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Il sottotitolo dell’ultimo libro di Carlo Olmo - Città e de-

mocrazia. Per una critica delle parole e delle cose

(Donzelli, 2018) - è un espli- cito omaggio a Michel Fou- cault. Cinquantadue anni fa veniva pubblicato Les mots

et les choses, un libro affa-

bulatorio, infinito, destinato a lasciare un solco profondo in molte discipline. Un eser- cizio di archeologia delle scienze umane che si apre richiamando “il malessere di coloro il cui linguaggio è distrutto”. I rapporti tra i di- scorsi nei settori scientifici definiscono ciò che Fou- cault chiama “episteme” di un’epoca, termine che Pia- get confronterà con quel- lo kuhniano di paradigma. Quella che il libro rilancia è una ricerca sulle parole fondative dell’Occidente, contribuendo a diffondere, negli anni Sessanta, la vo- lontà di interrompere ogni continuità con il passato e rifondare modi di pensare e di essere. Con un impul- so di radicalità che segna l’eccezionale fervore che ha preceduto il ‘68, condizione nella quale l’intero insieme sociale sembrava assumere l’aspetto di un’enciclopedia tassonomicamente visibi- le e dominabile, ad avere

LO SPAZIO IN CUI

CI SI RENDE VISIBILI

E LA CERBIATTA

DI CUARÓN

Pubblicato sul sito web della Casa della Cultura il 5 ottobre 2018.

Della stessa autrice, v. anche: La ricezione è un

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usare l’ossimoro provoca- torio di Goffredo Fofi: con- statazione di un processo in atto. La fine è già presente. Ed è qui che la perdita (del futuro, come della cittadi- nanza) è introiettata nell’in- conscio collettivo. Fino a rendere più facile immagi- nare la fine del mondo che il mutare del nostro presente.

Entro questa diversa sfera lo spazio pubblico è ancora esemplare. Ed è an- cora totalmente moderno, anche se nega il futuro che il moderno aveva la pretesa di costruire. Lo spazio pub- blico contemporaneo ha, a suo modo, violato entrambe queste forme e con esse, ogni residuo di pedagogia.

Si può discutere del libro di Olmo, da questo punto di vista. Lo spazio pubblico come spazio pedagogico è un’idea che si è sfaldata. E non solo perché l’orto so- stituisce la piazza. O il gar- dening, lo stare nella sfera pubblica habermasiana.

L’entre nous, l’entre voisins,

il vivere in piccole cerchie, tra amici, tra vicini, le minu- scole utopie cooperative in cui individui destinati alla so- litudine si impegnano in un mutuo soccorso: tutto que- sto ci dice che l’idea univer- salista dello spazio pubblico

e della sua pedagogia è alle nostre spalle. Si è incrinata l’accezione arendtiana del- lo spazio pubblico come condizione universalista del rendersi visibili reciproca- mente. Come si è incrinata l’accezione habermasiana del pubblico come luogo nel quale l’influenza si forma e dove si lotta per conquistar- la. Neppure le critiche fem- ministe, su chi sorveglia la sfera dell’apparire, sembra- no procedere. Oggi la cura e la pedagogia avvengono entro una diversa grammati- ca del vivere insieme, in una società segnata da compre- senza e pluralità di preferen- ze, valori, soggetti, ma da una fondamentale assenza di intenzionalità comuni. Le conseguenze sullo spazio pubblico e sul suo proget- to non possono che essere radicali. E il problema diven- ta, come il libro suggerisce, far convivere i tanti parti- colarismi con forme ormai sdrucite di rappresentanza che non corrispondono ne- cessariamente a un’idea di pubblico. In senso deweya- no, credo di intendere.

Per Olmo il punto di partenza per capire i nessi tra città e democrazia è, di nuovo foucaultianamente, vedere la verità come sape-

re costruito storicamente.

Lo si coglie bene quando nel primo capitolo sottolinea la necessità di riprendere una discussione sulla “com- plessità”. Una discussione che non abdichi al governo come ingegneria istituzio- nale, a visioni tecnocratiche dello spazio pubblico o al multiculturalismo accomo- dante. Vedere la verità come

sapere costruito storica- mente implica un duro lavo-

ro di scavo, così come Olmo ci ha abituato ad aspettarci dai suoi testi. Ma lo scavo, al quale egli non mostra di credere molto, può essere anche condotto nell’indagi- ne e nel progetto. Le parole si ricostruiscono anche lì, “in situazione” come si di- ceva una volta. Dove è più drammatico il rapporto tra la competenza e la rappresen- tanza (così Alessandro Piz- zorno in conversazione con Bernardo Secchi e Pier Luigi Crosta). Ovvero entro l’am- bito di un sapere urbanistico certo un po’ ammaccato, al franare delle sue parole (e non solo). Ma che sareb- be un errore pensare abbia esautorato le sue ragioni. più evidenza. L’urbanistica,

l’architettura, il progetto, hanno avuto sempre un’ani- ma rudemente pedagogica. Hanno immaginato di edu- care, proteggere, guidare entro visioni panoramiche della città, non vitalistiche e micrologiche. Hanno ritenu- to di poter imporre un modo di vivere ad un pubblico da orientare e persuadere. Di come quest’anima peda- gogica si sia espressa nel moderno ricordiamo tutti. Del presente siamo meno attenti: ma la ville garantie dei tanti protocolli e norme, le nuove riduzioni funzionali- ste, le declinazioni coercitive delle smart cities, le pretese ecologiste che amplificano pretese educative hanno tutte questa stessa arro- ganza.

