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UN TERRENO

COMUNE

Pubblicato sul sito web della Casa della Cultura il 18 gennaio 2018.

Sul libro oggetto di questo commento, v. anche: Francesco Ventura, Così non si tutela né il suolo

né il paesaggio (1 dicembre 2017); Anna Marson, È così che si commenta un libro? (15 dicembre

2017); Francesco Ventura, Su “La struttura del pae-

saggio” Inutili le polemiche, riflettiamo sui contenuti

(12 gennaio 2018); Paolo Pileri, L’urbanistica deve

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integrare il paesaggio nel- le altre politiche che su di esso possono avere un’in- cidenza diretta o indiretta. Una siffatta integrazione è esplicitamente richiesta dal- la Convenzione europea del paesaggio, che non manca di indicare in modo puntuale le materie nelle quali le parti si impegnano a garantirla: politiche di pianificazione del territorio, urbanistiche e (…) quelle a carattere culturale, ambientale, agricolo, socia- le ed economico (art. 5d).

La grande distanza che separa i principi stabiliti dal- la Convenzione europea del paesaggio e le politiche messe in opera nei diversi settori che incidono sulle trasformazioni del paesag- gio - argomenta Marson - è un problema che riguarda sicuramente l’Italia, ma non solo. Lentezze, difficoltà, incertezze, riluttanza nell’at- tuazione della Convenzio- ne europea del paesaggio sono osservabili in molti stati e regioni d’Europa (Pedroli). D’altra parte, l’attenzione al paesaggio è carente anche nelle politiche comunitarie che maggiormente incido- no sulla realtà del territorio e dell’ambiente rappresen- tata nel paesaggio. Si pen- si, fra tutte, alle politiche

in materia di agricoltura e ambiente, nelle quali l’Unio- ne Europea esercita com- petenza concorrente con quelle degli Stati membri, e dunque legifera e adotta atti giuridicamente vinco- lanti. Promuovere ricerche che indaghino in modo si- stematico e approfondito le trasformazioni del territorio e del paesaggio generate di- rettamente e indirettamente dalla combinazione di stru- menti e politiche settoriali, fornirebbe elementi utili per individuare le azioni, gli atto- ri e le risorse necessarie per tutelare, valorizzare e riqua- lificare i paesaggi e riflettere con maggiore consapevo- lezza su potenzialità e limiti di efficacia dei nuovi piani paesaggistici.

 

Leggere, interpretare e rappresentare il paesaggio Le domande con le quali si è dovuto misurare il gruppo di ricerca nella elaborazio- ne del piano paesaggistico, sollevate dalla curatrice in vari paragrafi della sua in- troduzione, costituiscono filo conduttore che connette la gran parte dei contributi scientifici raccolti nel volu- me. Per questo meritano di essere largamente riportate. “Come affrontare (…) una

lettura del paesaggio non solo estetico-percettiva, e dunque esposta ai rischi dell’apprezzamento sogget- tivo e datato, ma capace di indagare le relazioni struttu- rali alla base dei paesaggi che noi vediamo? Come individuare gli ambiti di pae- saggio? Come passare dal- la lettura alla scala regionale a quella di maggiore det- taglio degli ambiti? Come rapportarsi alle dinamiche di lungo periodo, e alle tra- sformazioni in corso? Come impostare una cornice nor- mativa in grado di tenere in- sieme disciplina dei vincoli e disciplina di tutto il territorio regionale?”.

Sono domande ineludi- bili per affrontare in maniera consapevole le sfide poste dalla Convenzione e dal Codice. Questi obbligano ad allargare lo sguardo dal singolo bene al contesto, cogliendo le interdipenden- ze che legano fattori natu- rali e umani; a estendere l’attenzione all’intero terri- torio regionale e, allo stes- so tempo, a puntarla sulla varietà di paesaggi nei quali esso si articola (a partire dagli ambiti di paesaggio); a interrogare i tempi lunghi della storia ricercandovi persistenze e permanenze no, nel primo caso, alla luce

delle difficili convergenze ricercate nella stesura del Codice dei beni culturali e del paesaggio fra Stato ti- tolare del vincolo paesaggi- stico e Regioni titolari della pianificazione; nel secondo caso, in relazione agli ele- menti di innovazione che il piano stesso esprime quan- do posto a confronto con le esperienze in atto in altri paesi europei.

