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L’URBANISTICA DEVE PARLARE

A TUTTI

Pubblicato sul sito web della Casa della Cultura il 21 settembre 2018.

Dello stesso autore, v. anche: Laudato si’: una

sfida (anche) per l’urbanistica (2 dicembre 2015); Se la bellezza delle città ci interpella (10 febbraio

2017); La finanza etica fa bene anche alle città (3 novembre 2017).

Sul libro oggetto di questo commento, v. inoltre: Francesco Ventura, Così non si tutela né il suolo

né il paesaggio (1 dicembre 2017); Anna Marson, È così che si commenta un libro? (15 dicembre

2017); Francesco Ventura, Su “La struttura del

paesaggio”. Inutili le polemiche, riflettiamo sui contenuti (12 gennaio 2018); Angela Barbanente, Paesaggio: la ricerca di un terreno comune (18

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no gli autori, ma mi pare che il libro si porti dietro un lin- guaggio che è sempre stato

ad usum di una circoscritta

cerchia di intellettuali urbani- sti che, spesso, si parlano e si capiscono tra loro senza rendersi del tutto conto che il mondo là fuori non li capi- sce del tutto. Questo non lo ritengo giusto. Mai l’ho rite- nuto giusto. Men che meno oggi per chi fa leva proprio su concetti come bene co-

mune, patrimonio, tutela condivisa. Se questa vuole

essere la strada, anche il linguaggio deve diventare bene comune e compren- sibile. Questo libro non è facile. Rischia di non essere letto. Ed è un peccato, per- ché lo sforzo fatto non arri- va a rigare il futuro. Rischia, insomma, di essere messo da parte prima di essere capito. Ed è un doppio pec- cato. Il codice accademico è ruvido, esclusivo, troppo forbito. Non voglio dire che bisogna rinunciarvi comple- tamente. Ma dico che non può essere questo il solo registro da tenere specie quando si intende parlare di questi temi a un pubblico ampio. Altrimenti il rischio è, paradossalmente, l’inco- municabilità oltre la propria ‘comfort zone’.

Personalmente sono convinto che se oggi pian- giamo alcuni guasti sul territorio è anche per aver ampiamente accettato che le parole dell’urbanistica fossero manomesse fino al punto da renderla incom- prensibile ai cittadini o, peg- gio, da scivolare nell’ambi- guità di termini e concetti. Forse per qualcuno non farsi capire è stata una scel- ta deliberata. Non è certo il caso di questo libro, ma ri- mane il fatto che prevedibil- mente pochi lettori potran- no esserne conquistati. Qui dobbiamo cambiare. La co- munità degli urbanisti deve sciogliere i linguaggi, farsi capire e lasciarsi interroga- re. Che non vuol dire rinun- ciare a usare parole precise quanto, piuttosto, fare uso solo di quelle il più possibile capibili, assicurandosi che i cittadini possano lasciarsi trascinare nelle narrazioni del progetto, anche lungo nuove vie. È sempre valido il detto secondo il quale, nes- suno difende quel che non riesce a conoscere fino in fondo: figuriamoci se non lo comprende neppure!

Se potessi abusare delle energie della collega Anna Marson e del suo gruppo di lavoro, che stimo since-

ramente, chiederei loro di costruire una versione non tecnica di questo libro con cui, magari con il supporto di designer e comunicato- ri, riuscire a traghettare nel conoscibile comune ciò che deve di diritto esserci. Fate- lo se potete. Avremo tutti da guadagnarci.

far credere, ma una forma possibile del bene. Se nel passato un pezzo del ‘pub- blico’ ha fatto male, non ha brillato certo il privato e, co- munque, non è accettabile buttarlo dalla finestra ma ha senso, semmai, elaborare il lutto degli errori commessi e impostare una strada di possibile riabilitazione. Que- sto libro è proprio la storia di una riabilitazione possibile che riporta il paesaggio in cima all’agenda dei pensieri di tutti, governati e gover- nanti. E lo fa lavorando nel cuore del paesaggio italia- no, la Toscana, per dirci che nulla è lì per caso ma tutto è il risultato di un ecosistema di cure, saperi, storie e tra- dizioni che non ha pari altro- ve. In Toscana il paesaggio di alcuni luoghi è talmente forte e indelebile da essere divenuto persino un colore: Terra di Siena bruciata. Non è neppure un caso che, passeggiando per quel- le colline, Norberg-Schulz abbia concettualizzato la famosa formula moder- na del ‘genius loci’. Come possiamo, allora, tollerare e immaginare un futuro nel nostro Paese se si stravolge il paesaggio, persino annac- quando i piani preposti a prendersene cura? La tutela

che si sta sperimentando in Toscana (e di cui, ogni giorno, vogliamo conoscere l’efficacia) non è una battu- ta di arresto per lo sviluppo, semmai un’interpretazione intelligente di un paradigma di sviluppo. Vorrei dunque ricordare al lettore che in questo esercizio di piano e di libro vi è anche un forte valore simbolico al quale possono appoggiarsi molti di quanti vogliono trovare un efficace riferimento cul- turale, scientifico e tecnico per proporre a loro volta una pianificazione di paesaggio più robusta e alternativa alle solite pratiche.

