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NON TUTTE LE COLPE SONO

DELL’URBANISTICA

Pubblicato sul sito web della Casa della Cultura il 14 settembre 2018.

Dello stesso autore, v. anche: Si può essere

“contro” l’urbanistica? (20 ottobre 2015); Quale urbanistica in epoca neo-liberale (3 febbraio 2017); Pianificazione “antifragile”: problema aperto (23

giugno 2017); Una vita da urbanista, tra cultura e

politica (24 novembre 2017).

Sul libro oggetto di questo commento, v. inoltre: Giancarlo Consonni, In Italia c’è una questione

urbanistica? (15 giugno 2018); Domenico Patassini, Urbanistica: una pratica più che una disciplina (14

317 316 CITT À BENE COMUNE 2018 viaBorgog a3 | supplemento progetti di trasformazione, migliora la qualità della vita della popolazione insedia- ta. Non siamo, quindi, di fronte a un’attività neutra, ma ad una che nell’ambi- to specifico delle proprie competenze pone problemi di scelta e di alternative. Si tratta infatti di tradurre in “opere di trasformazione” quanto contenuto negli in- dirizzi politici espressi dalla pubblica amministrazione e sulla base di quanto, spes- so, sta già avvenendo nella città (del resto, secondo i casi, l’urbanista può essere coinvolto anche nella defi- nizione di detti indirizzi po- litici). Voglio dire che esiste una responsabilità politica dell’urbanista, ma che tale responsabilità può eserci- tarsi solo in presenza di una determinata scelta politica dell’amministrazione.

L’urbanistica in sé e per sé non ha nessuna legitti- mità nel definire e attuare le trasformazioni della città che graveranno sulla po- polazione che in quella città vive. Non si tratta di difen- dere gli urbanisti o l’urbani- stica, ma soltanto di mettere in evidenza ruoli e responsa- bilità. Non si può negare che in certe fasi storiche l’urba- nista si è sentito investito

di poteri che invadevano la sfera delle decisioni politi- che, ma si è trattato di una fase nella quale lo spirito ri- formista dell’urbanistica ha incontrato una posizione progressista della politica (i casi sono noti e riportati anche nei testi esaminati). Tuttavia, anche in quella fe- lice occasione la mancata distinzione di ruoli e poteri ha spesso portato a con- flitti, tra l’amministrazione e il “progettista”, a continue discussioni e revisioni del piano (fino a fare apparire l’urbanistica un’attività sen- za una vera presa sul tem- po e la realtà) che, spesso, hanno finito per vanificare o almeno depotenziare ogni ipotesi pianificatoria. Per non parlare dei piani rifiuta- ti in toto (i casi sono molti e noti). Con questo ragiona- mento sul ruolo “tecnico” non intendo sostenere che ogni urbanista sia costretto a fornire il suo specifico sa- pere a qualsiasi decisione politica. Sarà scelta indivi- duale del professionista ac- cettare o meno incarichi che contrastino con il proprio si- stema di valori (politici, idea- li, sociali e culturali). Non va dimenticato, infatti, - anche in questo gli esempi che po- tremmo portare sarebbero

numerosi - che l’urbanista è anche un intellettuale che combatte le sue battaglie su diversi piani e con mol- teplici strumenti. Così come non può essere dimenticato che, d’altro canto, alcuni urbanisti, in buona fede o per opportunismo, hanno finito per piegare il loro sa- pere agli interessi più bie- chi presenti nella società. Da questo punto di vista i nostri autori hanno ragione da vendere, ma sbagliano bersaglio quando investono con la loro critica l’urbanisti- ca nel suo insieme come di- sciplina, piuttosto che certi specifici modi di praticare la professione.

Se guardiamo al pano- rama complessivo del no- stro Paese e delle nostre città, non possiamo affer- mare di essere di fronte al “fallimento” dell’urbanistica ma, piuttosto, alla “scon- fitta” della disciplina. Il che fa una notevole differenza. L’urbanistica quale attività di continuo riordino della città, di riduzione delle sperequa- zioni spaziali e sociali, quale “norma” che elimina l’arbi- trio dei singoli nella trasfor- mazione della città, ha molti nemici che solo una politica progressista tecnicamente assistita può sconfiggere meccanismi istituzionali o