Nelle righe che seguono proverò a enucleare alcuni spunti di riflessione, neces- sariamente limitati e parziali, fra i tanti suscitati dalla lettu- ra del volume.

 

Innovazioni problematiche I ‘nuovi’ piani paesaggistici previsti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio si misurano con innovazio- ni rilevanti introdotte dalla Convenzione europea del paesaggio e dal Codice stesso. Essi dovrebbero favorire il superamento di un approccio alla tutela del paesaggio essenzialmen- te affidato ai vincoli imposti per legge o per decreto su parti di territorio sottoposte a uno speciale regime au- torizzativo che ha finito per far prevalere la componente burocratico-amministrativa

su ogni altra prospettiva. Un approccio che ha dimostra- to tutti i suoi limiti di effica- cia, fino al punto da rendere non sempre facilmente di- stinguibili i paesaggi protetti da tutti gli altri. L’evoluzione normativa ha determinato un mutamento d’identità dell’interesse paesaggistico. Ora riferimento essenziale è il “paesaggio”, e non il bene paesaggistico - argomen- tano Marzuoli e Vettori. Il Codice, pur mantenendo la distinzione fra paesaggio e beni paesaggistici, attribu- isce priorità alla pianifica- zione (Settis, p. 275) e, in accordo con la Convenzio- ne europea del paesaggio, richiede che tutto il territorio sia adeguatamente cono- sciuto, salvaguardato, pia- nificato e gestito in ragione dei differenti valori espressi dai diversi contesti che lo costituiscono.

Tale prospettiva pone alcuni problemi, ai quali op- portunamente l’introduzione della curatrice dedica ampio spazio. Fra questi, il sovrac- carico di compiti che grava sui piani paesaggistici re- gionali, dovuto sia alla man- canza di politiche pubbliche in materia di paesaggio sia alle resistenze, all’incapaci- tà o alla scarsa abitudine a

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oggetto, esso diventa “sog- getto” nello scritto di Paolo Baldeschi, “neoecosistema ad alta complessità” nel sag- gio di Magnaghi. In entrambi i casi è interpretato come si- stema vivente che si trasfor- ma, evolve continuamente e necessita di cura costante. L’approccio strutturale alla conoscenza del paesag- gio consente di coglierne la dinamica complessiva e le regole generative e coe- volutive nella longue durée, e di intendere le “invarianti strutturali” - attinenti ai ca- ratteri idro-geo-morfologici, ai caratteri ecosistemici dei paesaggi, al carattere poli- centrico e reticolare dei si- stemi insediativi, ai caratteri morfotipologici dei sistemi agroambientali dei paesaggi rurali - non quali oggetti di valore eccezionale ma quali regole (spesso non scritte) riconosciute grazie alla in- terpretazione dei caratteri delle invarianti, e da seguire nelle trasformazioni ordinarie del territorio-paesaggio per conservarne o elevarne la qualità. L’approccio struttu- rale rompe l’isolamento nel quale i beni paesaggistici erano stati per lungo tem- po confinati e favorisce un dialogo, che richiede ancora approfondimento e speri-

mentazione, fra quelle limi- tate, speciali parti territorio che si cercava (e si cerca) di difendere mediante i vin- coli, e il contesto territoriale nel quale esse sono inserite, che inevitabilmente condi- ziona ogni possibilità di tute- larle e valorizzarle.

