e memoriali dell’olocausto, realizzati in varie città del mondo, ma privilegia quelli nei quali gli spazi e le architetture sono concepiti come “attivatori di memorie”, piuttosto che come contenitori di ogget- ti e riproduzioni di eventi. Spazi che generano in chi li percorre “disagio e inquietu- dine, piuttosto che consola- zione e conforto”: dal Mau- soleo delle Fosse Ardeatine, che incontriamo fin dalle prime pagine, “percorso da agire, non oggetto da con- templare” al Judisches Mu- seum di Berlino, quasi alla fine, percorso anch’esso goga: non ricorda dunque

l’edificio, ma i suoi abitanti, evocandone l’assenza. Nel- la parte settentrionale della città, nella piccola piazza di Koppenplatz, la ricostruzio- ne in bronzo di un interno, il pavimento in legno con sopra un tavolo e due sedie, una delle quali rovesciata, evoca l’ansia dell’abbando- no precipitoso dei suoi abi- tanti. Nel vecchio quartiere di Scheunenviertel, sulle pa- reti di due case contigue a quella distrutta, sono affisse targhe che appaiono come annunci funebri con i nomi degli abitanti, le date del loro arresto, le professioni che esercitavano. Poco più avanti, nello stesso quartie- re, la proiezione sulle pareti esterne delle case super- stiti di immagini delle case abitate dagli ebrei prima della loro deportazione, ne evocano la vita prima del- la tragedia. A Shöneberg, lungo Haberland Strasse, la strada dove avevano abita- to Albert Einstein e Hannah Arendt, i pali della luce e della segnaletica ospitano ottanta targhe stradali che riproducono i decreti contro i residenti, e immagini sti- lizzate e multicolori che ne evocano gli obblighi, come le limitazioni alle professioni

da loro esercitate, o l’inter- dizione ai luoghi della loro abituale frequentazione; ol- tre che mappe che mettono a confronto le distruzioni del quartiere negli anni che tra- scorrono dal ‘33 al ‘93.

Il richiamo alla memoria è affidato dunque a inter- venti discreti, non invasivi, pervasi dall’intento di evo- care, piuttosto che descri- vere e celebrare. Si assiste così a una progressiva con- trazione visuale del “monu- mento”, che conduce in più di un caso ad annullarne la presenza fisica: come ad Amburgo, nella centralis- sima Joseph-Carlebach- Platz, dove è poco più che l’impronta del tetto, appena tracciata a terra, a ricordare che lì c’era la più grande si- nagoga del nord Europa.

Nella stessa città, que- sta voluta contrazione vi- suale è programmatica- mente controbilanciata da un coinvolgimento delle comunità nella realizzazione dell’evento, oltre che nella sua durata nel tempo: in un luogo periferico prossimo a un nuovo centro com- merciale, oggi resta solo il ricordo di un “monumento” espressamente concepi- to perché scomparisse nel tempo: il monumento è - è

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di Geova, militari, con la loro superficie liscia e lucente sul- la quale è inciso il nome della persona che viene ricordata preceduto da “qui abitava”, “qui ha studiato”, “qui lavo- rava”, con la data di nascita, la data dell’arresto, il luogo della deportazione, la data della morte... Posti a partire dal 1992, oggi sono tantissi- mi, più di 50.000, tutti rigoro- samente uguali, in tantissime città di venti paesi europei - più di cinquanta in Italia - a formare “una grande mappa urbana... che consente di visualizzare sia la presen- za ebraica sia l’estensione della rete della resistenza al nazi-fascismo, sfatando semplificazioni e luoghi co- muni...”. Oggetti che “diffon- dendo e decentralizzando la storia, diventano uno stru- mento formidabile offerto ai cittadini, soprattutto ai gio- vani, per conoscere il loro quartiere, una prova incon- futabile che quei fatti orribili, che si pensavano accaduti lontano, si sono verificati invece sotto casa... L’intero tessuto urbano è il loro hu- mus... È la città dunque la responsabile della memo- ria dei suoi cittadini caduti”. Nelle loro città di oggi.

