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I NUMERI DELLA CRIMINALITÀ

AMBIENTALE

Pubblicato sul sito web della Casa della Cultura il 19 gennaio 2018.

Dello stesso autore, v. anche: Riprogettare le città

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ad oggi è di tipo individuale, risulta estremamente diffi- cile. Va inoltre considerata la difficoltà strutturale del sistema giustizia nel nostro Paese, che dopo la sta- gione eccezionale di “Mani pulite” e del maxiprocesso alla Mafia, sembra regre- dire nell’alveo rassicurante di una grande cautela nei confronti del potere, eco- nomico e politico. Sembra, insomma riemergere la lo- gica, appunto, di un “Siste- ma”, nell’accezione che la storia del nostro Paese ha ampiamente sperimentato e da cui tuttora è attraversato: la “chiesa istituzione”, il regi- me fascista, la “democrazia bloccata” del secondo do- poguerra, la mafia, la corru- zione politica…

Ogni “sistema” per per- seguire i propri fini ha bi- sogno di “vittime sacrifica- li” che vanno accettate in nome di interessi superiori. E per questo è del tutto il- lusorio e impensabile che un simile “sistema” sia in grado di autogiudicarsi ed autocondannarsi in modo radicale: le vittime dell’in- quisizione di ieri e della pe- dofilia ecclesiastica di oggi attendono ancora giustizia; i criminali fascisti, sfuggiti ad un tribunale “altro” come

quello di Norimberga, han- no goduto di un “salutare” colpo di spugna; le stragi per “bloccare” la democra- zia restano in gran parte impunite; oggi sembra “im- possibile” estirpare le mafie e la corruzione politica. Pa- radossalmente, tra l’altro, è proprio “l’intermediazione della vittima” che rende forte il “Sistema” (J.-P. Dupui, Per

un catastrofismo illuminato,

2011). Cosicché, la manca- ta giustizia viene “compen- sata” celebrando le vittime, monumentalizzandole. Nei casi dei grandi ecoreati in gran parte impuniti (per tutti, il caso dell’amianto) il “sistema” è il capitalismo in- dustriale italiano, così come si è costruito nel corso del Novecento. Una sorta di “supersistema”, perché ani- mato dalla “superideologia” dello sviluppo (Pier Paolo Poggio), comune a tutte le ideologie novecentesche (li- beraldemocratica, fascista, comunista). La legittimazio- ne di quell’immane scempio compiuto in Italia tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottan- ta, opera ancora in profon- dità, è un dato strutturale dell’industrializzazione ita- liana ancora oggi. Perché il “supersistema” in versione italiana, in generale, salvo

poche eccezioni, rimane un gigante con i piedi di argilla, ancora oggi dipendente dal- le quelle condizioni che ne determinarono le fortune nel secondo dopoguerra: bassi salari; energia importata a basso costo grazie all’Eni di Mattei; imitazione creativa delle innovazioni altrui senza dover sviluppare in proprio costose strutture di ricerca; risorse ambientali concesse a titolo gratuito e senza al- cun vincolo. Nella congiun- tura attuale e nel contesto di una globalizzazione sen- za regole, emerge con ogni evidenza la sua strutturale fragilità: quelle condizioni di un tempo si incontrano oggi molto più vantaggiose in tante regioni del mondo, mentre l’energia fossile non ce la regala più nessuno. E l’Italia manifatturiera, in molti settori, arranca, inevitabil- mente.

Dunque, può il nostro “supersistema”, in queste condizioni di grande difficol- tà, fare i conti con i disastri ambientali che ne hanno determinato le fortune? No, anzi, il “supersistema” chie- de alla politica, se possibile, un ulteriore balzo in avanti nell’illusione che si possa- no ricreare oggi le condi- zioni di un nuovo “miracolo nuovi immobili abusivi nel