Fonti documentarie, bi- bliografiche, cartografiche, iconografiche sono state interrogate con ampiezza e profondità nel percorso di costruzione del piano per mettere in relazione passa- to e futuro, storia e proget- to, per indagare le capacità dei territori di autoprodurre legami profondi fra popo- lazioni, attività e luoghi e le ragioni della perdita di qualità relazionali. Questa interrogazione delle fonti, nell’elaborazione dei piani svolta (e di rado) senza al- cun rigore, è stata affidata a contributi specialistici: dall’indagine geostorica di Anna Guarducci e Leonar- do Rombai, alla ricostruzio- ne storico-archeologica di Franco Cambi e Federico Salzotti, alla ricerca storico- artistica di Valeria E. Geno- vese. Tratto comune di que- sti contributi è l’ampiezza e profondità della prospettiva spazio-temporale assunta per indagare i paesaggi, e la

capacità di sottrarre l’analisi a ogni logica enumerativa, classificatoria, ‘filatelica’, che porta a concentrarsi sui singoli oggetti isolandoli dal contesto che li ha prodotti e con il quale essi intimamente interagiscono.

Il tema della rappresen- tazione del paesaggio occu- pa uno spazio cospicuo nel volume. Alle rappresenta- zioni non sono affidate solo funzioni attinenti alla sfera tecnica. Ad esse è asse- gnata anche una essenziale funzione culturale e sociale. La cartografia e l’iconografia del paesaggio partecipano alla costruzione del ‘raccon- to’ che il piano ha bisogno di creare per diventare patri- monio collettivo. Un raccon- to che invita a rileggere con sguardo critico i paesaggi contemporanei e con sguar- do curioso i paesaggi storici, a scoprire paesaggi perduti e paesaggi che resistono ma che l’abitudine, l’indif- ferenza e la colonizzazione delle menti impediscono di riconoscere nella loro com- plessità di relazioni spazio- temporali. Un racconto che persuade a ricercare nelle re- gole statutarie messe in luce dalle rappresentazioni del piano la strada per produrre nuovi paesaggi di qualità. ma anche discontinuità e

brusche fratture.

Gli approfondimenti con- cettuali e i chiarimenti me- todologici offerti dai saggi che compongono il volume permettono di dare rispo- ste non generiche a queste domande. Questo - mi pare di poter sostenere - grazie a due concomitanti condi- zioni. Da un lato, la tensio- ne progettuale, e la conse- guente ricerca dell’unitarietà dell’atto culturale e operativo funzionale alla costruzione del piano, non ha comporta- to la rinuncia dei ricercatori all’utilizzo dei propri specifici strumenti disciplinari. Dall’al- tro lato, l’aver saldamente ‘situato’ concetti e metodi nel percorso di elaborazio- ne del piano ha consentito di valorizzare la specifici- tà delle diverse discipline, costringendole però, nello stesso tempo, a interagire in maniera profonda. Le rap- presentazioni del territorio e del paesaggio, purtroppo drasticamente selezionate per la pubblicazione, sono di grande importanza a tal fine. Il metodo adottato ha fatto sì che esse agissero “in arene interattive in cui i di- versi approcci disciplinari si confrontano”. La stessa effi- cacia delle rappresentazioni

è stata misurata in base alla capacità di “rendere possibi- le il dialogo fra diversi para- digmi descrittivi” (Lucchesi, p. 103).

Nonostante il carattere ‘situato’ della sperimentazio- ne, le innovazioni proposte assumono valenza più ge- nerale, inducendo a riflettere sull’esperienza chi si sia già cimentato o si stia ancora cimentando in Italia con gli specifici profili della pianifica- zione paesaggistica delineati dal Codice, e rivelandosi di notevole utilità anche nel pa- norama europeo, come è te- stimoniato dal contributo di Pedroli. Questa valenza più generale si manifesta nono- stante il carattere singolare dell’esperienza di pianifica- zione toscana, evidenziato soprattutto da Baldeschi: non solo per gli accennati precedenti ai quali si è potu- ta ancorare l’interpretazione strutturale e identitaria del territorio alla base del piano, ma anche per l’eccezionalità della situazione politica entro la quale l’esperienza è matu- rata.