attraverso iniziative autono- me, ma le istanze che emer- geranno andranno interpre- tate sia sul piano politico che su quello tecnico: non avranno cioè un carattere cogente se non per quanto previsto istituzionalmente. La legittimità dell’ammini- strazione pubblica a decide- re dei destini della città e del territorio è caratterizzata da un aspetto formale (ma non privo di sostanza) che indivi- dua nella delega all’ammini- strazione stessa (democrati- camente eletta) il “governo” (pro tempore) della città e delle sue trasformazioni e da un aspetto sostanziale che riconosce all’ammini- strazione la consapevolezza dei bisogni dell’intera città, della comunità che in essa è insediata, e non di sue singole parti o gruppi sociali (prerogativa, questa, non sempre manifesta e garan- tita).

Vorrei chiarire che la le- gittimazione della politica non riguarda le scelte spe- cifiche e puntuali di orga- nizzazione urbana quanto, piuttosto, gli indirizzi di evo- luzione della città, la qualità dei servizi, la relazione da costruire tra bisogni della popolazione e servizi pubbli-

ci offerti. Cioè la definizione di un quadro di riferimento sull’evoluzione dell’organi- smo urbano e sugli indirizzi di questa evoluzione. Non dovrebbe trattarsi di un po- tere decisionale sulle spe- cifiche realizzazioni quanto, piuttosto, di un indirizzo denso di contenuti sulla di- namica futura di quella spe- cifica città. Non è un caso che tali indirizzi trovino in molte legislazioni regionali una loro espressione forma- le nel “documento prelimi- nare” che impegna l’ammi- nistrazione pubblica su una linea di politica di sviluppo.

Il “tecnicamente assi- stito” di cui dicevo prima fa, ovviamente, riferimento all’urbanistica, alle sue pra- tiche progettuali operative, ma non si tratta di un’attività di routine o semplicemente tecnica (tipo larghezza delle nuove strade, distanze tra gli edifici, ecc.). Piuttosto, questa va considerata come un’attività politico-culturale che chiama in campo l’intel- ligenza creativa, la capacità di lettura della città e della sua realtà sociale, che si esprime anche attraverso la domanda della collettività per una città diversa e che, attraverso la traduzione de- gli indirizzi politici generali in

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pratiche o anche solo punti di vista non è prerogativa di un piccolo gruppo di intel- lettuali, seppur ampiamente qualificati. In nessun Paese europeo sono presenti tan- te riviste di settore come in Italia, ben due associazioni nazionali di urbanisti che conducono analisi sullo sta- to di salute delle nostre città e della disciplina e collane editoriali specificatamente dedicate ai temi della città e della pianificazione. Il dibat- tito è vivace, franco, e spes- so senza inutili prudenze di- plomatiche. Anche con tutto ciò è necessario misurarsi. Come non capire che chi ha parlato di “cassetta degli at- trezzi” non pensava a pinze, martelli e cacciaviti ma, piut- tosto, ad attrezzi concettua- li, né faceva un discorso di “tecniche”? Come non riflet- tere sul fatto che il campo dell’attività dell’urbanista sia quello dell’elaborazione di politiche adatte alla realiz- zazione di obiettivi pubblici, condivisi, e che per queste non esiste un prontuario ma la loro elaborazione im- pegna saperi, creatività e intelligenza di chi opera? Ci si può, certo, accomodare sulla banale semplificazio- ne ma, proprio per quan- to detto prima, non si può

tralasciare di considerare che il campo conflittuale nel quale si misurano le forze sociali - ovvero la città - non può che influenzare anche quelle culturali che proprio della città si occupano. Una qualsiasi riflessione sull’ur- banistica merita attenzione contro ogni riduzionismo e richiama la necessità di con- frontarsi con mente aperta, senza pregiudizi.