4. Ma le rose hanno pur sempre le spine. E anche qui ve ne è qualcuna di ap- puntita: il linguaggio. Il libro, dobbiamo ammetterlo, è difficile. Non è per tutti. E questa è una dolorosa con- traddizione perché se il pa- esaggio è patrimonio collet- tivo e bene comune, anche il modo con cui lo racconto, ne fisso le norme e i criteri che uso per tutelarlo, de- vono essere alla portata di tutti. C’è sempre un modo più semplice per afferma- re un concetto complesso senza banalizzarlo, ma va ostinatamente progettato e cercato. Non me ne voglia-

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anche la pars destruens è in- consistente. Se, nonostante ciò, la si apprezza è perché raccoglie e dà in qualche modo autorevolezza a un sentire diffuso, senza analiz- zarlo e discuterlo, incontran- do così un generico consen- so in uditori e lettori. Il con- tenuto dello scopo supremo - per Settis - è il “Paesaggio” inteso nel senso più ampio possibile, ossia l’intera con- figurazione dello spazio abi- tato, che ha qualità paesag- gistica quando vi è equilibrio armonico tra “Natura” (antro- pizzata nella forma paesag- gio) e “Cultura” (agire tecnico produttivo) e tra quest’ultima e la comunità, dove devono regnare giustizia sociale e diritti alla città, al paesaggio, all’ambiente, alla natura. Tut- tavia, non vi è un’autentica argomentazione a sostegno di tale scopo e della sua etica, quanto, piuttosto, un rinvenire nel passato tale equilibrio e il suo ethos, che, nel nostro tempo, il dominio dell’homo faber sulla “natu- ra” va infrangendo. Qui sta il facile e generico consenso verso la pars destruens: chi è che oggi non avverte uno iato tra il passato e il presen- te, tale da apparire senza precedenti e suscitare qual- che inquietudine?

Allora, l’interrogativo centrale per un commento critico è: quale fondamen- to può avere, se ce l’ha, un’unica etica per l’opera- re dell’architetto nel nostro tempo e, più in generale, di qualsiasi tecnica? Qui sta l’autentica lacuna delle le- zioni di Settis. Nulla egli dice, infatti, sul perché - in senso rigoroso e fondato - l’ethos della tradizione sia venu- to meno. E se il tramonto dell’ethos della tradizione è fondato e non un puro evento storico culturale che possa essere sostituito da qualsiasi altro evento inclu- so il suo ritorno, ne conse- gue che la sua riproposizio- ne è priva di fondamento. È sempre possibile per chiun- que, soprattutto secondo il senso di libertà che domina il nostro tempo, aver fede e proporre qualsiasi etica, ed esercitare l’idonea retorica per convincere il più alto nu- mero di persone possibile. Altro è mostrarne la fonda- tezza aldilà della fede, os- sia secondo logos. Mi pro- pongo dunque di mostrare l’infondatezza di qualsiasi etica, aldilà della pura fede. E ciò alla luce del pensiero contemporaneo, che ha demolito - fondatamente - ogni metafisica della tradi-

zione. È, infatti, alla metafi- sica che Settis si rivolge in ultimo, pur senza nominarla esplicitamente, per dare au- torevolezza alla sua propo- sta etica.

Settis, giustamente, ponendo a tema etica e tecnica e la loro relazione, non poteva evitare di risali- re a quel testo originario del pensiero “Occidentale” che è l’Etica nicomachea di Ari- stotele. Vediamo innanzitut- to cosa estrapola Settis dal pensiero di Aristotele in fun- zione della sua proposta. Le

technai, quindi anche l’ar-

chitettura (oikodomiké té-

chne), che è una téchne tra

molte, si apprendono - rileva da Aristotele, Settis - dall’in- segnamento e dalla pratica, ossia guardando fare, imi- tando e facendo, si assume col tempo l’abitudine (ethos) del technikós, dell’esperto. “Il punto decisivo - mette in luce Settis - è, in termini greci, la giuntura tra téch-

ne (che potremmo tradurre

“professionalità”, “abilità tecnica specifica”, o “co- noscenza del mestiere”) ed

ethos; ma la dimensione

morale - prosegue Settis - ha senso solo se commi- surata sulle esigenze della comunità (in termini greci della polis) […] si pratica il

Francesco Ventura

Nel suo commento al libro di Salvatore Settis - Architet-

tura e democrazia. Paesag- gio, città, diritti civili (Einaudi,

2017) - comparso in questa rubrica l’8 dicembre 2017 con il titolo Città e paesaggi:

traiettorie per il futuro, il so-

ciologo Giampaolo Nuvolati mette in rilievo che “la pars

destruens - dal commen-

tatore apprezzata - è scar- samente corredata da una

pars construens”. Penso

che a chiunque legga que- sta raccolta di lezioni tenute da Settis all’Accademia di Architettura di Mendrisio nel 2014/2015 salti all’occhio la mancanza rilevata da Nuvo- lati. Eppure, sono lezioni che hanno lo scopo esplicito e ben determinato di richiama- re gli studenti di Architettura alla responsabilità pubblica che loro compete: il dovere di congiungere il sapere tec- nico all’etica della Polis, os- sia di subordinare i molteplici fini dei committenti di opere architettoniche allo scopo supremo costituito dal co- siddetto “bene comune”. Questa è la pars construens chiara e inequivocabile. Se non viene notata come tale, nonostante la sua esplicitez- za, è perché implicitamen- te la si ritiene irrilevante nel nostro tempo. Ma se è così,

SAPERE TECNICO