Il territorio, per troppo tempo ridotto a spazio muto, inanimato, attraverso la tra- sformazione in paesaggio, vuole tornare a parlare, so- prattutto ai suoi abitanti. Da

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affettiva” del paesaggio che, partecipata e condivisa, maggiormente collabora alla sua tutela e alla sua proget- tazione rispettosa” (Geno- vese p. 126). Carlo Donolo, che ha dedicato gran parte del suo percorso di ricerca allo studio dei beni comuni, ci ha fatto comprendere a fondo l’importanza di que- sto compito e il ruolo cru- ciale delle istituzioni, usando anche espressioni forti per essere meglio compreso da un pubblico vasto: “solo la (…) condivisione garantisce [ai beni comuni] la riprodu- zione allargata nel tempo. La rilevanza dell’aggettivo “comune” viene enfatizzata dal dato di fatto che i pro- cessi dominanti oggi a livello locale e globale sono invece centrati su appropriazione, privatizzazione e sottrazio- ne alla fruizione condivisa di tantissimi di questi beni. Da qui l’inevitabile conflitto sullo statuto dei beni comuni, un tema questo che - tanto per capirci - ha oggi lo stesso rilievo che potevano avere a metà Ottocento la lotta di classe e il socialismo” (Do- nolo 2011).

Una sfida di tale portata non può certamente essere affrontata restando intrap- polati nei recinti della gestio-

ne burocratico-amministra- tiva dei beni paesaggistici o di un governo del territorio essenzialmente affidato a strumenti regolativi. Essa richiede forme di gestione attiva del paesaggio, capaci di mobilitare una pluralità di conoscenze, progettualità, risorse e attori in iniziative di tutela, valorizzazione e riqualificazione differenziate, che esaltino le specificità di ciascun paesaggio e si inte- grino strettamente alle politi- che di sviluppo locale.

Riferimenti bibliografici Donolo, C. (2010) I beni comuni

presi sul serio, editoriale per

Labsus - il laboratorio per la sussidiarietà (www.labsus.org). Ferraro, G. (1998) Rieducazione

alla speranza. Patrick Geddes planner in India, 1914-1924,

Jaca Book, Milano. Mandelbaum, S. J. (1990)

Reading plans. “Journal of the

American Association”, 56, 350-356.

La rappresentazione cartografica del paesaggio riveste un ruolo cruciale per indagarne e comunicarne caratteri, dinamiche, relazio- ni. La sfida, in un atto pubbli- co qual è un piano, consiste nella capacità di mostrare “attraverso la cartografia i caratteri del paesaggio (in- sieme: la sua evidenza feno- menologica e le regole che lo strutturano) (…), senza al- lontanarsi dal rigore della to- pografia e della costruzione metodica dei materiali de- scrittivi.” (Lucchesi, p. 102). Per la ricerca sulla iconogra- fia del paesaggio, la sfida è raggiungere l’obiettivo “di trasmettere con efficacia la conoscenza dei processi trasformativi che generano i diversi paesaggi regiona- li, di educare a una lettura consapevole del paesaggio in cui si vive, di immaginare con maggiore competen- za e sensibilità i successivi passi del processo paesag- gistico in ineludibile rapporto con il pregresso” (Genovese, p.114).

La sperimentazione delle norme figurate, della quale rende conto il contributo di Poli e Valentini evidenzian- done le specificità rispetto ad altre esperienze italiane ed europee, mira a rafforza-

re la funzione euristica, argo- mentativa e orientativa della norma scritta, senza incidere sulla sua valenza prescrittiva e senza pretendere, come in altre stagioni di pianificazio- ne, di proporre modelli e pre- figurare soluzioni progettuali. L’efficacia di un piano di- pende - ci ricorda Massimo Morisi nel suo saggio - da molteplici circostanze eso- gene e dalla sua genesi, ed è legata alla legittimazione che al piano stesso è conferita dal contesto politico e cul- turale. L’osservatorio regio- nale del paesaggio previsto dal Codice può acquisire un ruolo cruciale nella messa in opera del piano, quale sno- do tra rappresentanza poli- tica e partecipazione civica ai fini dell’effettività del piano stesso. Questo, purché l’os- servatorio sia concepito non come “un mero ufficio regio- nale” e “un’apposita etichet- ta burocratica” ma come struttura aperta e dinamica le cui funzioni e attività trag- gano alimento e vitalità da “una pluralità di osservatori locali con esso funzional- mente e organizzativamen- te interrelati”. Ritengo che a tale sistema di osservatori dovrebbe essere affidato soprattutto il compito di at- tivare “quella “conoscenza