Ci sono due questioni con le quali vorrei conclude- re queste mie osservazioni. Mi pare che ogni discorso sull’urbanistica in azione non possa essere sviluppa- to senza affrontare il nodo della politica. La sua degra- dazione pare enorme e con questa situazione dobbiamo fare i conti non solo come urbanisti ma anche come cittadini. Su questo fronte mi pare di cogliere, in generale e senza fare riferimento agli autori che ho citato in parti- colare, molte illusioni, se non la tendenza ad imboccare scorciatoie. Eppure, la città è un fondamentale campo per misurare effetti e con- seguenze delle scelte politi- che e forse, proprio da ciò, bisognerebbe partire per affrontare qualsiasi riflessio- ne sull’argomento. Muovere dalla politica non significa

abbandonare il terreno spe- cifico della disciplina. Le tra- sformazioni della città sono l’esito aggregato di spinte economiche (sull’appropria- zione dello spazio), di ten- sioni ideali, dell’affermarsi di nuove scoperte tecniche e scientifiche, delle dinamiche della cultura (in generale e specificatamente urbana): un insieme che va analizza- to e incardinato nella realtà di ogni contesto. Il dibattito urbanistico è spesso vivace ma le contrapposizioni tra le differenti posizioni cultura- li, in realtà, non riescono a nascondere una questione di fondo: quella del tipo di società sottesa a ogni idea di città (desiderata). La cri- tica sullo stato della società ci obbligherebbe a qualco- sa di più dell’esplicitazione di un semplice “sogno”, a qualcosa di diverso dalla ri- affermazione di un modello di città ideale: ci invitereb- be a lavorare, a riflettere, a mettere a frutto i nostri sa- peri e la nostra cultura per dire qualcosa della città del XXI secolo, sfuggendo alle mode ora della città eco- logica, ora della smart city, ora della “rigenerazione”, ora della “città digitale”, o ancora delle comunità in estinzione e così via. Fare i o, almeno, contenere. Cari-

care sulle spalle dell’urbani- stica tutto quello che non ci soddisfa dell’organizzazione urbana non porta lontano, così come non cogliere le trasformazioni negli stili di vita della popolazione può portare ad attribuire alla di- sciplina responsabilità che travalicano il suo specifico ambito di azione. Un solo esempio: esaltare condizioni di vita come quelle dei Sassi di Matera nel secondo do- poguerra - cosa che non mi sento di condividere nono- stante il carattere comunita- rio che caratterizzavano tali condizioni in quel particola- re contesto fisico e sociale - accusando di grave errore urbanistico il tentativo, pe- raltro non completamente riuscito, di fornire a quella comunità - che viveva, non dobbiamo dimenticarlo, in condizioni deprecabili - una sistemazione più civile, mi pare una posizione senza speranza.

Non ho alcun dubbio che i miei interlocutori, nelle linee generali del mio ragio- namento, possano condivi- dere questa sistemazione dei ‘pezzi’ sulla scacchiera - si tratta di studiosi avveduti, preparati, colti - ma proprio per questo non posso ac-

cettare il loro giudizio sull’ur- banistica. Questo, a me pare, è frutto di una sempli- ficazione che porta a soste- nere che questa disciplina si è chiusa in un falso tecnici- smo, si è indissolubilmente legata ai cosiddetti poteri forti, insegue e avalla tra- sformazioni della città che peggiorano le condizioni di vita dei cittadini. Torno a dire l’urbanista è un intellettuale che combatte le proprie bat- taglie con strumenti diversi (comprese le “dimissioni”, in virtù di un ideale o, for- se, un’illusione). Non solo: mi pare di poter affermare che il dibattito urbanistico presente nel nostro Paese non abbia uguali altrove, per intensità e articolazione. Ricorrere alle semplifica- zioni, dunque, non sembra essere lo strumento adatto per comprendere una realtà che è assai articolata. “Fare di tutta un’erba un fascio” non rende giustizia all’intel- ligenza e alla cultura dei miei interlocutori e finisce per disconoscere la ricchezza della ricerca in urbanistica, anche se capisco che siano molti i segnali che spingono in questa direzione.

La consapevolezza del- la necessità di aggiornare strumenti operativi, teorie,

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conti con tutto questo e al- tro ancora è fondamentale per poter dire qualcosa di sensato e di utile per noi e le future generazioni.

Ridurre le sperequazioni spaziali, contribuire a limita- re le diseguaglianze socia- li, costruire spazi collettivi adeguati ai tempi e ai biso- gni (espressi o sottaciuti), fornire le condizioni perché comunità diverse da quelle che magari si amano pos- sano realizzarsi, accrescere la responsabilità collettiva, cercare di “manomettere” il senso comune degradato verso la ricerca di un risa- namento sociale, dare di- gnità a tutti i soggetti sociali anche a quelli nuovi, rico- noscere esigenze culturali diverse dalla nostra tradi- zione, avere consapevolez- za che il tempo di ciascuno di noi può essere sfruttato, utilizzato socialmente e at- tingere ad attività creative, ecc. Queste e altre sono le possibilità offerte al lavoro dell’urbanista che costitui- scono, ciascuna di esse, un campo di confronto-scontro politico.