È per questo che, al termine dell’itinerario che

abbiamo percorso, sia pure con passo necessariamen- te affrettato, possiamo dire che questo libro offre alle nostre riflessioni un duplice messaggio, positivo e in- coraggiante dapprima, ma poi presto allarmante. Un messaggio positivo quan- do dimostra che le città possono ancora incamera- re memorie; che malgrado tutto esse sono ancora (e possono esserlo ancora di più) i luoghi massimamente vocati ad ospitarne di nuo- ve - ad attivarne, direbbe Adachiara Zevi: memorie che vogliano sopravvivere, e che altrimenti rischierebbero di scomparire. Le città dun- que, con la loro fisicità, con persone che le attraversa- no, ci vivono, vi sostano, vi si incontrano. Ancora oggi; ma come è sempre succes- so, a ben guardare. Ma allo stesso tempo un messaggio allarmante: perché questa forte convinzione, ottimisti- camente sostenuta dall’Au- trice in questo ora non più ermetico libro, pone se pure implicitamente un dram- matico interrogativo, una sollecitazione a riflettere su quello che sta succedendo nelle nostre più amate città, nelle città storiche: quelle che consideriamo preziose

e tanto più belle ed amate, proprio perché rivelano fisi- camente i segni della storia che le ha modellate e il tra- scorrere delle generazioni che le hanno percorse adat- tandole alle loro mutevoli esigenze. In esse consta- tiamo drammaticamente la quotidiana aggressione di fenomeni sociali ed econo- mici che rischiano di estin- guerne i segni delle memorie gelosamente acquisite nel tempo: sia perché perdo- no progressivamente i loro abitanti, i testimoni impliciti degli eventi che vi si erano succeduti, che non si rige- nerano più con il ricambio delle generazioni attraverso cui la memoria si era tra- mandata, ridotti progressi- vamente dall’invecchiamen- to e ora falcidiati dall’esodo; e sia perché in queste stes- se città ci si accanisce con indifferenza e superficialità, se non con vera efferatezza, nella trasformazione dei luo- ghi che avevano custodito le memorie di questi eventi. Lo avverte esplicitamen- te la stessa Zevi nel corso delle sue peregrinazioni: come quando, parlando del Ghetto di Roma, accenna allo smarrimento di chi oggi lo percorre, o lo vive, tra- sformato in una sequenza “claustrofobico, disagevole

per le improvvise impennate, sterzate direzionali, disequili- brio dei livelli... labirintico, più che assiale o prospettico”. Si capisce che il suo interesse - e dunque anche il nostro - è rivolto principalmente agli in- terventi che generano spazi, piuttosto che occuparli. Lo dimostra l’ampio commento dedicato al Memoriale per gli Ebrei assassinati in Europa - siamo nuovamente a Berlino - griglia di percorsi fra steli di calcestruzzo alte e continue, posate ortogonalmente se- guendo l’ondulazione natu- rale del terreno; è l’interven- to che per Adachiara segna il ponte fra il “monumento come percorso” - le Fos- se Ardeatine appunto - e il “monumento come brano di città... campo integrato nel tessuto urbano... nel quale ci si imbatte senza saperlo passeggiando per il centro e il Tiergarten, che... lungi dall’indirizzare, lascia liberi di attraversare senza meta i suoi plurimi e labirintici percorsi….. che non indica cosa ricordare, ma sugge- risce percorsi di memoria da seguire, liberamente, in solitudine, silenzio, introspe- zione”.

Così, altrettanto integra- to nel tessuto urbano - anche

se in modo diametralmente diverso, perché qui occorre recarvisi deliberatamente, piuttosto che intersecarlo li- beramente - va considerato il frammento della Stazione Centrale di Milano che ospi- ta il Memoriale della Shoah Binario 21: questo è pur sempre un brano dell’infra- struttura più importante della città, centralissimo, che ci ricorda che lì, di fronte al Pa- lazzo delle ex Regie Poste, al piano terra della stazione, i deportati venivano condotti nascostamente, per essere ammassati nei carri ferroviari che un apposito meccani- smo elevatore poi sollevava per instradarli al vero piano dei binari nei convogli diretti ai campi di sterminio.