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da ingenuo entusiasmo per il compito che gli viene as- segnato da un facoltoso mecenate di dirigere una rivista “La purificazione”, or- gano dell’Epauci, Ente per la Purificazione dell’Atmosfera Urbana dei Centri Industriali. Il suo impegno è autentico e, si illude, anche teorica- mente produttivo, finché un giorno sale su di una collina nei dintorni e vede, stupe- fatto, la sua città avvolta da una nuvola di smog. Al- larmato contatta il suo me- cenate che, indaffarato, gli chiede di passare presso il suo ufficio: la direzione di un grande stabilimento irto di ciminiere fiammeggianti di fumi, dove il volenteroso giornalista scopre inorridito “l’ala nera come inchiostro che invadeva tutto il cielo”.

Il rapporto Ecomafia, dunque, ha il merito di ten- tare una descrizione detta- gliata ed anche una quan- tificazione del fenomeno di questo intreccio tra crimi- nalità e devastazione am- bientale. È d’obbligo preci- sare che, sia nel titolo che nel testo, il termine “mafia” è usato in modo estensivo, sta per criminalità e non si limita ai reati contemplati dall’articolo 416 bis del co- dice penale come criminalità

organizzata di stampo ma- fioso. Questa distinzione ha sicuramente un rilievo im- portante nei tribunali, meno per identificare quell’intrec- cio perverso che precipita nei cosiddetti “ecoreati”. La particolare propensione cri- minale in campo ambientale nel nostro Paese ha peraltro diverse cause che occorre rammentare: pesa il fatto che la nostra sorprendente scalata nella graduatoria dei principali Paesi industria- li del mondo, fino al quinto posto, avvenuta nel secon- do dopoguerra, ha goduto del vantaggio competitivo di disporre a titolo gratui- to delle risorse ambientali (suolo, acqua, aria); da qui è discesa una strutturale inadeguatezza delle norma- tive di tutela, fino al recente

Sblocca Italia; va ricorda-

to, a titolo d’esempio, che il reato ambientale è stato inserito nel codice penale solo nel 2015; in ogni caso la struttura istituzionale dei controlli, in particolare il si- stema Ispra e Arpa, è molto carente e, spesso, condi- zionata dalla politica; infine, a questo quadro oggettiva- mente critico va associato il retaggio del tradizionale co- stume degli italiani, il diffuso “familismo amorale” che si

traduce nel disinteresse per ciò che è al di fuori del pe- rimetro della famiglia e della propria dimora e proprietà, la disponibilità corruttiva in nome del particulare e la conseguente noncuranza per l’ambiente naturale e per la casa comune, l’oikos, appunto.

Non possono quindi stupirci più di tanto i dati del rapporto predisposto da Legambiente. Nel 2016 i reati ambientali accertati delle forze dell’ordine e dalla Capitaneria di porto han- no toccato il ragguardevole numero di 25.889, pari a una media di 71 al giorno, circa 3 ogni ora. A questi corrispondono 225 arresti, 28.818 denunce e 7.277 sequestri. Il fatturato delle ecomafie è valutato attorno a 13 miliardi, in netta diminu- zione rispetto ai 22 miliardi del 2014, a testimoniare una sempre maggiore efficacia dell’azione investigativa e repressiva. Vengono inoltre evidenziati il fenomeno della corruzione, che continua a dilagare in tutta la Penisola con ben 76 inchieste in cui le attività illecite in campo ambientale si sono intrec- ciate con vicende corrutti- ve, la questione dell’abu- sivismo edilizio con 17mila