2016, il ciclo illegale dei rifiu- ti in crescita con 5.722 reati contestati (+ 12%), il fronte incendi segnato da 4.635 roghi che hanno mandato in fumo 27mila ettari. Per quanto riguarda la distribu- zione geografica le quattro regioni a tradizionale inse- diamento mafioso si confer- mano ancora ai primi posti nella classifica per numero di illeciti ambientali: in vetta la Campania con 3.728 ille- citi, davanti a Sicilia (3.084), Puglia (2.339) e Calabria (2.303). La Liguria resta la prima regione del Nord, il Lazio quella del Centro. Su scala provinciale, quella di Napoli è stabilmente la più colpita con 1.361 infrazioni, seguita da Salerno (963), Roma (820), Cosenza (816) e Palermo (811). Il rapporto 2017, comunque, segnala un trend positivo, sia per la diminuzione del numero dei reati, sia per la maggior efficacia delle sanzioni, che potrebbe essere ascrivi- bile ai primi effetti dell’in- troduzione della legge che punisce i reati ambientali. Questi, infatti, mentre era- no 29.293 nel 2014, sono scesi a 27.745 nel 2015 e a 25.889 nel 2016. Cresce, invece, il numero degli ar-

resti 225 (contro i 188 del 2015), di denunce 28.818 (a fronte delle 24.623 della precedente edizione di Eco- mafia) e di sequestri 7.277 (nel 2015 erano stati 7.055).

Nella parte finale del testo, Legambiente indica opportunamente gli ulteriori interventi necessari a rende- re ancor più incisiva l’azione repressiva. Alcune rifles- sioni, tuttavia, si possono aggiungere. Indubbiamente colpire i responsabili di re- ati ambientali è importante, anche agli effetti preventivi: forse si comincia a perce- pire che non sempre si può farla franca. Ma occorre ri- cordare che l’azione penale arriva sempre a posteriori, quando il disastro è stato compiuto e spesso, per le caratteristiche intrinseche dell’inquinamento ambien- tale, gli effetti nefasti sono irreversibili. Non solo. L’azio- ne penale incontra difficoltà oggettive: molto spesso gli effetti sull’ambiente e sulla salute dei cittadini indotti dall’inquinamento si scopro- no molti anni dopo l’evento che li ha provocati e dunque la prescrizione è spesso in agguato. D’altro canto, in particolare per i danni alla salute, dimostrare il nesso di causalità, che nel penale

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del governo della cosa pub- blica, dal livello centrale a quello locale, quella svolta paradigmatica, quella con- versione ecologica dell’eco- nomia e della società che non è più rinviabile e in cui il nostro Paese mostra ritardi inaccettabili, anche rispetto al resto dell’Europa. E qui le cose non vanno bene.

È impressionante come, anche di fronte ad allarmi sempre più evidenti, come la spaventosa siccità della scorsa estate, si reagisca solo con interventi emer- genziali, senza por mano a un progetto strategico di fuoriuscita, già ora tecnica- mente possibile, dalla civiltà termoindustriale basata sui combustibili fossili per av- viarci verso la civiltà solare. Insomma, come a proposi- to della corruzione, anche dell’ambiente non devono occuparsi solo le Procure, ma innanzitutto una politica profondamente rinnovata, emancipata dalla subalterni- tà al “supersitema” e dal gio- go degli interessi immediati, in certi casi persino perso- nali, e capace di riconqui- stare il proprio ruolo di guida lungimirante della comunità.

  economico”, “riaggancian-

doci”, finalmente, alla mi- tica “crescita”. La ricetta è semplice: mortificare ancor più il sindacato e i diritti dei lavoratori per deprimerne le pretese salariali; rilanciare la ricerca di idrocarburi sul territorio nazionale e nei no- stri mari in spregio alla loro naturale fragilità; destinare le poche risorse pubbliche, non all’unica grande opera necessaria di manutenzione e risanamento del territorio disastrato del Paese, ma a benefici fiscali per le imprese distribuiti a pioggia, dunque qualitativamente inefficaci; “sbloccare” grandi opere inutili, rimuovendo per l’en- nesima volta l’intralcio dei vincoli ambientali (Sblocca Italia).

La mancata giustizia per i disastri ambientali del passato è quindi coerente con la cultura e la politica attuali, sostanzialmente do- minate dalla logica totalitaria del “supersistema”. Si tratta della versione italiana di una sorta di “oscurantismo pro-

gressista. Un oscurantismo

di cui il ‘negazionismo’ degli

assassini della memoria dei campi non era altro che un

segno premonitore”, e che consiste nel “non prendere in conto i danni di un pro-

gresso tecnico crescente, senza limiti e senza alcun freno” (P. Virilio, L’università