Luoghi urbani specifici dunque, nei quartieri, spesso nei centri. Che oggi ospitano sempre più diffusamente - e qui il libro di Adachiara Zevi si chiude - quei tanti tantissimi segni discreti, ma per questo più che mai eloquenti, visibi- li nelle pieghe di tante città che sono gli Stolpersteine, le “pietre d’inciampo” che ab- biamo incontrato fin da sot- totitolo: piccoli sampietrini interrati davanti alle soglie di abitazioni e luoghi di lavoro di deportati razziali, politici, rom, omosessuali, testimoni

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nuova. Ma ciò accade nello stesso momento nel quale in molti dei suoi luoghi im- portanti, o che importan- ti sono stati, altre recenti memorie si sono perse, o si stanno perdendo: come le memorie del lavoro, di quella Venezia operaia che aveva animato e rinnovato la compagine sociale del ‘900, i cui luoghi sono oggi asser- viti al turismo, imbellettati e depurati da ogni scoria che ne ricordasse la vitalità che li animava e le tensioni che avevano ospitato - le fabbri- che della Giudecca, il gran- de molino Stucky, il Fontego dei Tedeschi, gli squeri e le tese dell’Arsenale; ma ora anche le case, gli spazi dei cittadini, i mercati e le botte- ghe, i canali i ponti e i bacini: consegnati al più redditizio mercato del turismo, ad un consumo che si avvale e lucra sulla storicità di questi luoghi.

Non accade solo a Ve- nezia, lo sappiamo bene. E dunque questo libro, che ci fa riflettere su ciò che della storia di ieri la città riesce a salvaguardare e a traman- dare e, per confronto, su ciò che va quotidianamente perdendo, è un libro impor- tante.

ininterrotta di ristoranti, fast food, pasticcerie e alimenta- ri kasher. O più sopra, quan- do dialogando con Dario Calimani coglie la sua irrita- zione per i molti luoghi dello sterminio “inghiottiti dall’avi- dità del turismo di massa: gli stessi campi di concen- tramento che diventano co- pie di baracche imbellettate, finzioni dotate di caffetteria, libreria, cambiavalute e sala conferenze; vere rappresen- tazioni ad uso del visitatore, prive della loro sventurata umanità... orrore estetiz- zato”. E in qualche pagina prima, trattando dell’United States Holocaust Memorial di Washington, aveva par- lato di “americanizzazione della Shoah”.

Tutto ciò sta dunque accadendo, e non può non turbarci per il destino del- le nostre amate città; non può non richiamarmi la mia, la Venezia di questi ultimi anni, che pure aveva ac- colto civilmente, anche se l’Autrice non ne parla, se- gni sommessi dei medesimi eventi traumatici che altrove ci aveva fatto incontrare: nelle ridenominazioni di al- cuni luoghi urbani, come la lunga riva che si affaccia sul bacino di San Marco, che fu Riva dell’Impero fino al do-

poguerra, e che è ora Riva dei Sette Martiri a ricordo dei sette prigionieri politici lì fucilati dai nazisti nel 1944; la stessa riva che poco più avanti, di fronte ai giardi- ni della Biennale, è la Riva dei Partigiani, affacciata su un corpo di donna moren- te adagiato sull’acqua che Augusto Murer scultore e Carlo Scarpa architetto concepirono nel 1961, in memoria delle donne ve- neziane che avevano par- tecipato alla liberazione dal nazifascismo; e poi, nella più recente acquisizione dei segni delle deportazio- ni, le ormai numerose pietre d’inciampo - le ultime sono state posate quest’anno in occasione della Giorna- ta della Memoria - davanti alle soglie di abitazioni del Ghetto, ma poi in altri luo- ghi della città, anche luoghi di lavoro, come l’università Ca’ Foscari, di cittadini ebrei deportati e morti nei campi di sterminio nazisti; tanto più commoventi nei loro messaggi, a Venezia più che altrove, perché muovendoci qui tutti a piedi non si può fare a meno quotidianamen- te di inciamparvi.