Bisogna essere convinti che l’età dell’oro delle cit- tà non sta nel passato ma nel futuro. Avere i piedi nel passato è indispensabile.

Tuttavia, considerare che il passato può essere il fango che ci tiene fermi non si- gnifica negare le radici, ma essere consapevoli di una certa realtà. Lo sguardo al futuro, alle grandi possibilità esistenti, può permetterci di ragionare sulle condizioni attuali e future proponendo soluzioni che non ci sepa- rino violentemente da ciò che è alle nostre spalle ma che, contemporaneamente, sappiano guardare a ciò che ancora deve venire.

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critiche. La legge urbanisti- ca toscana del 2014 è stata la prima a tentare di deviare davvero il corso delle cose intoccabili dall’urbanistica. Là dentro si è provato a mettere suolo, paesaggio e natura in una posizione dominante rispetto alle ca- noniche richieste trasforma- tive dell’urbanistica e della politica. Di questa vicenda il libro è testimone ma lo sono ancor più quella legge e il piano paesistico che ne è scaturito.

2. Il libro è il racconto di un piano e quindi, neces- sariamente, trattiene dentro di sé parti ‘dure’ che de- scrivono scientificamente i connotati di un paesaggio, quello toscano, che danno conto dei criteri su cui ci si è basati per interpretarli e pianificarli, che mostrano apparati cartografici e ico- nografici irrinunciabili per un progetto urbanistico, e via di questo passo. Ed è corretto così, perché il paesaggio, il territorio, il suolo non sono banalizzabili in formulette ipersemplificate. A loro va restituita quella densità che è propria del loro status e dell’importanza degli argo- menti.

3. Nel libro il paesaggio è considerato un bene co-

mune, ma per davvero. Dico così perché oggi è diventato di moda dire che suolo ac- qua paesaggio lavoro scuo- la etc. sono beni comuni per poi fare in modo che nulla cambi rispetto a prima. L’inflazione di un concetto si porta sempre dietro il ri- schio di bruciarne il signifi- cato. Ma qui la convinzione di chi ha scritto quel libro fa la differenza. Bellissimo quel cenno non casuale alla spe- ranza che Anna Marson fa intitolando (e chiudendo) il suo saggio introduttivo “La

pianificazione del paesag- gio: qualche speranza per la qualità della vita nel ter- ritorio”. Effettivamente oggi

dobbiamo davvero spe-

rare che si torni a posare

lo sguardo su un territorio innanzitutto per quello che è e non solo per quello che potrebbe diventare. Dedi- chiamo troppa poca atten- zione al patrimonio esisten- te o quando la dedichiamo lo facciamo con quel tono ingessato e un po’ stucche- vole che subito viene perce- pito come antitetico a ogni modernità e futuro e quindi scartato dai più. E sbaglia- mo. In questo senso l’eser- cizio, seppur un po’ tradi- zionale, fatto nel piano della Toscana, come raccontano

gli autori, di fissare l’atten- zione su patrimoni, invarian- ti, morfotipologie, strutture, ambiti, personalmente lo ritengo corretto e quindi giustamente in grado di re- sistere, se così posso dire. È questa forma di resistenza (che in qualche modo Bal- deschi cita nel suo bellissi- mo saggio) che rappresen- ta secondo me un’ottima versione della speranza a immaginare un futuro della Toscana (e non solo) che possa durare nel tempo proprio perché ‘seduta’ su alcune questioni che non siamo disposti a sciogliere nella banalità di nessuna retorica tecnologica o svi- luppista. In questo senso il lavoro raccolto in questo li- bro è un argine alla banalità e va bene così. Questo non vuol dire affatto che i suoi autori (e io con loro) rifiutano il cambiamento: tutt’altro. Tutti noi vogliamo un cam- biamento, ma non siamo di- sposti che avvenga in modo casuale o sospinto dal vento del mercato o dall’interesse dell’imprenditore di turno. Nell’esperienza Toscana torna prepotentemente la mano pubblica, la deci- sione collettiva, l’interesse comune e questo non è ‘il male’ come qualcuno vuole