del disastro, 2008). A quasi

80 anni dalla Shoah, in par- ticolare noi italiani ci ritrovia- mo ancora con molti conti in sospeso per le nostre responsabilità in quella ca- tastrofe. Sconfiggere il “ne- gazionismo” del “supersiste- ma” è dunque un’impresa improba e di lunga lena. Ed è un’impresa che non può essere, a mio parere, dele- gata alla magistratura. Un cambio di mentalità e la pre- venzione sono fondamentali e possono camminare solo su due gambe. Da un can- to la mobilitazione parteci- pata e consapevole delle popolazioni sul territorio per contrastarne il degrado e per salvaguardane la bellezza e l’integrità. E bisogna consta- tare che, a questo livello, si registra una nuova efferve- scenza, fioriscono a migliaia i comitati, i gruppi spontanei, le associazioni di cittadini attenti a quello che accade nei loro territori. Insomma, sembra che quel tradizionale costume italico “menefreghi- sta” cominci ad essere scal- fito, in parte superato, in par- ticolare tra i giovani. Dall’al- tro, però è imprescindibile che si determini negli indirizzi

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funzione sociale dello spa- zio pubblico e privato sen- za trascurare gli elementi monumentali. La composi- zione armonica di tutto ciò realizza la bellezza. Questi temi sono specificamen- te e chiaramente enunciati in particolare nel secondo saggio, ampliamente dedi- cato alla tesi sostenuta da Paolo Maddalena nel suo Il

territorio bene comune de- gli italiani (Donzelli, 2014)

sapientemente confrontata con la lettura del libro di Carl Schmitt in Il nomos della

terra (Adelphi, 1991). Tra i

molti spunti di riflessione stimolati da questo capitolo, fondamentale risulta la ne- cessità di considerare città e paesaggi come beni co- muni per vincolare un patto per una urbanità condivisa e ben concepita.

Non mi soffermo sulle considerazioni riguardanti assetto giuridico e politi- che urbanistiche delle cit- tà, mentre vorrei proporre qualche breve spunto di riflessione riguardante il contributo della cultura alla bellezza dei luoghi urbani, filtrata attraverso quella che è la mia lente di osserva- zione. Giancarlo Consonni ritrova negli elementi di brut- tezza dilagante l’indice della

profonda crisi di valori e di civiltà di questi tempi e indi- vidua responsabilità a diver- si livelli. Tra queste, quella che certamente condivido riguarda la suddivisione set- toriale delle competenze del sapere che ha fatto perdere la necessaria visione dell’in- sieme e, in particolare, nel campo preso in considera- zione, dello spazio fisico e della società. La seconda, conseguenza della prima, è la teorizzazione dell’ar- chitettura come disciplina autonoma, con poche re- lazioni con l’urbanistica e le scienze sociali. Non vi è dubbio che queste due ten- denze hanno dominato tutta la seconda parte del XX se- colo e ne abbiamo nefaste testimonianze nei profondi segni che hanno stravolto il vivere delle nostre città. Tra i tanti esempi che tutti ben conosciamo, il degra- do profondo delle periferie è senza dubbio l’elemento di maggiore evidenza. Tutti ab- biamo nel nostro immagina- rio un caso concreto di tale situazione; a me risuonano come unghie accanite su una lavagna gli insediamenti popolari nei quartieri di CEP e Begato a Genova, testi- monianza di incapacità di conciliare le esigenze abita-

tive delle classi popolari con la necessità di non creare quartieri ghetto, brutti e ino- spitali. Molte medie e grandi città italiane portano eviden- ti i segni di un degrado ci- vile dove le responsabilità di distorte visioni del costruito per l’abitare tra gli anni ses- santa e novanta del nove- cento sono più che evidenti. Oggi tuttavia possiamo cogliere una tendenza ver- so un’altra direzione che auspico possa incidere po- sitivamente sulla città del prossimo futuro. Nel mondo accademico e della ricerca scientifica l’interdisciplina- rietà, stimolata dalle condi- zioni di molti finanziamenti, è ormai una parola d’ordine che favorisce una visione olistica degli oggetti di stu- dio. Questo avviene in molti settori come testimonia il diffondersi in vari atenei di unità di ricerca interdisci- plinari, che focalizzano le loro attività su un obietti- vo condiviso fondadole su confronto, scambio e inte- grazione delle informazioni e dei risultati e, sempre più, su comuni azioni di proget- tazione. Nel mio settore, per esempio, è significativa la diffusione di centri per la conservazione e valorizza- zione dei beni culturali che