Anche Venezia dunque, che è tutta memoria, dimo- stra di saperne acquisire di

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più avanzate - si dimostraro- no del tutto infondate. Cio- nonostante il libro di Ratti soffre ancora di un eccessivo ottimismo nei confronti della tecnologia. Soprattutto as- sume un punto di vista a mio parere troppo uniformante in relazione a quelli che saran- no i comportamenti umani. Non distingue quasi mai tra uomini e donne, giovani e anziani, persone diverse per reddito, istruzione e cultura, ma parla dell’essere umano in generale, standardizzato, guardando alla sua capaci- tà crescente, quasi natura- le, di adattarsi e sfruttare le innovazioni tecnologiche. Il quadro che ne esce è di tipo vagamente darwinista, dove poca o nessuna speranza viene lasciata a chi non sarà in grado di tenersi al passo con il processo innovativo.

C’è un tema che mi sta particolarmente a cuore e che oggi mi pare poco ana- lizzato in merito al difficile rapporto tra uomo e tecno- logia: questo riguarda quello che potremmo definire un imminente esaurimento del processo di autoindulgenza che oggi contraddistingue la relazione uomo-tecnologia. Ma procediamo per gradi. Già negli anni ‘80 (Gershuny e Miles 1983, Mingione

1983), il dibattito sociologico mette bene in rilievo come, rispetto al passato, la socie- tà contemporanea ci offra sempre più servizi non finiti, ma da completarsi da par- te dell’utilizzatore attraver- so pratiche di self-service. L’automobile non funziona da sola, dobbiamo saperla guidare; lo stesso vale per la lavatrice, il prelievo di denaro dal bancomat, per il pieno di benzina, per la prenotazione di un volo aereo: beni/servi- zi di cui oggi ci riforniamo in modalità self-service, grazie alla familiarità con la tec- nologia e alle competenze informatiche che abbiamo nel tempo acquisito. L’auto- produzione (o meglio il con- corso nella produzione) del bene che consumiamo por- ta ovviamente ai noti feno- meni di spersonalizzazione delle relazioni e soprattutto a un aumento delle responsa- bilità. I vari monitor e display che utilizziamo diventano in sostanza specchi, rifletto- no cioè il nostro volto ricor- dandoci che se per caso la fornitura del servizio non andasse in porto ne siamo in parte (in buona parte e sempre più) corresponsabili.

Ora, poiché l’essere umano non è probabilmente in grado di reggere un carico

eccessivo di responsabilità che interessano quotidia- namente ogni sua funzione mediata dalla tecnologia, è probabile che egli metta in atto atteggiamenti di autoin- dulgenza allorché commette errori. Cioè tende a trovare facili giustificazioni con se stesso e dunque a perdo- narsi, magari consolandosi con il fatto che non è l’unico a trovarsi in tali condizioni. Lo sbocco naturale del suo disagio e della conseguente protesta potrebbe essere costituito da un operatore del sistema con cui sfogare il proprio malcontento, se non la propria aggressivi- tà, ma gli operatori appun- to tendono sempre più a scomparire proprio in con- seguenza del moltiplicarsi di una tecnologica fortemente spersonalizzante, orientata al self-service. Basti pen- sare a un concetto oggi tanto diffuso come quello di smart, la cui traduzio- ne in italiano è intelligente, scaltro, furbo. Il messaggio è chiaro: se vuoi sfruttare appieno la città devi avere queste caratteristiche ed essere in grado autonoma- mente di interrogare le reti, traendo vantaggi dal flusso di informazioni e dati che ti viene recapitato.