Lo snodo di ogni mec- canismo pedagogico è lo spazio pubblico. Quello in cui ci si rende visibili recipro- camente, secondo Arendt; dove l’influenza si forma, se- condo Habermas e dove si lotta per conquistarla; dove anche la vita spogliata di di- ritti ritrova una possibilità di forme collettive di rifiuto, se- condo le critiche femministe ad Arendt e Habermas. Quel legame, fondamentalmente pedagogico tra spazio ma-

teriale e spazio della politica ha resistito a lungo rifletten- dosi anche nel suo contra- rio. Nello spazio distopico vuoto di uomini, pieno di ri- fiuti e animali poco domesti- ci: la cerbiatta in Children of

men di Alfonso Cuarón, per

intenderci. Che non a caso si rende visibile, per pochi secondi, nei corridoi ingom- bri di pozzanghere e rifiuti, di una scuola abbandonata. Un’immagine potente che racconta il contrario di quel mondo, in cui ad animare lo spazio “di tutti” è un impeto pedagogico.

È noto che il cinema e la letteratura di fantascienza, dopo essersi a lungo misu- rati, negli anni Settanta, con i cyborg, abbiano affrontato l’incubo della perdita del fu- turo. Un incubo diventato, da lì in poi, il rovesciamento della versione avveniristica di quel genere letterario che aveva i suoi padri nei grandi scrittori popolari (da Ornwell a Huxley) che hanno de- scritto cosa eravamo desti- nati a diventare, quale mon- do stavamo costruendo. O distruggendo. In altri termi- ni, quale futuro ci aspettava. Negli anni successivi, la fan- tascienza ricompare in una versione diversa. Una sorta di nuovo neo-realismo, per

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del libro Il suolo sopra tutto.

Cercasi “terreno comune”: dialogo tra un sindaco e un urbanista (Altreconomia,

2017): non è la singola sto- ria il centro del volume scrit- to a quattro mani dalla stes- sa Matilde Casa con Paolo Pileri. Il cuore del problema è, piuttosto, il sistema che - al di là delle leggi dispo- nibili, francamente equivo- che e inadeguate - si fonda su asimmetrie insuperabili, destinate a consegnare di qui all’eternità il nostro ter- ritorio alla speculazione. Le asimmetrie riguardano la debolezza degli apparati tecnici in municipi di taglia piccola o microscopica (ma non è che nei grandi cam- bi molto); e poi le difficoltà, per molti amministratori, di comprendere il linguaggio iniziatico dell’urbanistica, la cui sintassi è tanto bizanti- na da dettare - nota giusta- mente Pileri - una rappre- sentazione della realtà così forte da imporsi, attraverso i piani, alla realtà effettiva; e infine la grande ipocrisia che inquina la politica ter- ritoriale negoziata, da un lato astrattamente ispirata a nobili principi (sostenibili- tà, rigenerazione, economia circolare), dall’altro riporta- ta alla quota dello scambio

mercé il ricorso alle sottili al- lusioni al “rammendo”, al ri- compattamento urbano, alle “rimarginature dei bordi”, alle “aree intercluse”. Tutte soluzioni in sé non ignobili, ma che ignobili lo diventa- no se servono ad eludere la domanda di fondo: “ce n’è davvero bisogno? La nostra comunità ha davvero biso- gno di impermeabilizzare ancora, cioè di sacrificare un bene naturale destinato a finire, indipendentemente dalla ragionevolezza e dal sussiego con cui l’ingegne- re o l’architetto espongono l’idea, condendola con i ri- ferimenti lessicali à la page necessari per addolcire i pa- lati più radicali?”.

Casa e Pileri compio- no un’opera di sana de- mistificazione, dimostran- do che, a prescindere dal rallentamento dovuto alla Grande Crisi e alla conse- guente ristrutturazione del comparto edilizio, la natura dell’economia delle costru- zioni, in Italia, è solidamente avvitata sulla trasformazione dei terreni, cioè sull’unica operazione, squisitamen- te politica, che consente di moltiplicare il valore dell’in- vestimento di così tante volte da rendere ininfluente il fattore tempo. Che cosa si-

gnifica? Semplice: essendo il risultato della speculazio- ne così profittevole, posso permettermi il lusso di at- tendere, una volta ottenuta l’edificabilità potenziale, an- che molti anni prima di con- cludere l’affare, o cedendo l’area a terzi, o costruendo e poi vendendo gl’immobili. Esiste, quindi, una singolare sfasatura cronologica che si somma alle già osserva- te asimmetrie tecniche e informative: un’amministra- zione legge il territorio con una profondità temporale di solito di cinque-dieci anni; gl’investitori, viceversa, han- no disegni che si sviluppano anche su dieci-vent’anni o più; i cittadini, infine, igno- rano, perché nessuno li ha educati a questo, che le decisioni sul consumo di suolo incideranno sulla vita non solo della loro, ma delle generazioni a venire (e qui la scala temporale si dilata a dismisura). In pratica, i reali titolari del bene suolo - non i proprietari legali, transitori per definizione, ma tutti noi che, attraverso la pubblica amministrazione, possiamo in teoria stabilire il destino (cioè l’uso) del territorio nel quale viviamo - sono siste- maticamente espropriati del diritto di decidere, dato che